Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Gipsy
Gipsy
Gipsy
Ebook222 pages3 hours

Gipsy

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Io e Irene ci scambiammo uno sguardo, un cenno d'intesa, dopo di che anche lei annuì. Tra noi due, quella notte, nacque una strana complicità. Mi scrivo perché sono solo. Non so chi leggerà quello che scriverò, per questo che scrivo a me stesso. Probabilmente non lo leggerà nessuno, perché brucerò tutto. Ora scriverò solo per me, mi fa stare bene. Sento la solitudine, la vedo qui intorno, là, di fuori: posso uscire e toccarla, farmici il bagno, affogarci dentro se voglio. Ma ne sono già troppo intriso ne ho umide le ossa da tempo ed i dolori che mi provoca talvolta mi impediscono di andare avanti come vorrei. Ed è così che oggi ho cominciato a scrivere in funzione di non so cosa, per lasciare una traccia di me. Ma se poi brucerò tutto?
LanguageItaliano
PublisherLUPIEDITORE
Release dateOct 18, 2018
ISBN9788829530816
Gipsy

Related to Gipsy

Related ebooks

General Fiction For You

View More

Related articles

Reviews for Gipsy

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Gipsy - ANDREAS CAVACCINI

    Andreas Cavaccini

    GIPSY

    Per te, mio Tatò, ho scritto Gipsy anche per te.

    Che tu lo possa leggere tutto d’un fiato, senza esprimere giudizi affrettati, ma sempre con il cuore in mano.

    Titolo

    GIPSY

    Autore

    Andreas Cavaccini

    Editore

    LUPIEDITORE

    Sito internet

    http://www.yndy.it

    Tutti i diritti sono riservati a norma di legge. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta con alcun mezzo senza l’autorizzazione scritta dell’Autore e dell’Editore. È espressamente vietato trasmettere ad altri il presente libro, né in formato cartaceo né elettronico, né per denaro né a titolo gratuito. Le strategie riportate in questo libro sono frutto di anni di studi e specializzazioni, quindi non è garantito il raggiungimento dei medesimi risultati di crescita personale o professionale. Il lettore si assume piena responsabilità delle proprie scelte, consapevole dei rischi connessi a qualsiasi forma di esercizio. Il libro ha esclusivamente scopo formativo.

    PREFAZIONE

    La lettura di Gipsy va predisposta, come una giostra un po’ spericolata, prima di salire è necessario leggere i cartelli con le avvertenze sui comportamenti da seguire, le cose da non fare, e i rischi che si corrono usandola in maniera errata. Questo non perché Andreas Cavaccini abbia scritto un romanzo complicato, o peggio pericoloso; ma perché esattamente come quelle giostre che ti sballottolano e ti agitano, Gipsy è un romanzo costruito su molti piani, ambientazioni e paesi, sfalsati nel tempo e nella memoria del protagonista e degli altri personaggi che animano la storia.

    E poi c’è un altro piano ancora, che come lo specchio di Alice diventa a tutti gli effetti una parte integrante della storia, pur essendo composto di materie e azioni che non sono reali; i sogni del protagonista hanno la stessa dignità di storia dei fatti raccontati come reali, o almeno realistici.

    Adesso, con questa premessa, immaginate il romanzo di Andreas come una stampa di Escher, non a caso definito il pittore dell’Oltre il possibile, rappresentazione perfetta, nuda e realistica di una realtà fisicamente impossibile. Quella con cui si trova a confrontarsi Andrea, il protagonista omonimo (un caso? Chissà!) dell’autore, che ci rivela il dipanarsi di un’ossessione, quella che – partendo da un ritrovamento più o meno fortuito di una busta contenente un memoriale – e poi da una serie di indizi trovati, forse per caso, forse no, lo porta a compiere una serie di viaggi, indietro nel tempo e spostamenti attraverso diverse nazioni, per cercare di ritrovare un padre ufficialmente morto trent’anni prima.

    Il parallelismo con Alice e il suo paese delle meraviglie l’ho già utilizzato, eppure devo farlo di nuovo, perché questo appare il lungo viaggio di Andrea attraverso incontri e testimonianze, moderni cappellai matti e conigli solo apparentemente innocenti, in questo caso un amico reale, un’amante ereditata e un vecchio parroco, un veggente, e tanti altri personaggi. Ricordi di infanzia, incubi e la dimensione onirica di una realtà che forse è più distorta e falsata dell’illusione dei sogni.

    Andrea percorre una corsa a tappe, in cui il traguardo appare sfuggente e irraggiungibile, forse inesistente, ma una volta che si scende in pista a correre per raggiungerlo, fermarsi diventa impossibile, perché il rimorso del rimpianto di non aver provato a ritrovare questo padre, tanto più presente e incombente quanto più assurdamente assente, sarebbe una zavorra impossibile da portare per il resto della vita.

    A cosa servirà, alla fine, questo viaggio di Andrea, a tratti disperato, febbricitante e al limite dell’ossessione? Forse a nulla di concreto, sicuramente servirà a un fine interiore, inizialmente inespresso, avrà avuto lo scopo di riconciliarsi con se stesso e con un passato rimosso, inconsapevolmente.

    Non è un noir, non è un giallo, ma non è neanche un cosiddetto romanzo Mainstream, in quella profusione di definizioni che l’industria editoriale ama assegnare alle proprie opere, per sapere dove e come collegarle negli scaffali delle librerie. E’ un romanzo che spiazza, ridisegna i confini dei generi, impedisce di farsi classificare, come quel padre che racconta, senza farlo apparire veramente mai. E’ un romanzo ribelle, scritto in maniera libera.

    Ed è per questo che serviva predisporvi in qualche maniera a leggerlo, avvisandovi che ci troverete dentro una giostra di parole che vi sballottolerà, ma vi dimostrerà anche che scrivere in maniera diversa si può.

    Buona lettura.

    Marco Proietti Mancini

    PROLOGO

    2015

    BUSTA DA CONSEGNARE SOLAMENTE A MIA MOGLIE FRANCESCA PASTORINI PERCHE’ SIA BRUCIATA CON IL MIO CORPO

    La puzza dell’umidità della cantina mi entrava nelle narici, mentre osservavo impietrito quella frase, scritta con pennarello nero, a caratteri grandi e in stampatello. La frase prendeva tutto il fronte di una busta bianca, poco più grande di un formato A5. Busta adagiata su uno scatolone pieno di cartacce e accanto ad essa vi era la sagoma di un topo quasi del tutto decomposto.

    Pino, il nuovo inquilino del palazzo a Novettano, poco prima mi aveva detto di controllare la cantina: c’erano delle cose che appartenevano a noi, alla famiglia Cavallini, delle cose che avrebbe altrimenti buttato via.  Per evitare di guardare l’animale putrefatto, concentrai lo sguardo solo sulla busta. Era lì, impolverata e abbandonata, attorniata da foto di famiglia ingiallite e buste da lettera divorate dai topi. Pareva quasi chiedermi aiuto, implorarmi di portarla via da quel posto tetro e ammuffito.

    Afferrai al volo il plico solitario, acchiappando anche un’enorme ragnatela che sbrogliai subito. Non riuscii, però, ad evitare la vista del ratto morto. Era grosso, anzi era stato grosso, di lui rimanevano solo scheletro e pelliccia. Rabbrividii. I topi mi avevano sempre fatto schifo, ma era la prima volta che ne vedevo uno morto. Era molto peggio. A debita distanza, osservai meglio le foto. Alcune avevano sopra degli escrementi e, con ribrezzo, le presi al volo. Riguardavano una parte della famiglia con cui non avevo più rapporti: a parte zio Gennaro, al quale avevo sempre voluto bene.

    In una fotografia zio Gennaro sembrava felice, fissava l’obiettivo e sorrideva, mentre cercava di tenere a bada Bibì, il suo cane border collie.

    Ora zio Gennaro non c’era più. Se n’era andato dieci anni prima e le sue ceneri erano contenute in un’urna nella cappella di famiglia del cimitero di Novettano.

    Malgrado quello che aveva scritto mio zio, la busta era ancora lì, intatta. Francesca Pastorini, sua moglie, non aveva esaudito le sue volontà.

    La mia piccola mano aveva difficoltà a trattenere tra le cinque dita l’involucro. Era pesante, gonfio e traboccante di carte e documenti.

    Pensai subito che potesse contenere materiale personale di mio zio e della mia zia acquisita, i due si erano separati molti anni prima. Forse lì dentro c’era qualcosa di intrigante, qualcosa che mio zio si era vergognato di rendere pubblico, questioni di corna o ricatti, qualcosa da bruciare.

    Ma mi sbagliavo.

    Quando sbirciai con le dita il contenuto e lessi il nome di mio padre, Cristiano Cavallini, rabbrividii ancora una volta. Quel giorno era primavera e faceva già caldo nel paese vesuviano. Mi sorpresi che, in poco più di mezz’ora, era già la seconda volta che mi venivano fremiti di freddo.

    Ma fu solo un attimo, compresi perché la busta aspettava solo me. Ora avevo caldo. Ringraziai nell’animo zia Francesca per non aver obbedito alle espresse volontà di zio Gennaro e di non aver mai bruciato tutta quella carta.

    CAPITOLO 1

    1992

    La mattina del 2 dicembre 1992, nell’ufficio contrattazioni del Banco della Trinacria, a Milano, il telefono squillò prima del solito.

    Rispose il funzionario Paolo Scarcella che, con fare già stanco, mi passò la chiamata.

    – Sì, pronto?

    – Ciao Andrea, sei già sveglio?

    Dall’altra parte riconobbi subito la voce scherzosa di zio Gennaro da Roma.

    – Sono le nove, zio, e sono ancora assonnato, lo sai.

    – Le Fiat come stanno andando? Ho letto che Agnelli vorrebbe...

    – Zio, non ho molto tempo. Tra poco devo andare in Borsa e sono giornate incasinate.

    – Va bene, non ti ho chiamato per sapere come va il lavoro. Senti, ti chiamavo per una cosa curiosa. Non voglio anticiparti nulla per telefono; però, per un attimo ho pensato a...

    – Zio, a cosa?

    – Acquista Il Manifesto, e poi mi dici.

    Sbuffai. – Ma almeno vuoi dirmi perché? Non ho tempo di leggere, mi basta già sfogliare tutti i giorni Il Sole 24 Ore. Ho fretta, zio!

    – Tu compralo e poi fammi sapere.

    Sentivo ancora l’eco del ridacchiare strano di mio zio, mentre scendevo velocemente le scale dello stabile. Era uno sghignazzare di chi vuole celare il proprio smarrimento, virando sul comico.

    Non avevo avuto il tempo di pensare al motivo di quella telefonata e, soprattutto, al perché avessi dovuto acquistare Il Manifesto.

    Zio Gennaro era sempre stato un comunista sfegatato, tutti i giorni leggeva i quotidiani di estrema sinistra, quindi non era certo una novità. Anche se mi definivo io stesso un comunista, in quel momento mi sentivo un po’ a disagio da- vanti al mio edicolante di via Torino nell’acquistare, per la prima volta nella mia vita, quel quotidiano.

    Non avevo molto tempo, tra poco sarei dovuto andare come tutti i giorni a Piazza Affari, dove mi aspettava il banchetto del Banco Trinacria. Lasciai milleduecento lire all’edicolante e distesi il giornale su decine di riviste colorate, davanti a lui che mi guardava ora infastidito.

    In prima pagina risaltava una grande foto raffigurante un uomo e una donna sorridenti. L’uomo con la barba teneva il braccio destro sulle spalle della donna, a mo’ di abbraccio.

    – Caspita, – esclamai ad alta voce, – ma questo è...papà!

    Il giornalaio mi sorrise con la faccia sconcertata, quanto la mia. Mio padre, però, era morto sette anni prima.

    CAPITOLO 2

    1985

    A quell’ora si sentiva solo il fragore delle onde che si abbattevano sulla riva, stanche dopo una giornata intensa. All’orizzonte il sole salutava l’isola di Procchio e la giornata, tinteggiando di un rosso purpureo il cielo circostante.

    Procchio era l’isola più piccola tra quelle del golfo di Napoli. Per molti, la più bella. Sdraiato sulla sabbia ancora calda, ammiravo quello spettacolo di acquarelli da più di mezz’ora. Mentre osservavo la palla rossa immergersi nel mare, riflettevo su quanto fosse strano che il sole tramontasse così veloce e come la stessa giornata fosse trascorsa così rapida. Oggi come ieri e come domani.

    Nel fulcro della mia adolescenza, quel tempo mi appariva inafferrabile. Volevo congelarlo e desideravo trovare, finalmente, il coraggio di fermare Roberta per dirle, senza esitazioni, Ti amo.

    Rimasi ancora per un attimo disteso sulla spiaggia. Era bello poter immaginare ed escogitare, per l’ennesima volta, qualche nuova strategia di approccio prima di sera.

    Quell’estate avevo grandi progetti.

    Ero un ragazzo piacente di diciassette anni con i capelli biondi a caschetto che mi facevano assomigliare vagamente a uno dei Beatles, per la precisione a Paul Mc Cartney; oppure a Nino D’Angelo, dicevano alcuni. Ero anche molto corteggiato da diverse ragazze di Procchio, la mia isola adottiva.

    A Procchio ci arrivai per caso l’estate del 1980, quando i miei si separarono. Mia madre, tedesca, aveva trovato lavoro presso l’unica agenzia di viaggi dell’isola.

    Mi invitò qualche giorno.

    Mentre passeggiavamo giù al porto della Marina Grande, mi chiese se avessi preferito vivere con lei oppure con mio padre. Io risposi che volevo più bene a lei e non avrebbe dovuto neanche domandarmelo.

    Mia sorella Luisa, invece, qualche giorno prima scelse di stare con mio padre a Novettano.

    Sarà perché amavo più di ogni altra cosa la mamma; sarà perché odiavo mio padre; sarà perché fui sedotto dal mare di Procchio; oppure sarà che mia madre mi fece quella domanda, mentre accanto a noi passava una ragazzina del posto che mi sorrise; sarà tutte queste cose messe insieme, scelsi di stare per sempre sull’isola.

    Solo più avanti mi accorsi che quella ragazza che mi sorrise giù al porto, in costume da bagno bianco e ricoperta solo da un telo di mare sulle spalle, si chiamava Roberta.

    Non so perché piacevo alle ragazze di Procchio, forse perché alcune erano attratte dai miei modi scanzonati di prendere la vita, oppure perché avevo un viso allegro e trasparente, oppure perché avevo dei tratti somatici teutonici che poi avrei perso da adulto. Allora, però, non mi interessavano molto.

    Non che non ce ne fossero di carine, attraenti, e perfino maliziose, ma io pensavo solo a Roberta. Pensavo al suo sorriso e credo che mi avesse stregato per sempre. Era una ragazza minuta e dai capelli mori a caschetto, con occhi tanto espressivi che mi facevano sciogliere nell’istante in cui incrociavano i miei. Sciogliere e congelare allo stesso tempo. Se non stava a casa a studiare, Roberta era in compagnia della sua amica Giovanna. Ogni tanto, in verità di rado, le vedevo scorrazzare per l’isola su una Vespa 50, rossa fiammante. Quando il motore sfrecciava per le viuzze di Procchio, difficilmente mi facevo trovare impreparato. Cercavo sempre di farmi trovare sul ciglio della strada e, con fare indifferente, facevo finta di stare lì per caso, con la speranza di incrociare per un attimo, anche solo per un secondo, i suoi begli occhi neri e il suo sorriso.

    La sera del sabato avevo più fortuna di incontrarla. Lei faceva parte della mia stessa compagnia di amici giù al porto principale. Allegra e raggiante, scendeva dalla sella della Vespa, guidata dall’amica, e si avvicinava a tutto il gruppo davanti alla gelateria, il nostro ritrovo. Tutti gli amici maschi le venivano incontro, le parlavano. Tutti, tranne me. Particolarmente maldestro, rimanevo in disparte e facevo finta che il mio cono gelato mi interessasse di più.

    Un giorno i miei compagni organizzarono un’uscita al cinema. A Procchio vi erano solo due sale cinematografiche e entrambe proiettavano, cinque giorni su sette, film pornografici. Il sabato e la domenica no.

    Non ricordo che film andammo a vedere quella sera, ero troppo eccitato dal solito pensiero che ci fosse pure Roberta. I miei amici sapevano naturalmente della mia cotta e credo lo sapesse tutta l’isola, Roberta compresa. Quando, prima dell’inizio della pellicola, tutti presero posto velocemente sulle vecchie sedie di legno, mi accorsi che avevano lasciato libero il posto accanto a lei. Mi dissero, solo dopo, che lo avevano fatto per me. Io, però, li avevo maledetti in quel momento. Rimasi rigido, seduto accanto a Roberta, tutta la durata del film. Mi sentivo svenire quando le nostre braccia si sfioravano sul bracciolo che ci univa, la mia destra con la sua sinistra. Percepivo una strana energia che passava tra di noi. Mi sentivo svenire ma, in cuor mio, speravo che quell’attimo non passasse mai.

    Lei si girava verso di me e, forse, voleva che facessi altro. Io continuai a guardare il film, film di cui non ricordo nulla.

    Il sole era già tramontato e cominciava a fare fresco. Presi l’asciugamano – in procchiano, la tovaglia – e m’incamminai verso il porto della Conchetta per tornare a casa. Avrei mangiato qualcosa di veloce e mi sarei fatto bello per incontrarmi con la solita compagnia alla Marina Grande.

    Corsi per la ripida salita di via Simone Martini, dove potevo ancora sentire l’odore acre delle alghe essiccate al sole. Correvo su senza fatica: ero nel pieno della mia gioventù, non fumavo e non bevevo, i miei polmoni erano ancora immacolati.

    In pochi minuti raggiunsi il cortile. Sull’uscio di casa c’era mamma. C’era qualcosa di strano in lei, i suoi occhi verdi erano tristi.

    – Ma’, che c’è?

    – Andrea, tesoro, ti devo dire una cosa...

    Scoppiò in un pianto improvviso e le sue mani mi cercarono in un tentativo di un abbraccio.

    Non capivo e mi ritrassi.

    A volte, quando non si trovano le parole giuste oppure non hai la forza per farle uscire, si cercano o ci si appoggia ad altre forme di comunicazione quali la mimica del corpo, un’espressione del viso oppure manifestazioni di affetto, come un bacio o un abbraccio. Io, quella sera, costrinsi mia madre ad usare la parola.

    – Tuo padre... è morto. Papà è morto.

    CAPITOLO 3

    Quell’estate mi passò accanto come un vento di tramontana, benché tutti mi volessero far credere che era passato un uragano.

    Avevo perso mio padre, ma non ne ero completamente cosciente. Non ne ero convinto. Le mie emozioni si erano paralizzate e non avevo versato neanche una lacrima al suo funerale. Parenti e amici avevano cercato di rincuorarmi, ma io ero rimasto di ghiaccio. Durante le esequie a Roma, zio Gennaro mi venne incontro con un abbraccio e un pianto, la sua barba crespa a incontrare la mia guancia, la cosa mi diede solo fastidio. Mi sentivo in colpa e finsi di piangere, ma alla fine fui io a consolare mio zio con una pacca sulla spalla.

    Che idiota che sono! pensai.

    Anche mio padre aveva la barba. Se n’era andato a trentanove anni, ma la sua barba era già quasi bianca. Ora di lui non c’era più nulla, il suo corpo corpulento era ridotto a una manciata di cenere, rinchiusa dentro un’urna che giaceva sull’altare della chiesa San Bellarmino.

    Tuo padre è morto a Parigi, infarto, così mi avevano detto. E io lo avevo accettato. D’altra parte, da uno che soffriva di diabete, che fumava due o tre pacchetti al giorno di Gauloises o Gitanes senza filtro, che alternava giorni di pasti succulenti ad altri di dieta ferrea, c’era da aspettarselo.

    Ora erano tutti lì a contemplare quell’urna spoglia portata da mia zia Angela, tragitto Parigi-Roma.

    La chiesa era gremita di parenti, amici ed ex colleghi di Cristiano Cavallini. Tutti erano assorti nei loro pensieri e nel loro dolore, tranne io, che non riuscivo a provare alcuna forma di sofferenza. Mi pareva impossibile che mio

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1