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La Ragazza del Sud
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La Ragazza del Sud

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About this ebook

Lisa è una ragazza determinata, così determinata che non si farà scrupoli a lasciare il piccolo paese del sud, dove è nata e cresciuta, per diventare una donna al nord, tra gioie e dolori, fatiche e soddisfazioni. È disposta a tutto per aiutare la sua famiglia e per inseguire le sue ambizioni, con un sogno che vorrebbe portare a casa al suo ritorno. Andrea, nel frattempo, sperimenta il distacco dalle tradizioni del paese, un distacco di cui Lisa è un po’ la capostipite. Le loro storie s’intrecciano, divise e poi unite come le onde del mare che li osserva e che è sempre stato lì, ad aspettarli.
LanguageItaliano
Release dateOct 15, 2018
ISBN9788833462059
La Ragazza del Sud

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    La Ragazza del Sud - Carmela Abate

    La Ragazza del Sud

    di Carmela Abate

    Illustrazioni interne e grafica di copertina di Gianrico Reale

    Progetto grafico interno e impaginazione di Sara Calmosi

    ISBN 978-88-33462-05-9

    Pubblicato da Ali Ribelli Edizioni, 2018 ©

    Narrativa – Vita in parole

    www.aliribelli.com – redazione@aliribelli.com

    È vietata la riproduzione con qualsiasi mezzo, in parte o nella loro totalità, delle immagini e del testo riportati in questo libro senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.

    Carmela Abate

    LA RAGAZZA DEL SUD

    Edizioni

    INDICE

    PARTE PRIMA

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    PARTE SECONDA

    Capitolo I

    Capitolo II

    PARTE TERZA

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    PARTE QUARTA

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    EPILOGO

    PARTE PRIMA

    CAPITOLO I

    Il paese dove sono nato dista sette chilometri del mare. Quando le facciate delle case, di notte, sono tutte illuminate, è un po’ come trovarsi davanti a un castello delle fiabe.

    Ma chi ci vive, davvero vive in una fiaba? Ci sono tanti ottimisti come me, però il resto – chi più, chi meno – sono pessimisti da far paura.

    Si trova su un monte, il paese, e come l’Italia è diviso in nord, centro e sud. Io sono nato al centro: da qui il mare non lo vedo.

    Questo posto ha poche migliaia di abitanti. Siamo tutti parenti, comari e compari, che si vada a destra o a sinistra, al nord o al sud. Anche i nomi, non scherziamo, sono tutti uguali a quelli dei parenti stretti.

    Mi capita spesso, quando esco con mia madre, di incontrare una comare con la quale ci soffermiamo a parlare. Poi, quando ce ne congediamo, non riesco a trattenere la curiosità.

    «Mamma, ma con quella com’è che siamo comari?»

    «Suo nonno ha battezzato mio padre.»

    «Ah, però! Fino alla terza generazione…»

    In paese siamo divisi in categorie. Pochi ricchi, la maggioranza benestanti, cioè quelli che hanno la casa di proprietà e un pezzo di terra da coltivare; quelli che in campagna fanno un po’ di tutto e allevano animali da macellare in abbondanza. E poi c’è la nostra categoria: si mangia!

    Niente casa di proprietà, ma una bella camera da letto senza porta, con sopra una scala di legno senza alcuna protezione. Se di notte, al buio, ti capita di metter male un piede e di scivolare, vai a finire dritto di sotto, nel minuscolo ballatoio, col rischio di romperti l’osso del collo.

    A me è successo, una volta, di cadere. Per fortuna, me la sono cavata con qualche ammaccatura.

    Be’, ma fosse solo questo! Puoi vedere i miei genitori fare l’amore, poveri noi… Io dormo di sopra con quattro sorelle, le streghette, e si può solo immaginare come facciano, quei poveri diavoli, con sopra cinque figli e nessuna porta.

    Mio padre lavora in autonomia, di professione ferraio. Porta spesso mia madre in montagna, con la scusa del far legna per cucinare e per infornare il pane (non abbiamo fornelli a gas; sono in pochi quelli che ce li hanno). Insomma, direi che è accertato che abbiano concepito la maggior parte dei figli in montagna.

    Anche gli artigiani potrebbero essere benestanti, se tutti pagassero, ma la maggior parte dei creditori barattano, e comunque si mangia.

    Rispetto alle due province che ci affiancano, qui siamo arretrati di dieci anni. La cosa bella e divertente è che non c’è un membro in famiglia che non sappia suonare uno strumento: chitarra, mandolino, fisarmonica, tamburello… Come per tradizione, ogni fine settimana si fanno le serenate a parenti e amici, ci si incontra tutti insieme per divertirsi, oppure si suona alle feste del paese in onore dei santi, tutti i mesi. A carnevale non si festeggia solo con la salsiccia di chi ha il maiale, ma ci si maschera per una settimana, suonando e cantando per tutto il paese in processione.

    La scuola esiste fino alla terza media, ma sono pochi quelli che frequentano le medie e tanti che, come me, non terminano le elementari. Io, tutto sommato, sono arrivato alla quinta con due anni da ripetente. E le mie sorelle? Solo la quinta elementare, ma sono più brave di me. Per le donne è sufficiente, come dice mia madre: non serve di più, devono imparare a fare le cose di casa da perfette casalinghe, ché a sedici anni si sposano.

    C’è un detto, al paese: donne e vino quanto prima. Le donne, se crescono, restano zitelle così come il vino, se non lo bevi subito, diventa aceto.

    I nostri avi non sono andati a scuola e dopo di loro neanche i nostri genitori, ma non per questo sono stupidi. Forse ignorano molte cose, ma pian piano usano il cervello per tutto, anche per pensare a come sopravvivere.

    Le ragazze cotrare, nel gergo del paese, se le guardiamo due volte sono mazzate. Io che sono il fratello maggiore di quattro di loro, ho avuto precisi ordini da mio padre: tutti i giorni, in sua assenza, devo badare a loro. Così non ho il tempo di guardare altre ragazze, non per paura, ma perché devo occuparmi delle mie sorelle: porco cane, sono quattro!

    Il matrimonio si festeggia a casa coi parenti stretti e i compari. Come fare con quelli che hanno la casa piccola come la mia? Ecco, ci si stringe tutti in una camera dopo aver portato via ogni cosa, letto compreso. C’è un rinfresco a base di dolci e liquori fatti in casa, con l’aiuto delle comari.

    La sposa va a piedi in chiesa. E come farebbe con la macchina, se non ci sono strade, ma solo stradine sterrate? La strada è al nord del paese, così come i pochi negozi di alimentari.

    Gli invitati la seguono, davanti a una folla di ragazzi come me che si azzuffano per guadagnarsi uno dei confetti che viene lanciato, tra le spinte di uno e dell’altro.

    Nella camera, il banchetto è all’impiedi e non tutti mangiano, perché i vassoi sono in alto e lo spazio è poco, si sta stretti come le sardine. Poi si aprono le danze con chitarra, mandolino e fisarmonica. Si balla e basta, il canto è riservato per dopo. Sono sempre tutti accoppiati, tutti sposati, e noi poverini le cotrare non le possiamo nemmeno guardare. Si può immaginare che strazio, mentre se ne stanno tutti lì abbracciati a ballare quelle melodie…

    A mezzanotte in punto, la sposa è accompagnata a casa, sempre a passo di musica. A casa gli sposi non dormono: le squadre di suonatori si alternano, e guai se la porta ne resta sprovvista! Il muratore, con cemento e mattoni, sarebbe pronto a murargliela. Mi raccontava mio nonno che è successo diverse volte: per punizione gli sposi non potevano uscire per una settimana, i parenti portavano loro da mangiare dalla finestra.

    Le canzoni paesane che i familiari cantano agli sposi sono scritte apposta per loro, parole struggenti che c’è da piangere… Se qualcuno dimentica di portare con sé dei fazzoletti grossi quanto un lenzuolo, sono problemi!

    Le ragazze no, non possono partecipare. Non devono poter immaginare cosa fanno gli sposi, ammesso che sia la prima volta.

    Per quanto riguarda i nomi dei figli, se una famiglia abbonda di maschi, per tradizione, il primogenito deve chiamarsi come il nonno, senza parlare del santo protettore del paese…

    C’è un posto in cui ci ritroviamo in tanti, noi ragazzi. Lo chiamiamo le case rotte, perché lì ci sono dei pilastri, i resti di un’alluvione che tanti anni fa ha portato via un pezzo del paese fino al mare attraverso il fiume, case e persone comprese. I sopravvissuti che sono rimasti senza abitazione, dopo tanto tempo hanno ottenuto una casa popolare, due stanze più bagno.

    Noi andiamo a giocare lì a nascondino, oppure con i bottoni dei pantaloni, legati a una cordicella per sorreggerli. Quando il gioco si scalda e qualcuno sbaglia, chi si richiama? A chi dei quattro mi rivolgo, se si chiamano tutti con lo stesso nome?!

    È un problema? No, è la tradizione.

    Mio padre, quasi tutti i giorni, tenta di invogliarmi a darmi da fare. «Ma non vuoi imparare un mestiere?» mi dice. «Cosa vuoi fare, giocare tutti i giorni con i tuoi amici? Così facendo diventerete dei piccoli delinquenti.»

    «No, papà. Sto pensando quale mestiere prendere.»

    È una brava persona, mio padre. Mi crede sulla parola: niente schiaffi. Io non lo deluderò, sono un bravo ragazzo e credo di somigliare molto a lui.

    In centro non siamo in molti ad avere una famiglia numerosa. Sarà perché molti uomini sono emigrati in America e le loro mogli, senza un uomo per tanti anni, si sono affidate alla consolazione di un compare, ma tutto in segreto! Poi, con i soldi dell’America, le comari più esperte fanno un lavoro speciale per sbarazzarsi delle gravidanze proibite.

    Anche le povere donne che rimangono incinte, preoccupate perché non c’è abbastanza da mangiare per tutti i figli, a volte lo fanno. Ma loro non hanno i soldi dell’America e spesso qualche marito e padre resta vedovo…

    E poi, come non parlare delle chiese? Tutti in chiesa a confessarsi!

    Il parroco, riposato e coccolato da tante belle donne, dà loro dei consigli. C’è sempre qualche giovane donna ignorante e credulona che ci va sotto nella confessione. Non sono rare alcune scenette, con il parroco nel confessionale e la giovane fuori che si confessa.

    «Cosa c’è, figliola?»

    «Sono triste, mio marito è partito per la guerra e ora aspetto un bambino. Chissà se lo vedrà!»

    «Lo vedrà di sicuro, ma come nascerà? Di quanti mesi sei?»

    «Due mesi, padre.»

    «Ah, figliola, allora ci manca tutto: nasce senza occhi, senza braccia e senza gambe.»

    La giovane piange. «E ora cosa faccio?»

    «Non ci sono problemi, faccio io un sacrificio. Tutto in segreto, mi raccomando…»

    Il bimbo nasce, il marito viene in licenza, parenti e comari tutti presenti, glielo dicono al giovane papà che somiglia tutto a lui, in particolare gli occhi!

    «Eh no!» fa notare la giovane. «Se non fosse stato per il parroco, sarebbe nato senza!»

    Il marito, senza far trapelare niente alla sua giovane moglie, sta per andare in chiesa furioso, ma parenti e comari lo fermano! «Tranquillo, il parroco s’è fatto due mesi a letto, ha pagato a caro prezzo gli occhi e tutto il resto.»

    Storie come questa accadono davvero. Me le racconta mio nonno, così come le tante altre cose che mi dice, vicino al fuoco mentre prepara le caldarroste, prodotte in abbondanza al mio paese. Mi racconta anche di morti che camminano e parlano, di chiese aperte di notte con tanta gente che ascolta la messa.

    «Dai nonno, stanotte non dormo, ho paura!»

    «Di che hai paura? Sei un uomo, non devi avere paura di niente.»

    Questo e altro succede al mio paese.

    CAPITOLO II

    A novembre ho pensato, cosa faccio? Fa freddo. Ne parlo con mio padre.

    «Vorrei andare a cogliere le olive, vengono anche i miei amici.»

    «Ah, che bella squadra, ma almeno lo sapete

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