Il libro della vecchia Kate
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Book preview
Il libro della vecchia Kate - Benedetta Pini
Benedetta Pini
Il libro della Vecchia Kate
Il libro della Vecchia Kate di Benedetta Pini © 2009 La Penna Blu associazione culturale
Collana: Il calamaio azzurro (05)
Prima edizione ebook: agosto 2018
Tutti i diritti riservati. Vietata la riproduzione anche parziale a norma di legge.
ISBN: 9788895974118
ISBN (versione cartacea): 9788895974088
Artwork di copertina: Marta C. Flocco (www.rehlandea.it)
Questa è una storia di fantasia. Personaggi, nomi e situazioni sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Ogni riferimento a fatti o persone esistenti è puramente casuale.
www.lapennablu.it
ISBN: 9788895974118
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
http://write.streetlib.com
Indice
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Epilogo
Il libro della Vecchia Kate
Pane dei nani
Pane degli elfi
Olive verdi e nere a piacere
Pane della montagna
Pranzo del viandante
Lingotti d’oro
Zuppa di Sperten
Zuppa di Cormina
Zuppa di drago verde
Zuppa delle fate
Zuppa di basilisco
Zuppa del torneo
Crema dei Cantori
Pozione dorata
Stelle del bosco
Ravioli del cavaliere
Chicche magiche
Preparazioni con le patate
Budino dei viaggiatori
Tortino dei Monti Spaccafiato
Teglia degli orchi
Tortino d’oro
Teglia estiva della locanda
Frittata regale
Carni
Scrigni dell’Imperatore
Crocchette incantate
Borsette dei Cantori
Piatto di manzo degli orchi
Pigne di Pratoquarto
Spezzatino di Secondapalude
Stinco di vitello della taverna
Stufato di Sperten
Pollo alla Cormina
Pollo raffinato degli elfi
Arrosto di maiale dei Cantori
Arrosto di maiale degli Elfi
Arrosto del Periodo del Silenzio
Bistecche del mese dell’Abete
Pollo dei soldati
Pollo al profumo di Pratoquarto
Agnello della taverna
Zampe di grifone
Spade
Spade semplici
Spade guerriere
Spade dei maghi
Verdure
Purea del contadino
Anelli d’oro
Verdure di Primocancello
Giardiniera delle fate
Pesce
Filetti di Kraken
Persico del lago di Valterza
Perle nere
Trancio di pesce alla Yasuf
Dolci, semifreddi e torte
Torta dei nani
Delizia delle fate
Torta di Valterza
Torta di Sofizia
Rubini
Torta di Felicetta
Biscotti degli elfi
Gelatine di Crioner
Frittelle degli elfi
Pergamena antica
Liquori
Idromele
Liquore elfico
Liquore delle fate
Liquore dei nani
Ringraziamenti
A mio fratello Nicola
Capitolo 1
Una bambina
Una pioggia fitta e incessante ci costringeva a tenere lo sguardo sul pomo della sella. Persino il mantello di pelle, che avevamo reso impermeabile spalmandolo di grasso, era ormai inzuppato.
I miei soldati mi stavano scortando al Palazzo Imperiale. Non sapevo che notizie avrei ricevuto, il mio compito era solo obbedire. La vita dei miliziani è dura, ma mai quanto quella dei Disgraziati. Io ne so qualcosa.
Mi chiamo Vivienne Therzen e sono un capitano imperiale. Non è la carriera che una madre sogna per la figlia, proprio no, ma la donna che mi ha partorito non aveva alcun desiderio per me.
Sono nata nella capitale del Granducato Crioner e ho vissuto fino a dieci anni in una casupola nel quartiere dei Disgraziati: chiamano così chi non ha niente. La nostra situazione era uguale a quella di tanti altri derelitti che cercavano di sopravvivere ai mesi del Silenzio, quando la neve copre tutto e la gente può arrivare a uccidere per un pezzo di torba o di pane.
Mio padre lavorava saltuariamente in varie botteghe e, se andava proprio bene, riusciva a conservare il posto per una settimana: era troppo stanco e piagato dalla malnutrizione per reggere periodi più lunghi di fatica. Qualche volta si faceva dare degli ossi dal macellaio e la mamma li buttava in una pentola che stentava a scaldarsi su quelle quattro braci che avevamo nel camino incrostato di fuliggine. Io ero sporca, affamata e furiosa. Avevo freddo. Sempre. Avevo lasciato la scuola – che era gratuita – perché i ragazzini mi prendevano in giro. Non mi era dispiaciuto: avevo imparato a leggere, scrivere e far di conto, non mi interessava altro.
Non ero una bella bambina, non potevo esserlo in quelle condizioni. Le braccia erano così magre che potevo vedere chiaramente le ossa dei gomiti e le ginocchia sembravano enormi. Le gambe erano due rami secchi. Non sapevo che significasse la parola femminilità. La mamma mi diceva che essere carine era una preoccupazione adatta a chi aveva sempre la pancia piena. Secondo lei non mi sarei mai sposata: ero talmente in cattive condizioni che nessuno mi avrebbe mai avvicinata. Questo non mi faceva male; i crampi allo stomaco erano sempre più dolorosi dell’idea di non essere bella.
Chi aveva avuto fortuna era la sorella della mamma, zia Clotilde. Era riuscita a sposare un vedovo, padrone di una bottega di falegnameria, e conduceva una vita agiata. Era buona con me: mi portava spesso qualche dolce oppure un paio di calze di lana. Purtroppo questi regali finivano sempre per essere venduti per comprare cibo. Non avevo nulla tranne una tunica lercia per i periodi freddi e quella di saia per la stagione calda. Grazie alla Dea, mia madre non riusciva più a concepire: avevamo così tanta fame che probabilmente ci saremmo mangiati pure il neonato. Lo so che è terribile, ma quando ci si sveglia al mattino chiedendosi se quel giorno si riuscirà a mettere nella pancia qualcosa che non sia solo acqua fredda, si può arrivare a compiere gli atti più macabri.
Quando compii nove anni iniziai a rubare: prima alcune mele al mercato, poi legna, infine vestiti e scarselle quando qualche signora incauta si fermava a parlare per strada con qualche conoscente. Ero svelta e abile. I miei genitori non mi chiesero mai da dove provenissero quegli oggetti; avevano troppa fame. Il loro scarso affetto nei miei confronti scemò davanti alla consapevolezza che avevano una ladra in casa. Se un topo mangiava una crosta di formaggio la colpa era mia: l’avevo rubato. Non mi sarei mai azzardata a privare la mamma o il papà di qualcosa di loro proprietà, ma loro non lo sapevano o non volevano saperlo. Quando lo stomaco fu abbastanza pieno, iniziai a soffrire per la mancanza di amore. Decisi che smettere di rubare avrebbe contribuito a far rinascere quel poco di benevolenza – se mai c’era stata – nei miei genitori. Non portai a casa niente per mesi e di nuovo la fame arrivò.
Un giorno la zia venne a trovarci con una notizia. Fui mandata fuori dalla baracca e non riuscendo a dominare la curiosità mi nascosi dietro la porta per ascoltare. Clotilde voleva adottarmi. Disse che si sentiva sola con quel marito sempre impegnato ed entrambi erano ormai troppo vecchi per avere bambini. Non se la sentiva di prendere uno sconosciuto in casa, c’erano troppe malattie negli orfanotrofi, pidocchi e roba del genere. Aveva anche parlato con il maestro che le aveva detto cose gentili su di me: ero intelligente, sveglia, peccato che fossi così male in arnese. Inoltre sarebbe stato un buon affare liberarsi di me: una bocca in meno in casa non poteva che portare benefici. La mamma rimase in silenzio, poi rispose un secco e deciso «No.»
Non capii perché avesse rifiutato l’offerta e in quel momento provai un rancore e un odio così profondi come mai mi sarei aspettata di avvertire. Compresi che non mi voleva bene, altrimenti mi avrebbe dato la possibilità di una vita migliore.
Attesi finché la zia se ne andò, poi entrai in casa con le guance rosse dalla rabbia. Le dissi che avevo sentito tutto e volevo andare a vivere con Clotilde. La mamma non mi guardò neppure.
«Ho deciso. Non fare capricci. Starai qui e continuerai a vivere come sempre.»
«Perché? Non c’è nulla da mangiare, vi libererete di me, tanto sono solo un peso.» Non pronunciai queste parole con livore: era un dato di fatto.
«Perché?! Perché dovresti avere vestiti e cibo senza fare niente? Perché dovresti avere un’esistenza migliore della mia? Sei nata qui e ci rimarrai!» urlò. A quel punto scoppiai in lacrime, non più per il rifiuto, ma per la motivazione: mia madre mi odiava così tanto da costringermi a morire di fame perché lei stessa pativa quel tormento.
«Sei malvagia! La Dea ti punirà!» gridai di rimando e accadde una cosa che mi cambiò per sempre la vita.
La mamma spalancò gli occhi e mi colpì il viso ripetutamente fino a farmi crollare a terra. Non ero mai stata picchiata e mi ci volle qualche minuto per comprendere cosa fosse successo: le guance che bruciavano, il rumore dell’impatto, il dolore. La mente non riusciva a capire fino in fondo il motivo per cui avevo meritato quella punizione. Avevo visto molti bambini fare a botte, ma solo per gioco. Un adulto che alzava le mani su un ragazzino mi appariva sbagliato, innaturale. Così, per istinto. Papà, che la Dea lo accolga tra le sue braccia, diceva che era inutile picchiare i bambini; c’era già la fame a punirli abbastanza. Sapeva che un fanciullo ferito poteva diventare un uomo violento. Adesso capisco la sua malcelata preoccupazione quando rubavo.
La sera, quando tornò a casa e vide la mia guancia arrossata, non fece domande, era troppo stanco. Aveva trascorso la giornata a cercare un lavoro senza successo. Mangiammo in silenzio, la mamma mi buttò davanti una ciotola di brodaglia, probabilmente fatta con bucce di patata e radici. Era disgustosa. Oppure mi sembrava così perché ero avvelenata dalla rabbia.
Smettere di rubare non era servito a nulla: la mamma mi odiava, papà era sempre troppo distrutto per trasmettermi un poco di affetto. Gli schiaffi erano scolpiti nella mia mente più che sulla carne. Giunsi alla conclusione che stavo meglio quando l’unica preoccupazione era mangiare.
La mattina successiva tornai al mercato e afferrai due pagnotte. Le mangiai in un vicolo sporco: le condii con le lacrime che mi scendevano sul viso.
La mia carriera di ladruncola si interruppe un anno dopo perché commisi un errore madornale: rubai alla zia. Nel periodo trascorso avevo covato un odio senza senso anche nei confronti di Clotilde: se la mamma avesse sposato quel falegname allora mi avrebbe voluto bene. La zia aveva tutto e noi niente; lei poteva permettersi di adottare bambini, noi non potevamo mettere insieme nemmeno il pane necessario per un pasto decente.
Andai a trovarla e mi invitò a scaldarmi davanti al camino della sua bella sala rivestita di pannelli di legno scuro. Qualcuno venne a chiamarla dalla bottega e mi lasciò nell’elegante stanza. Osservai ogni dettaglio con invidia finché lo sguardo si appuntò sul tavolo di quercia coperto da una preziosa tovaglia di pizzi: la zia vi aveva lasciato la scarsella in bella mostra. La aprii e afferrai tutte le monete che c’erano. Quando la richiusi e mi voltai, vidi con orrore che mi stava fissando, appoggiata allo stipite della porta. Ed ebbi per la seconda volte delle botte, stavolta mescolate a insulti. Mi gridò che avevo il cuore nero e che era stata una fortuna non avermi adottato altrimenti si sarebbe messa una serpe in seno. Mi afferrò per un braccio e mi trascinò in strada. A nulla valsero i miei pianti e le scuse, mi portò quasi di peso dalle guardie imperiali. Uno dei soldati mi guardò ed ebbe un moto di compassione nei miei confronti. Mi ordinò di scusarmi e di non farlo mai più altrimenti mi avrebbero portato in carcere. Ero così terrorizzata che tacqui per tutto il resto della giornata. La zia tornò a casa intimandomi di non farmi vedere mai più.
Stava scendendo la notte e il freddo iniziò a penetrarmi nelle ossa. Mi sedetti sulle scale di un palazzo e pensai, cercando di non dare retta al mio corpo malridotto dal gelo e dalle botte ricevute. Non potevo tornare a casa, sicuramente la zia aveva già riferito tutto ai miei genitori e stavolta la mamma mi avrebbe ammazzato. Papà non mi avrebbe rivolto parola come al solito. Mi alzai, impaurita, e tornai alla postazione dei soldati. Quello che mi aveva mostrato un po’ di compassione era ancora di turno. Quando mi riconobbe, si mostrò stupito:
«Che è successo?» mi chiese dolcemente.
«Voglio andare in prigione.» Era l’unico posto dove potevo stare. Mi augurai che mi ci portasse subito. Almeno avrei avuto un tetto sulla testa. Il soldato sembrò divertito.
«Hai rubato di nuovo?»
«No. Non so dove andare. A casa la mamma mi picchia.»
Non parlò. Mi fece entrare nell’edificio e mi dette una sedia, poi uscì e quando tornò aveva tra le mani una mela, due panini e una tazza di latte. Divorai tutto. Il soldato mi fissava in silenzio. Mi dette una coperta dell’esercito: era ruvida, ma mi sembrava di piume confrontata allo straccio con cui mi avvolgevo per dormire. Mi indicò un pagliericcio e, obbediente, mi ci distesi. Nel giro di qualche minuto mi addormentai. Per la prima volta in vita mia dormii al caldo e con la pancia piena.
Non potevo rimanere alla postazione dei soldati per sempre. Ghellan, il soldato che mi aveva nutrita e ospitata, mi spiegò che doveva avvertire i miei genitori. Lo supplicai di non farlo, potevo pagarmi il cibo lavorando. Non ero brava a fare le pulizie, ma sapevo come si facevano. Mi spiegò che non toccava a lui decidere e non stava bene che una bambina abitasse con tutti quegli uomini.
Dopo quella breve felicità dovevo andare incontro a morte certa. Ne ero convinta. La disperazione che mi affliggeva doveva essere palese perché tutta la milizia imperiale iniziò a preoccuparsi del mio futuro. Non ero diversa dalle centinaia di bambini poveri della capitale, però, forse, si erano affezionati un poco a me. Qualcuno ventilò l’ipotesi di mandarmi all’Orfanotrofio, ma fu subito scartata perché non ero orfana. Poi la Dea decise che meritavo un colpo di fortuna.
Era trascorsa una settimana e i soldati non sapevano ancora cosa farne di me, quando arrivò il capitano per l’ispezione mensile. Entrò nella sala comune e mi trovò che strofinavo il pavimento. Era la prima volta che vedevo un alto rango dell’esercito e ne rimasi affascinata: era altissimo, moro, con una meravigliosa tunica rossa e nera. Portava una corazza a scaglie di cuoio indurito e un’enorme spada al fianco.
«E tu chi sei?» mi domandò stupito.
Mi alzai stringendo lo straccio, decisa a giocarmi il tutto per tutto.
«Sono Vivienne e faccio le pulizie. In cambio mi danno da mangiare e un tetto sulla testa. A casa non ci torno perché non voglio morire di fame o di botte!» Non so dove trovai la forza per rivolgermi in quel modo a uno sconosciuto. La vita da ladra, forse, mi aveva rafforzato più di quanto pensassi. Inaspettatamente il capitano scoppiò a ridere. Ghellan, che era entrato trafelato, rimase di stucco nel vedere il suo superiore così di buonumore.
«Signore, ecco… La bambina ci ha chiesto rifugio. Non sappiamo dove mandarla.»
Il capitano sorrise ed elogiò la decisione di Ghellan dicendo che un buon soldato si vede in battaglia, uno ottimo si vede dalle azioni caritatevoli che compie. Mi lasciarono sola. Il capitano Mark stava per decidere la mia sorte.
Non capii quello che succedeva intorno a me fino al mattino seguente. Mi portarono in una casa dove una signora mi fece il bagno, mi lavò i capelli e me li tagliò sulle spalle. Mi fece indossare una tunica e sopra un’altra di lana non tinta. Mi mise un mantello, delle calze e un paio di stivali. Mi fece le trecce e mi strinse la tunica in vita con una cintura di cuoio. Poi arrivò un sacerdote guaritore che mi fece aprire la bocca, mi controllò la lingua, i denti e la gola. Auscultò il mio torace e mi fece fare delle strane prove, come leggere delle lettere a una certa distanza.