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Tre indizi non fanno una prova
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Tre indizi non fanno una prova
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Tre indizi non fanno una prova

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About this ebook

Elvira Grandi, una giovane donna,
bella, colta e con un grande segreto da custodire.

 Alberto Grandi, il marito,
un uomo anziano, affascinante, ricco e geloso.

Potito Lanza, un commissario di polizia,
scorbutico, brusco, insensibile,
ma con un gran fiuto investigativo.

Franco Alberti, un avvocato,
bravo, elegante, innamorato della toga,
del mare e della politica.

Un omicidio efferato,
un'indagine difficile e complessa.

Il carcere, le sue mura, i cancelli,
le inferriate, la sofferenza dietro le sbarre e fuori.

Gennaro cuore d'oro,
un criminale detenuto in espiazione pena.

Igor lo slavo,
un feroce rapinatore.

"Tre indizi fanno una prova" diceva Agatha Christie;
per qualcuno è così, per altri, invece, no.

RECENSIONI

“Ho cominciato a leggere il libro e
non sono riuscito a chiuderlo se non dopo essere arrivato alla fine.
Una scrittura pulita, senza fronzoli,
che ti tiene incollato con la curiosità di sapere come andrà a finire.
Da avvocato, mi è sembrato di essere
in tribunale con il collega Alberti,
in commissariato con l’ispettore Lanza,
in carcere con Gennaro e Igor,
per le strade delle città violente con la bella Elvira.”
Filippo, avvocato

“Trama avvincente e appassionante,
con un finale davvero imprevedibile.
Molto belli i personaggi,
descritti in maniera completa e interessante.
È un libro che consiglio.”
Francesca, insegnante

“Ho letto un altro libro di questo autore,
con protagonista l’avvocato Franco Alberti,
che ritrovo in Tre indizi non fanno una prova.
Bella la trama, i personaggi,
il modo di raccontare la storia.
Da leggere tutto d’un fiato.”
Giuseppe, imprenditore
LanguageItaliano
Release dateOct 17, 2018
ISBN9788829530694
Tre indizi non fanno una prova

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    Tre indizi non fanno una prova - Domenico Farina

    Christie

    Capitolo Uno

    Lei era bella, molto.

    Si chiamava Elvira, era alta, bionda e con due occhioni più azzurri del cielo terso in un pomeriggio d’estate.

    E poi era colta, molto.

    Una di quelle che vengono chiamate donne in carriera.

    Professionista, seria e affidabile, con un futuro spianato simile a un’autostrada a quattro corsie.

    Viaggiava sola in macchina, diretta veloce verso casa.

    Era stata due giorni fuori per incontrare gente importante in vista di un incarico prestigioso, almeno questo era quello che aveva detto al marito prima di partire.

    In verità aveva passato due giorni fuori con un uomo, il suo amante fisso.

    Guidava tranquilla, nel buio di una serata serena e abbastanza calda, guidava, ascoltava la radio e canticchiava.

    Pensava a quello che avrebbe dovuto dire al marito al suo rientro, alle domande che lui le avrebbe rivolto.

    Pensava a quante bugie avrebbe dovuto dire per ricostruire la sua due giorni di lavoro, alle motivazioni che avrebbe dovuto addurre per dirgli che, sì, insomma, quell’incarico prestigioso non lo aveva avuto e non per colpa sua, ma dei suoi stupidi interlocutori.

    Mentre pensava e cantava, notò qualcosa sul ciglio destro della strada, sembrava una poltroncina o qualcosa di simile.

    Sulle prime non diede molto peso alla cosa, poi improvvisamente esclamò: Ma cos’è? Sembra un sediolino per bambini.

    Infatti era un sediolino per infanti, di quelli che si usano in macchina per far viaggiare i bambini e sembrava anche occupato, insomma c’era qualcuno o qualcosa sopra.

    Frenò bruscamente, inserì la retromarcia e si avvicinò al sediolino.

    Ma è un bambino, pensò.

    Ma chi diavolo ce l’ha messo lì? E soprattutto perché? Forse l’hanno abbandonato perché qualcuno lo trovasse?.

    Chissà!

    Spense la macchina, slacciò la cintura di sicurezza, scese e si avvicinò velocemente al sediolino.

    Sì, c’era un pupo seduto, ma non era un bimbo, era un bambolotto, di quelli di plastica, in tutto simili ai bambini in carne e ossa.

    Ma che significa questa cosa?, esclamò a voce alta.

    Significa che sei un’idiota e ci sei cascata. Ora vieni con noi, che ci divertiamo.

    Si girò, vide tre uomini e solo allora capì che aveva fatto una cazzata a fermarsi e si ricordò anche di quel messaggino seriale che tempo prima girava sui social e che raccontava una storia simile, invitando tutti a non fermarsi in casi simili e ad avvisare subito la polizia.

    Già, lo aveva dimenticato quel messaggino e ora era tardi, troppo.

    Capitolo Due

    Lui era più vecchio di lei e certamente non bello quanto sua moglie.

    Si chiamava Alberto Grandi, era alto, moro e robusto, con tanti capelli brizzolati, maniacalmente pettinati all’indietro.

    Era un imprenditore molto noto e, soprattutto, molto ricco, e verosimilmente questa era la ragione per cui Elvira lo aveva sposato.

    Non era mai stato geloso, ma lo era diventato, strada facendo.

    La differenza d’età con Elvira, la sua straordinaria bellezza, il suo charme e, soprattutto, le sue continue assenze da casa per motivi di lavoro, lo avevano reso geloso, forse anche troppo.

    E poi tutti i viaggi di lavoro della moglie si erano sempre conclusi con un nulla di fatto e questo doveva pur significare qualcosa.

    Lei partiva alla conquista di un incarico prestigioso e tornava sempre senza quell’incarico.

    Una casualità o una bugia?

    Fu così che decise di ingaggiare un investigatore privato per monitorare i movimenti della moglie, per conoscere i suoi spostamenti, per verificare la sua fedeltà o infedeltà, ma questa seconda opzione lo terrorizzava, a dir poco.

    Non ci mise molto l’investigatore privato a scoprire tutto.

    L’amante di Elvira si chiamava Guido Arcieri, era giovane, bello, aitante, nullafacente e puttaniere.

    Giocava a tennis, era bravo, ma non avrebbe mai fatto carriera, era destinato a rimanere uno dei tanti e nulla di più.

    Viveva di espedienti, succhiava il sangue alla madre vedova e benestante, a volte intratteneva relazioni con donne anziane per fregar loro soldi, lusso e benessere.

    Un gigolò?

    No, per Alberto era uno squallido pezzo di merda, un puttaniere e nulla di più.

    Mentre aspettava il rientro della moglie, già immaginava le stupidaggini e le bugie che gli avrebbe raccontato per nascondere l’ennesimo viaggio d’amore e non di lavoro.

    Sapeva perfettamente dov’erano stati i due amanti, dove avevano alloggiato, come avevano passato quei due giorni.

    Aveva anche alcune fotografie, gliele aveva date l’investigatore privato, che, dopo aver scoperto dov’erano andati i due e dopo aver fatto un bel book fotografico, era tornato e aveva consegnato tutto ad Alberto Grandi, ricevendo il concordato e lauto compenso.

    Ora Alberto aveva fra le mani quelle foto, le girava e le rigirava e pensava a quanto fosse puttana e traditrice sua moglie, bella sì, ma anche puttana.

    Lei ovviamente non raccontava la sua storia segreta al marito e questo, da parte sua, non le diceva di aver scoperto tutto.

    Prima o poi glielo avrebbe detto, buttandole in faccia quelle foto e cacciandola via di casa in malo modo, ma non era ancora giunto il momento.

    Che poi non c’era un motivo che giustificasse il suo silenzio o forse c’era, ma lui non voleva ammetterlo.

    Già, Alberto era ancora innamorato di Elvira e, nonostante tutto, sperava che lei si fermasse, che tornasse indietro, dopo aver troncato quell’inutile orribile relazione extraconiugale, o forse sperava che a troncare la relazione fosse quel bastardo di Guido.

    Assorto in questi pensieri, Alberto non si era reso conto che era ormai mezzanotte e che la moglie non aveva mai fatto così tardi.

    Nonostante ciò, non si preoccupava e pensava che probabilmente la troia aveva finito di cenare tardi col suo amante e per questo stava tardando.

    Erano trascorse ancora un paio d’ore, ma di Elvira nessuna traccia.

    Fu così che decise di chiamarla sul cellulare, ma la vocina dell’operatore freddamente comunicava che l’utente chiamato non è al momento raggiungibile.

    Puttana, pensò, e, stanco di farsi del male, decise di andare a letto, cosa che fece subito.

    Dopo neanche mezz’ora si addormentò e così almeno finì di torturarsi.

    Capitolo Tre

    Vi prego, lasciatemi andare, vi darò quello che volete, sono ricca, posso pagare, ma lasciatemi andare, non fatemi del male, urlò Elvira.

    Ma non fece neppure in tempo a completare la frase, che un violento manrovescio le ruppe il labbro.

    Finì per terra e sentì in bocca il sapore amaro del sangue, che si mescolava con la terra.

    Subito dopo un violento calcio nello stomaco e un colpo in testa, sferrato con un bastone di legno, la fecero svenire.

    Quando riaprì gli occhi non sapeva quanto tempo fosse passato, aveva dolori in tutto il corpo, il labbro gonfio non sanguinava più e lei non sentiva più quel sapore amaro in bocca.

    Stava in una stanza lurida, con le pareti inizialmente bianche, divenute poi grigie per lo sporco.

    Anche il pavimento era grigio, sporco più delle pareti, e puzzava di urina e cibi rancidi.

    La stanza non era arredata, c’era solo una branda con un materasso sporco, non c’erano finestre e non entrava

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