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Brivido all'italiana. Delirio per Alessandra
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Brivido all'italiana. Delirio per Alessandra
Ebook322 pages4 hours

Brivido all'italiana. Delirio per Alessandra

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About this ebook

Tra i pochi autori italiani inseriti nei “Gialli Mondadori”, Franco Enna è considerato uno dei maestri della letteratura di genere italiana. Sceneggiatore, drammaturgo e scrittore, Enna ha firmato alcune delle pagine più originali del dopoguerra, prime fra tutte quelle dedicate al Commissario Sartori, un poliziotto siciliano disincantato e sensuale che anticipa le vicende di Montalbano. Alberto Tedeschi, mitico direttore del “Giallo”, definì l’opera di Enna con il termine “giallo d’arte”. Un giallo d’arte personalissimo che ama e ricerca la contaminazione: hard boiled, racconto realistico, fiaba, l’intreccio indissolubile fra Eros e Thanatos, animano il mondo creativo di uno dei maggiori protagonisti del noir made in Italy. Un incontro fortuito, forse casuale, cambia per sempre l’esistenza e il futuro di Toni Fontana, giovane e squattrinato pittore di belle speranze. Natalia, una giovane donna insoddisfatta, sposata per interesse a un facoltoso industriale, si innamora perdutamente di lui. Un vero colpo di fulmine, che coinvolge i due amanti fino a consumarli. Ben presto le insicurezze e gli squilibri caratteriali di Toni hanno il sopravvento. Alessandra, avvenente cognata e amica di Natalia, è una donna disposta a tutto, manipolatoria, accecata da un narcisismo senza freni. E Toni diventa l’oggetto preferito delle sua ansie persecutorie. Il gioco diventa via via pericoloso e sfugge di mano ai protagonisti. La ragione lascia il posto alla passione e in un crescendo tragico Toni dovrà fare i conti con i suoi fantasmi e con il peso ambiguo e schiacciante della notorietà e del rimorso. 
LanguageItaliano
Release dateSep 20, 2018
ISBN9788893041331
Brivido all'italiana. Delirio per Alessandra

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    Brivido all'italiana. Delirio per Alessandra - Franco Enna

    2018

    DELIRIO PER ALESSANDRA

    Momento

    Io ti penso, Alessandra, in questo autunno bizzoso che sfiora le pareti grigie delle case di città. Mi sento come calato nell’asfalto, albero divenuto d’uno di questi quartieri di periferia dove gli uccelli non si posano.

    Ti penso anche se sei morta per mano mia, e quasi nel ricordo non hai più volto, se non dove ti fisso più certa negli atteggiamenti che ti conobbi: il braccio alto sul capo, se mi guardavi in attesa dal letto, dopo un'ora di sfibrante follia; o nel tuo vestirti sotto i miei occhi (Vado, dicevi; non posso tardare. Anche se ti sarò lontana, continuerò a vivere di te!), e infilavi le gambe nervose nelle calze color carne; o nel tuo muovere la bocca irregolare, avvezza più al silenzio che alla parola, per farmi capire che mi desideravi ancora, e io riflesso in te, nei tuoi occhi, come l'ombra delle montagne nello specchio d’acqua.

    Forse ora sai perché ti ho uccisa. Forse lo desideravi, per un maggior godere di me, chissà, per farmi appartenere di più al tuo destino. Chi mai può dire com'è fatta l'anima di una donna? E i suoi sensi, di più, e quell’insano selvaggio desiderio di prendere del tutto.

    Oggi che sei morta tu mi possiedi realmente. Hai vinto. E questi cinque anni sono stati l’inizio della mia pena, anche se gli uomini ignorano la mia colpa. Altri ne verranno, forse, né io so farli brevi: ho paura di raggiungerti, non perché io tema la tua punizione ma perché diverrei tuo schiavo. Per sempre.

    Ma tu almeno, sai perché ti ho uccisa?

    Voglio tornare dove t’incontrai la prima volta e di lì risalire le strade che percorremmo insieme, fino alla tua morte. Se avessi immaginato quello che avrei provato dopo, mi sarei tagliato questa mano prima di darle forza sulla tua gola di cigno.

    Ma la vita non ha pietà. Non consente ritorni.

    PRIMA PARTE

    Capitolo primo

    L’ombra aleggiava sulla tela come un alito nero, stranamente informe nel contorno che il pennello aveva tracciato. Faceva pensare a un mostruoso uccello, o forse a una chiocciola, o meglio a un’isola emergente da un mare irreale, e sembrava alimentata da un fermento di toni chiari o di linee sottili che s’interrompevano bruscamente per intersecarsi con altre ombre minori. Nulla era forse quell’ombra scesa a macchiare il bianco della tela, eppure lui sapeva ch’era quello scoglio, laggiù, vicino alla barca capovolta, quando il sole cadeva a picco sul promontorio e i gabbiani tacevano.

    Il mare era calmo, fino all’orizzonte. Soffiava la solita brezza odorosa di salsedine e Pantelleria, in lontananza, non si scorgeva ancora. Raramente passava qualche automobile sulla strada polverosa che portava a Mazara del Vallo. Lui, comunque, la ignorava; le volgeva le spalle sprezzante e non aveva occhi che per il mare. Quello era un tempo marino, per la sua arte.

    Posò il pennello e la tavolozza sopra una sedia e si lasciò cadere sulla ottomana, dove si concesse una sigaretta. Da qualche ora sentiva un prepotente desiderio di fumare, ma come sempre non si era permesso nessuna tregua. Aveva lavorato affannosamente, semiaccecato dal riverbero del sole sui vetri della finestra, che non poteva chiudere o schermare perché il suo modello si trovava là, sulla riva.

    Si passò una mano sugli occhi. Sentì il palmo umidiccio, e percepì un rivoletto di sudore freddo giù dalle ascelle. Il termometro doveva segnare trentacinque gradi all’ombra, in quel luglio smanioso. Nessuno, però, veniva a turbare la quiete di quel tratto di scogliera. Il mare era alto sulla riva e al minimo soffio di vento levava ondate paurose. A lui piaceva la voce del mare, nelle sue quieti e nei suoi furori.

    Sbuffò il fumo a boccate lente, con gli occhi socchiusi e le gambe larghe, senza perdere di vista il rettangolo della finestra. Le rose gialle nella vecchia pentola di latta sul davanzale avevano perduto qualche petalo, che la brezza aveva gettato sul pavimento di mattoni rossi logori dal tempo. Una barca passava lontano, verso il porto, e lui la seguì con lo sguardo finché non scomparve oltre il taglio del davanzale. Poi riportò l’attenzione sullo scoglio vicino alla barca capovolta. Il sole si era spostato. L’ombra non era più la stessa di prima. Era passato il momento magico. Si sentì vuoto, infelice, come se gli avessero portato via un bene inestimabile.

    La sveglia sulla cassa gialla, all’angolo, segnava le due e cinque. Era caldo. Afa. La brezza non riusciva a dare frescura. La Sicilia d’estate, col sole, i fiori, la gente, la campagna gonfia di frutta, gli dava sempre il capogiro, ogni volta che vi tornava, e spesso anche nel semplice ricordo. Ma qui riusciva a trovare quella ispirazione che altrove gli mancava.

    Gli parve di assopirsi, e dalla tela l’ombra dello scoglio lo aggredì. Riuscì a difendersi dall’angoscia del momento. Si alzò con uno sforzo, voltò bruscamente la tela sul cavalletto, per non vedere più il dipinto.

    Come se il suo gesto fosse stato un segnale, dal basso si udì lo squillo di un campanello di bicicletta. Poi una voce di donna.

    "C’è nessuno?’’

    Meno di due metri lo separavano dal davanzale. Superò lentamente la distanza, come se in quella frazione di secondo si fosse dovuto decidere il suo destino. Vide lunghi capelli biondi, un abito bianco scollato, poi due occhi grigi, quando la ragazza sollevò il volto verso l’alto. Con una mano teneva la bicicletta rossa per il manubrio. Vedendolo, sorrise.

    Mi scusi. Mi è venuta sete. Potrebbe darmi un bicchiere di acqua? Non c’è nemmeno l’ombra di un casolare in questo deserto.

    Non era sprezzante, solo un tantino spregiudicata. Voleva rendersi simpatica, nient’altro.

    Vengo, sì.

    Si ritrasse, andò in cucina, prese il boccale di smalto, vi versò acqua fresca dalla quartara di terracotta e scese a pianterreno per la scaletta tortuosa. I suoi movimenti erano stati precisi come sempre. Niente nervosismo, anche se l'incontro con una bella ragazza poteva tirarlo fuori un poco dalla sua solitudine. Al terzultimo gradino rischiò di cadere. Non se ne ricordava mai.

    Lei aveva appoggiato la bicicletta al muro e si era seduta sopra una panchina di pietra addossata alla torre. Con un fazzolettino bianco si stava asciugando la fronte imperlata di sudore. In quel gesto lui notò la fede nuziale alla mano sinistra e il biondo ciuffetto di peli sotto l’ascella.

    L’ho disturbato, vero?

    Ma no!

    Grazie. Lei prese il boccale e lo accostò alle labbra. Bevve a lungo e nel frattempo i loro sguardi si tennero avvinti. Lei fu la prima ad abbassare il suo. Un lieve rossore le affiorò agli zigomi. Ottima! Freschissima! Dove la tiene?

    Ho una specie di orcio, in casa, quartara, dicono qui.

    Lei non è siciliano?

    No.

    Io neppure.

    Lui sorrise. Con quella precisazione sembrava che volesse renderglisi meno estranea. Lo sguardo di lei sfiorò il torace nudo del giovane e si posò sul mare.

    Mi scusi. Sto sempre in costume da bagno. Fa così caldo! E poi non viene a trovarmi nessuno.

    Vive qui? domandò la donna guardandolo negli occhi. Doveva sfiorare la trentina, ma un osservatore meno attento di lui gliene avrebbe dati venticinque.

    Cinque o sei mesi all’anno, da qualche tempo.

    Una sigaretta? Aveva tratto dalla borsetta bianca un pacchetto di Laurens e ne offriva con la mano tesa, un lieve sorriso agli angoli della bocca, la testa un po’ piegata a sinistra.

    Lui accettò, e aspirarono alcune boccate in silenzio, evitando di guardarsi. Da quando aveva varcato la soglia della piccola torre si era sentito riafferrare dall’angoscia di prima, ma in una forma diversa il cui effetto gli dava un godimento quasi carnale.

    Bel posto, qui! Ci starei anch’io. Per anni, forse.

    Non si annoierebbe?

    Lei lo guardò. I calzoncini neri di lana gli fasciavano i fianchi armoniosi. Sul petto pochi peli neri che la brezza a tratti piegava ora in un senso, ora nell'altro.

    Forse sì.

    Quelle parole furono pronunciate in un tono nuovo, dove il giovane avvertì una profonda tristezza. Qui c'era un faro anticamente?

    Sì, questa specie di torre mezzo diroccata era un faro una volta. Io l'ho comprato due anni fa dal Comune di Mazara. Stavano per abbatterlo. Ma per me è più di un castello.

    Vi lavora?

    Sì.

    La donna indicò con un dito la coscia sinistra del giovane e disse: È sporco di colore. Dipinge?

    Lui annuì e si voltò verso il mare. Sentì che la donna lo studiava, ora che poteva osservarlo senza doversi schermire. Quando si voltò di scatto, lei arrossì e si alzò.

    Quale corrente segue? Boilly, Corot, Ingres, Delacroix, Manet, Cézanne, Gauguin, o qualche imbrattatele contemporaneo?

    Vedo che se ne intende.

    Per puro diletto. Ebbene?

    Sono un individualista. Forse un ribelle. Forse non seguo nessuno. Forse la mia non è nemmeno pittura. La mia, intendo, non quella che faccio per vendere.

    Lei schiacciò la sigaretta con la punta di un sandalo. Aveva le unghie dei piedi laccate di rosso, come quelle delle mani.

    È un posto tranquillo! mormorò lasciando spaziare lo sguardo sul mare. Ha scelto bene. Lo guardò. Mi permette un bagno? Odio la gente.

    Faccia pure. Stia attenta, però, perché il fondo è traditore.

    Non tocco mai il fondo bisbigliò lei fissandolo. Poi si diresse di scatto verso la scogliera e prima di raggiungerla era già in costume da bagno. Il bianco del vestito si aprì sul terreno come l'ala di una colomba.

    Entrò nell'acqua decisa, gradatamente per un breve tratto, quindi si spinse verso il largo a lente bracciate. Soltanto il biondo oro dei suoi capelli affiorava dall'azzurro acciaio del mare.

    Lui si mise a sedere sulla panchina e appoggiò le spalle al muro screpolato. Senza guardare, percepiva alla sua sinistra, come una cosa viva, la presenza della borsetta di lei. Dentro quella scatola di paglia, lieve e fragile, c’era il suo piccolo mondo di donna. Il fatto che lui non avesse il diritto di guardarvi lo rattristò.

    Lasciò il boccale a terra, dove lei lo aveva posato, vicino al muro, e risalì nella sua camera con passo stanco, inciampando spesso con gli zoccoli contro i gradini smussati.

    Nonostante tutto, non seppe odiare quelle pareti sporche dove tutti i giorni di un secolo e più avevano lasciato una traccia. La parete dove si apriva la finestra sul mare era affumicata dal pavimento al soffitto e la macchia si tripartiva estrosamente verso l’alto. A terra, tra il tavolo e l’ottomana, c’era il vecchio tappeto di fibra vegetale a quadratini gialli e verdi che nascondeva le asperità del pavimento. Contro la parete di fronte, da una parte e dall’altra della finestra che dava sull’orto abbandonato, c’erano cataste di tele dipinte o appena abbozzate, cartoni con schizzi, idee messe giù alla rinfusa, secondo l’impulso del momento. Ombre. Le sue ombre. Ombre di foglie, di cani, di case, di uomini. Qualcuno lo chiamava il pittore delle ombre e quell’appellativo suonava ironico negli altri.

    Sul tavolo gran confusione di cose, tubetti di colore, pennelli, spatole, cartoncini, fogli sparsi, matite, e il ritratto di sua madre, una donna ancora giovane, precocemente canuta, con le labbra atteggiate a un sorriso doloroso. Una semiombra, quel ritratto. Gli occhi si indovinavano appena, come se la luce avesse colpito alle spalle il soggetto. Ma non era così. In realtà c’era poca luce nella vecchia stamberga dove i suoi genitori si erano stabiliti appena sposati. Lì, nella stessa stanza dove aveva dipinto la madre, era nato lui, e ora, guardando quel ritratto di sfuggita, riviveva in un istante l’angoscia di quel tempo.

    Prese una Esportazione dal pacchetto sul tavolo, la accese e andò a sedersi sulla cassa vicino alla porta, di fronte alla finestra sul mare. Di lì sembrava che le acque venissero a lambire la torre.

    Si alzò, quando la sigaretta giunse a metà, e andò a buttarla dalla finestra. Chiomadoro stava uscendo dal mare, come una Venere moderna, e nonostante il duepezzi rosso, lui la vide nuda. Le cosce erano un po' grosse, ma le gambe scendevano armoniose fino alla caviglia; il ventre piatto saliva incurvandosi lievemente, nel muoversi del corpo, verso i seni piccoli; le spalle erano larghe, la vita stretta. Nel biondo, reso vaporoso dal sole alle spalle, il taglio sanguigno della bocca larga. Disarmonia di linee, pittoricamente, ma un'emozione nuova gli giunse da lei, quasi una inquietudine.

    Senza fermarsi, Chiomadoro si chinò a raccogliere i sandali, dopo alcuni passi incerti sulla roccia si chinò ancora e con un dito tirò su il vestito. Avanzò con passo nervoso verso la torre e i loro sguardi s'incrociarono.

    Un'acqua stupenda!

    Non vuole asciugarsi? Ho un accappatoio.

    Vengo su, grazie.

    Mentre lei saliva, il giovane voltò di scatto le spalle al mare e si avvinghiò al davanzale della finestra. Percepì il fruscio dei piedi nudi sugli scalini. La porta cadente si aprì cigolando e il biondo restò sospeso fra luce e ombra, contro il nero della scala, sul rosso delle labbra dischiuse. Ansava leggermente. Sembrava una bambina in quel disordine. Un rapido colpo d'occhio nella stanza, poi il suo sguardo si posò sul giovane.

    Mi chiamo Natalia disse entrando.

    Lui si riscosse, levò un accappatoio bianco dalla spalliera di una sedia e lo aprì in attesa. Chiomadoro posò il vestito e i sandali sulla cassa vicino alla porta, poi si avvicinò a lui e si lasciò posare l'accappatoio sulle spalle. Si girò all'improvviso a guardarlo, intanto che si asciugava il collo.

    Sono una vera sfacciata disse ridendo.

    Non mi sembra.

    Me lo dicono tutti... Mi piace qui dentro!

    Davvero?

    Oh, sì! Andò verso il cavalletto. Non osò voltare la tela e si girò per chiedergli: Posso guardare?

    L'ho finito poco prima che arrivasse lei.

    Una primizia, allora!

    Voltò la tela con gesto lento. L'ombra dello scoglio riempi di sé la stanza, fu come se fosse divenuta smisurata al contatto della mano di Natalia, e le pareti scomparvero, agli occhi di entrambi, il mare divenne lontano e il sole si spense.

    Quando lo guardò, Natalia aveva una espressione di orrore negli occhi.

    Ma è terribile! esclamò. Non so che cosa possa essere, ma è terribile!...

    Terribile? chiese lui stupito e turbato. Che cosa è terribile?

    "Ma... tutto! Cos’è?’

    Un’ombra. L’ombra di uno scoglio. Quello scoglio laggiù, vicino alla barca.

    Natalia andò a sedersi a gambe larghe sulla cassa e restò a fissare il quadro. Era diventata pallida. Una espressione di sconforto le aveva indurito gli angoli della bocca.

    Perché l’ha fatto? Ora lo guardava quasi con rabbia. Il suo tono era diventato aspro. Che cosa ha visto in quello scoglio?

    Non saprei... Lo osservavo da tempo e mi diceva qualcosa. Era indispettito per il proprio imbarazzo. Quella isterica, con il suo scatto, gli aveva dato uno strano senso di colpa. A me piace ritrarre le ombre delle cose.

    Ah, è lei, dunque, il pittore delle ombre!

    Così mi chiamano.

    Toni Fontana, ricordo.

    Conosce il mio nome?

    Già! Si alzò lentamente e tornò vicino al cavalletto. È in vendita?

    Lui arrossì.

    Be’, raramente ho venduto le mie ombre! Non perché non lo volessi...

    Ma perché non piacciono, vero? O meglio, perché fanno paura.

    Lo guardava con gli occhi sfavillanti. Il labbro inferiore aveva un lieve tremito: sembrava in procinto di piangere.

    Lo sbalordimento impedì a Toni di parlare per qualche secondo, poi alzò le spalle dicendo: Forse.

    Compro questo, allora decise Natalia. Quanto?... cinquecentomila? Va bene cinquecentomila?

    Toni assentì gravemente. Le mascelle serrate e i pugni stretti dicevano chiaramente la sua tensione.

    Natalia si guardò attorno, si liberò dell’accappatoio e infilò la porta. Fece ritorno subito dopo con la borsetta, dalla quale aveva tratto una stilografica e un libretto di assegni. Riempì un assegno appoggiandosi alla parete, vicino alla porta, lo consegnò nervosamente a Toni, poi si fermò a guardare un’altra volta il quadro. Rimase a lungo in silenzio. Tremava. I seni le si sollevavano affannosamente.

    Alle sue spalle, Toni era immobile.

    Il gesto di Natalia fu rapido e imprevedibile. Le sue mani si avvinghiarono rabbiosamente alla tela, la trassero a sé, la piegarono frantumando le deboli assicelle di sostegno. Si aiutò con un ginocchio, mentre un sibilo di collera le usciva dalle labbra.

    Ma è impazzita? urlò Toni afferrandola per le braccia.

    Mi lasci!... È mio! singhiozzò Natalia. Posso farne quello che voglio...

    Lui la scrollò con violenza e la scaraventò sull’ottomana. Natalia non lasciò la tela, che le sue mani non erano riuscite a distruggere, e guardò con odio Toni che la fissava incredulo.

    Ma guarda che cosa ti capita, accidenti! gridò il giovane. Nemmeno in casa tua puoi stare tranquillo... Ma che diavolo le è preso?

    Natalia continuò a fissarlo a lungo, poi si alzò lentamente, lasciando la tela sgualcita sull’ottomana, infilò il vestito, calzò i sandali, raccolse la borsetta. Si fermò in mezzo alla stanza come in preda a uno sfinimento invincibile. Guardava a terra. Capì che Toni lacerava il suo assegno. Le parve che dicesse: Si riprenda il suo denaro. Non lo voglio!

    Senza dir nulla, si diresse verso la porta, la aprì, scomparve nel buio della scala. Si udirono i suoi passi leggeri davanti alla torre, poi il rumore della catena della bicicletta che batteva contro il carter.

    Una nuvola aveva coperto il sole. Altre nuvole venivano verso la terra dalla parte di Pantelleria. La brezza faceva ondeggiare gli steli delle rose gialle sul davanzale. Toni ebbe un brivido di freddo.

    Raccolse il quadro piegato in due e, dopo averlo osservato, lo gettò in un angolo. Andò a prendere un’altra sigaretta dal tavolo, la accese, tornò vicino all’ottomana e vi si sdraiò sopra. Il soffitto a travatura, screpolato e unto, con larghe macchie di muffa qua e là, lo offese.

    Chiuse gli occhi. Si rivide nell’atto di lacerare l’assegno, i cui frammenti erano caduti sul tappeto. Cinquecentomila lire. Aveva gettato via cinquecentomila lire! Una somma considerevole, per lui. Con quel denaro avrebbe potuto vivere due mesi alla torre. Ma non si pentiva del suo gesto.

    Un tuono rotolò sul mare e fuggì via verso la città vicina. Dal piano superiore, dove si levava la torretta vera e propria del vecchio faro, gli giunse il fischio del vento simile al gemito di un morente. Dabbasso, la porta malferma sui cardini cominciò a sbattere. Senza riaprire gli occhi immaginò il mare gonfiarsi sotto gli schiaffi del vento, ne udì la voce ruggente sulla scogliera, e tra una ondata e l’altra il ticchettio della sveglia. Un temporale d’estate. Uno dei soliti. Era venuto all’improvviso.

    Sentì freddo. Non stese il braccio per prendere la giacca del pigiama. Restò ad ascoltare la pioggia che scrosciava. I tuoni si succedevano più frequenti.

    Nella stanza c’era un frusciare di carte sospinte dal vento. Uno di quei fogli recava l’inizio di una lettera per sua madre: "Mammina, sto bene davvero. Non è il caso che ti preoccupi. Quaggiù, mi è grande amico il mare, e questa solitudine mi piace più di ogni altra cosa al mondo. Tu sola mi manchi. La biancheria la do da lavare a una donna che viene due volte la settimana. Ho già venduto due quadri e le centomila lire che ti ho mandato per vaglia sono una parte del ricavo..."

    Si era fermato lì perché non sapeva quali altre bugie trovare. Si riprometteva di aggiungere qualche frase diretta a suo padre e alla sorella Lucia, ma si era sentito vuoto, incapace di mentire a se stesso più che ai suoi familiari.

    Ascoltò il fragore dei tuoni e lo scrosciare della pioggia nella grondaia nuova che aveva fatto mettere l’anno prima perché l’acqua non si spandesse per la torre.

    Quei rumori gli richiamarono alla mente la sua angusta casa di Roma e provò una sensazione confusa, di disperata ribellione e di tristezza insieme. Anche lì, al Quadraro, l’acqua scrosciava violenta nella grondaia, ogni volta che pioveva; anche lì le pareti erano screpolate, il pavimento con qualche mattone di meno, il gabinetto indecente, la scala sdrucciolevole. C’era una strada sotto le finestre e i ragazzi vi giocavano gridando, nel sole, la gente chiacchierava alto davanti all'osteria. Eppure, in quella casa miserabile aveva conosciuto attimi di felicità, i più datigli dalla madre. Gli era stato assegnato un armadio dove lui era solito rinchiudere la tavolozza, i pennelli, i colori, le sue tele con le prime ombre. Quale era stata in realtà la prima? Quella di se stesso, lo ricordava, e si vedeva ancora davanti alla finestra, con uno specchio sul davanzale e nello specchio la propria ombra riflessa dalla parete color paglia. Che cosa gli aveva fatto nascere quell'idea? Dapprima lo aveva ignorato, più tardi aveva creduto di capire: i suoi stessi familiari, i vicini, gli amici, la povera gente del Quadraro solita gridare e ridere e piangere per un nonnulla. E la sua stessa immagine, dove i pensieri più che il tempo cominciavano a lasciare le tracce di un logorio costante...

    Avvertì all'improvviso una presenza materiale e riaprì gli occhi. Nella stanza le carte facevano una girandola ondeggiante e il vento scuoteva gli steli delle rose gialle, di cui molti petali si erano perduti.

    Natalia era lì, sulla soglia, gelida nel suo abito bianco fradicio di pioggia, livida nel volto e nelle mani, le labbra esangui, gli occhi soltanto sfavillanti come per febbre.

    Toni si mise a sedere sull'ottomana e per un momento non credette ai suoi occhi. Poi si alzò di scatto, fece un passo e si fermò in mezzo alla stanza con le mani aperte come per abbrancare qualcosa. Nel tumulto che li circondava le parole sarebbero state inutili. Quell'assurdo ritorno, dopo il loro strano incontro, era regolato dalla mano del destino. Questo pensiero gli giunse nitido e ineluttabile. E fu come se da sempre si fossero attesi.

    Natalia gli corse tra le braccia. Il primo bacio fu lamento per entrambi.

    Capitolo secondo

    Cominciò così, con un’altra donna, con un altro amore. Chi mai può affermare di conoscere gli oscuri recessi dei sensi? Le strade della nostra vita non sono mai quelle che vediamo né come il caso ce le porge, e molte volte tendono a una meta che non sospettiamo.

    Da quel giorno i pensieri di Toni ripiegarono verso una immagine di donna che lo stupiva e lo affascinava. Non era Natalia. Non era nessun’altra donna conosciuta. Sentiva nettamente che era colei che avrebbe mutato il corso della sua vita, ma non avrebbe saputo dire come fosse fatta. Se avesse dovuto dipingerla, si sarebbe limitato a sporcare la tela di una grande ombra azzurra, chiusa nel nero, con due occhi brucianti. A volte, come in un sogno, ne aveva udito la voce persino, ma si trattava di un suono incerto, una specie di modulazione canora portata dal vento. Attraverso Natalia, Toni sentiva di precipitare verso qualcosa di ignoto che gli dava inquietudine. Verso un’ombra. Un’altra ombra. Ma quel cadere lo portava in alto ed era una sensazione di incubo felice.

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