Viaggio nelle energie del Femminile
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L'autrice traccia con accortezza e profondità le fasi di un vero e proprio percorso che il lettore può attuare autonomamente, perché ricco di spunti meditativi e operativi, e che si avvale di antichissimi strumenti sapienziali, tra i quali l'Enneagramma, per la prima volta connotato in chiave femminile.
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Viaggio nelle energie del Femminile - Zuleika Fusco
© Copyright 2008
OM EDIZIONI
Zuleika Fusco
Tutti i diritti letterari ed artistici sono riservati.
È vietata qualsiasi riproduzione, anche parziale, di quest’opera.
Qualsiasi copia o riproduzione effettuata con qualsiasi procedimento (fotografia, microfilm, nastro magnetico, disco o altro) costituisce una contraffazione passibile delle pene previste dalla legge 11 marzo 1957 dei diritti d’Autore.
Tutte le immagini sono di proprietà dell’Autore.
Coordinamento editoriale:
Annamaria Barilari
Redazione:
Zaira Fusco
Stampa:
Stampato in Italia nel mese di Marzo 2008
presso Tipografia Lithos Arti Grafiche - Villa Verucchio (RN)
Iª Edizione - Marzo 2008
Iª Ristampa - Aprile 2009
IIª Ristampa - Gennaio 2014
© 2008 Marzo -
OM EDIZIONI
Via Badini, 17 - 40050 Quarto Inferiore (
BO
) - Italy
Tel. (+39) 051 768165 - (+39) 051 6061167
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Website: www.omedizioni.it
SAGGI
Zuleika Fusco
Viaggio
nelle energie
del Femminile
logoOm.gifA Giuliana,
a Carlo,
a Jolie
CAPITOLO I
Viaggio nel femminile
Ho avuto la fortuna di ascoltare l’antica storia della canzone della natività. Racconta di una tribù africana e del fatto che, quando una donna aspetta un figlio, tutte le altre donne della comunità la accompagnano nella foresta durante la notte. Si siedono in cerchio attorno a lei nel più totale silenzio e attendono finché il Cosmo rimanda loro la canzone dell’anima che sta per incarnarsi. Quando il bambino è sul punto di nascere, ancora le donne si riuniscono attorno alla madre e lo accolgono sulla terra intonando la sua canzone. Così, quando cresce e sbaglia, la comunità si riunisce attorno a lui e non lo rimprovera o punisce, ma gli canta la sua canzone per ricordargli chi è e che non è mai solo. Egli ascolta quella stessa canzone in tutti i momenti significativi della sua vita e, quando la sua esperienza sulla Terra sta volgendo al termine
– l’anima si prepara a lasciare il corpo –, per l’ultima volta la sua canzone lo accompagna. Nell’estremo, significativo passaggio gli ricorda ancora una volta chi è…
Noi donne, oggi, avendo rotto l’antico patto di alleanza con la Natura e i suoi cicli, lontane dall’arcaica capacità di sentire e di sentirsi, abbiamo dimenticato chi siamo, occultato la nostra origine e il nostro potere.
Se ci poniamo nei confronti della società in cui viviamo come osservatrici, ci accorgiamo velocemente che la relazione tra donna e potere attualmente è poco sana. Nell’illusione di aver trovato una nuova identità, abbiamo emulato l’uomo nei suoi aspetti critici. Pur di conquistare un ruolo, rinunciamo a esprimere ciò che di femminile è in noi e che invece costituisce la nostra naturale potenza. Essere donne di potere non vuol dire diventare la brutta copia del maschile, ma riacquistare consapevolezza delle nostre risorse e del nostro specifico valore, fare della diversità dall’uomo una ricchezza di cui giovano tutti, liberarci dai condizionamenti culturali per essere sempre più coerenti, sempre più noi stesse. Tutto ciò comporta gestire i ruoli con le qualità dell’energia che ci appartiene per natura. Pertanto sorge l’esigenza oggi più che mai di rileggere ciò che sta accadendo a livello sociale partendo dall’esperienza personale e riflettendo su cosa vuol dire essere donna, visto che siamo dotate di una ricchissima grammatica interiore che può fornirci la risposta. E non una risposta intellettuale, ma energetica, in grado di modificare la nostra quotidianità e di farci arrivare dove desideriamo senza scendere a compromessi con valori di cui siamo l’emblema.
Maschile e femminile non sono due aggettivi riferiti rispettivamente all’uomo e alla donna, ma due energie presenti in noi, due qualità dell’essere, incarnate nei due emisferi che costituiscono il cervello. Il principio maschile, che rappresenta la nostra dimensione logica, come energia porta in noi la capacità di analizzare e di conoscere razionalmente. Nasce mitologicamente nel momento in cui l’essere umano si affranca dalla paura e si spinge fuori dalla caverna per esplorare il mondo. Non a caso il simbolo che lo rappresenta è il sole, la cui luce rende visibili e netti i contorni di tutte le cose. Il maschile è quindi conoscenza, misura ed evidenza, ordine e controllo, poiché nulla deve sfuggirgli. Di conseguenza comporta il bisogno di stabilire confini e limiti certi, competitività e guerra, ma anche cameratismo, che sono qualità legate all’aspetto sociale della vita, disciplina e concretezza, abilità di fare, parola in cui il maschile trova perfetta realizzazione. Il suo elemento è il cielo, la verticalità che ispira alla trascendenza.
Il principio femminile in noi, dimensione analogica, è l’energia del sentire. Il simbolo corrispondente è, infatti, la luna, che nell’oscurità illumina lievemente, rendendo vaghi i contorni di tutte le cose, invita ad abbandonare il mondo delle evidenze e a richiudersi nella propria sfera intima. Porta come qualità l’emozionalità, l’intuizione, la creatività, il sogno, l’introspezione e la capacità di vedere oltre. Sa vivere nel caos. Se il maschile sprona all’esplorazione materiale, il femminile induce al viaggio interiore, alla profondità che implica il pericolo dell’abisso. Non ama limiti e confini. È esattamente l’opposto del controllo, la percezione della soglia che comporta il rischio del perdersi e della follia. Conosce il potere di dare la vita e di conseguenza può toglierla. Il suo elemento è la terra, che porta il dono della trasformazione, poiché è archetipicamente il grembo da cui tutto ha origine e che tutto raccoglie. La predisposizione al sentire induce il femminile a un rapporto magico con la sfera sessuale. Ama in maniera fantasiosa, libera e tantrica. Non conosce tabù, ma si perde nella reciprocità del piacere. Questa attitudine destabilizza profondamente il maschile, che ha bisogno di riferimenti solidi e cui non appartiene la sensualità, ma la sessualità, che ha piuttosto velleità prestative. Il maschile è infatti custode in noi dei valori tradizionali, che però il femminile trasmette. E, dato che tutto quello che costituisce il nostro mondo interiore trova riflesso all’esterno, a icona di ciò basterà evocare come esempio la famiglia patriarcale, in cui il padre rappresenta le regole, ma la madre le tramanda ai figli e insegna loro a rispettarle. Se la parola chiave del maschile è fare, quella del femminile è essere.
Conoscere i due principi che ci animano è un fatto sostanziale e alla base del nostro percorso evolutivo risiede l’obiettivo di integrarli. Un buon femminile è infatti l’ispirazione che induce il maschile a fare bene, cioè a concretizzare, poiché senza l’intuizione del femminile, l’azione del maschile non avrebbe capacità di perseguire mete, così come, senza il fare del maschile, il femminile resterebbe solo desiderio o intenzione. È in fondo quello che ci insegna un vecchio detto popolare il cui senso esoterico è decisamente più interessante del significato letterale: «dietro ogni grande uomo c’è sempre una grande donna» non allude semplicemente a tutte le Anita che hanno sostenuto i vari Garibaldi, ma ci insegna un’antichissima dinamica interiore dell’essere umano secondo cui, se la nostra parte strega e la nostra parte guerriera onorano l’originario patto di alleanza, tutto può realizzarsi. Quando il maschile in noi perde il contatto col femminile e da esso non è rispettato o è addirittura disprezzato, diventa violento. Quando invece è onorato, esso si pone al servizio del femminile, come ci insegnano le storie dei prodi cavalieri che si battevano per le loro dame e per le loro giuste cause.
Sebbene per natura gli uomini dovrebbero essere predisposti ad un maggior contatto con la propria parte maschile e le donne con quella femminile, i condizionamenti della cultura patriarcale che abbiamo subito e assorbito nell’arco di millenni ci hanno reso le peggiori nemiche di noi stesse e di quel femminile potente che oggi è brace in noi sotto le ceneri delle regole sociali cui aderiamo. Abbiamo interiorizzato la censura e siamo cadute nell’equivoco che maschile è sano, femminile è folle, rafforzato, quindi, il nostro essere razionali a discapito di ciò che in noi è sacro, fatti nostri comportamenti e obiettivi che non ci appartengono. Consideriamo ad esempio le donne che oggi rivestono ruoli prestigiosi in politica o nella finanza. Nella maggior parte dei casi hanno un aspetto austero, autoritario e degli atteggiamenti prettamente maschili. Il prezzo del loro successo è rinunciare alla dimensione femminile. Hanno dovuto dimostrare di essere più uomini degli uomini per essere credibili agli occhi della società.
Una mia cliente, durante un ciclo di sedute, mi raccontava come da bambina desiderasse l’amore del padre da cui sentiva spesso dei giudizi pesanti sulle ‘femmine’. Non solo ha preso inconsciamente le distanze dalle sorelle e dalla madre, cui rimproverava di essere deboli e lagnose, ma ha preteso di essere fin da piccolissima pari se non superiore ai fratelli anche fisicamente. Sedeva a tavola e esigeva un piatto colmo come il loro a costo di scoppiare e, crescendo, ha sviluppato la tendenza ad ingrossare sul busto, com’è tipico degli uomini. Ne abbiamo insieme letto il valore metaforico e, tra gli altri significati, abbiamo compreso come, soprattutto nei momenti di difficoltà, la sua parte guerriera emerga, a difesa delle vulnerabilità, indossando l’armatura che le consente di essere nel mondo nascondendosi il senso di inadeguatezza.
Scienze umane come l’antropologia, l’etnologia, la mitologia e l’archeologia ci consentono di ipotizzare un’era lontanissima in cui la percezione della divinità da parte degli esseri umani era al femminile. Siamo nella preistoria, in quella fase dell’umana evoluzione antecedente la storia testimoniata e verificabile, come rivelano le statuette di floridi corpi femminili così profondamente studiati dall’archeologa Marija Gimbutas,¹ collocabili nell’area europea e risalenti ad un tempo che va da circa 25.000 anni fa fino al 2000 a. C. Tra tutte la più citata ma anche la più emblematica è la Venere di Laussel, rilievo in pietra del Paleolitico superiore, originariamente sita sull’entrata di una grotta nel Sud della Francia in cui si celebravano riti. Capostipite di una lunghissima tradizione scultorea di cui anticipa le caratteristiche, la Venere mostra delle rigogliosissime forme. I grandi seni, i fianchi abbondanti e il ventre gravido su cui poggia la mano sinistra non hanno finalità erotiche, ma alludono al potere femminile di generare. Nella mano destra stringe delle corna la cui forma rievoca quella lunare e su cui sono incise tredici tacche, simbolo delle tredici lunazioni che scandiscono il ciclo dell’anno i cui tredici mesi sono di circa ventotto giorni, come del resto il ciclo femminile. La tinta originaria della scultura era ocra rossa, riconducibile facilmente al colore del sangue mestruale. Se delle forme così procaci possono risultare esagerate, grottesche o primitive ai nostri occhi colmi di pregiudizi patriarcali, per cui un femminile tanto ostentato può apparire sconveniente o osceno, in realtà la Signora di Laussel rimanda una fortissima e magica energia. Infatti, ogni parte del suo rigogliosissimo corpo, così lontano dall’aspetto anoressico e androgino delle nostre modelle, è sacro in quanto evoca l’idea di fertilità, la capacità di dare la vita e di regolare i cicli che la costituiscono.
venere.gifLa percezione al femminile della divinità, di cui la potenza creativa era l’aspetto più venerato, lascia ipotizzare un’epoca in cui la società era di tipo matrilineare, ovvero in cui il ruolo della donna era importantissimo proprio per la sua riconosciuta capacità di generare e di preservare la specie, e per queste qualità a lei competeva il sacerdozio. In seno a quell’assetto sociale l’uomo non era da meno, come si potrebbe facilmente equivocare. Era parte integrante di un sistema mutuale in cui il maschile e il femminile si integravano perfettamente, grazie alla capacità del femminile di accogliere e di nutrire. Sono i miti che ci raccontano il seguito della storia e l’avvento del patriarcato, di un sistema socio-culturale, cioè, che ridimensiona e sottomette i valori e la potenza del femminile, della donna di conseguenza…
Tra gli altri ce n’è uno in particolare che appartiene alla tradizione greca e che quindi ci risuona decisamente familiare. È la storia del dìo Apollo, non a caso dìo del sole, e dell’affermazione del suo potere.
Si racconta infatti che il dìo, alla ricerca di un luogo sulla Terra dove istituire il proprio santuario, ne trovò finalmente uno di suo gusto, che nella narrazione omerica in un rapido passaggio di versi si tramuta da luogo in creatura femminile. Si tratta della ninfa Telfusa,² diretta ereditiera di quel femminile magico e in simbiosi con la Natura di cui abbiamo raccontato, che subito percepì il dìo come un nemico. Tanto che, per allontanarlo, invece di opporsi apertamente a lui, creò una strategia e, nel ruolo di chi dispensa consigli, gli suggerì di spostarsi in un luogo che più gli si addiceva, piuttosto che in quella terra,
[…] perché il suo maestoso santuario sarà disturbato dal fragore delle cavalle e dei muli
della Ninfa, che bevono alle sue sacre sorgenti
. I visitatori guarderebbero le cavalle più che il tempio, dice Telfusa con deliziosa, perfida ironia – e aggiunge: più adatto ad Apollo è un luogo aspro, scosceso, là dove le rupi del Parnaso si spaccano in una gola.³
E Apollo, che non aveva mai parlato con nessuno sulla Terra, non comprese l’inganno e scelse Delfi, ove affrontò e uccise con le sue infallibili frecce la terribile serpentessa Pitone, le cui spoglie – guarda caso! – putrefecero al sole. Secondo altre versioni del mito, Pitone non fu uccisa ma sottomessa e asservita al dìo. Apollo, non pago di ciò e ormai cosciente dell’inganno di Telfusa, tornò da lei per vendicarsi.
Provocò una frana di macigni sulla fonte di Telfusa, per umiliarne la corrente. Poi elevò un altare a se stesso e rubò a Telfusa anche il suo nome, facendosi chiamare Apollo Telfusio.⁴
Lo stesso fece con Pitone, dalla cui sconfitta ricavò l’appellativo Pitio e soprattutto il potere oracolare che la serpentessa proteggeva. Così la «fonte dalle belle acque», emblema di un sapere analogico e misterico, due volte incontrata, fu conquistata e assoggettata alla cultura del sole. A ribadire ciò è interessante ricordare che la parola greca Delphoi, da cui la latinizzazione Delfi, riconduce etimologicamente al significato di utero.
Sia Telfusa che Pitone furono, infatti, rappresentazione di quel femminile potente che custodisce e difende la Conoscenza. È emblematico che il serpente, una delle fobie più comuni tra le donne di oggi, fosse animale sacro alla grande dèa delle origini. In primo luogo per la sua caratteristica di nascere dalle uova e di partorirne, in secondo per la sua capacità di ringiovanimento nella fase di muta, ossia di cambiamento della pelle. Ancora una volta ci ritroviamo di fronte al potere di generare e di trasformare. Non solo. L’elemento naturale del serpente è la terra, su cui avanza con l’intero corpo non avendo zampe e nei cui antri profondi si annida, ma ha anche confidenza con l’acqua. In più dispone di un’arma mortale: il suo veleno. Ha quindi l’abilità di conoscere la materia fluida, di vivere tra due mondi, di dare la morte, e per questo in molte culture è l’elemento di congiunzione tra il mondo infero e quello terreno, come il segreto della guarigione. Ma possiamo aggiungere un altro significativo passaggio. Nella cultura hindu il serpente che dorme avvolto su se stesso alla base della nostra colonna vertebrale è il simbolo della Kundalini,⁵ l’energia che dobbiamo risvegliare attraverso la pratica spirituale e che ci risana fino a condurci all’illuminazione quando raggiunge il settimo chakra Sahasrara,⁶ sito sulla parte superiore del cranio e corrispondente alla fontanella.
Possiamo quindi percepire i miti legati al serpente come l’annunciazione della prossimità della soglia. Il suo ruolo è quello di proteggere i tesori dal curioso, da chi non è realmente motivato o pronto a compiere il passaggio, ma, quando siamo decisi ad andare oltre, diventa un grande alleato, oltre che una valida chiave d’accesso. D’altro canto così è stato per Eva, che fortunatamente ha messo l’essere umano nella condizione di intraprendere il suo viaggio di conoscenza, mangiando la famosa mela. Nella sua funzione di guardiano della soglia, questo sacro animale si accompagna spesso ad un aspetto del femminile che la cultura patriarcale teme e disprezza proprio perché ha un potere infinito e incontrollabile, quello della madre terribile.⁷
La mitologia greca ancora ci insegna tramite l’immagine di Medusa, l’unica mortale tra le tre sorelle Gorgoni, creatura femminile dal viso bellissimo ma dal capo anguicrinito.⁸ Nessuno poteva guardarla in volto, altrimenti rimaneva pietrificato:
lo sguardo pietrificante della Medusa rientra nell’ambito della dimensione terribile della grande dea: la rigidità corrisponde, infatti, alla morte. Quest’effetto del Terribile è in contrasto con la mobilità del flusso vitale che scorre in tutto l’organismo ed è l’espressione psichica della pietrificazione e della sclerosi. La Gorgona, quindi, è l’immagine alternativa della vita nell’utero, visto come utero di morte o anche come sole notturno.⁹
Medusa, potenza ctonia fortemente collegata al mistero del ciclo del sangue, si