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QUANTICA
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QUANTICA

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Un feroce omicidio costringe una ragazza a nascondersi in una città dove ogni respiro è sotto il controllo delle autorità.
In un centro di ricerca parigino si cerca di dare ai computer quantistici la facoltà di pensare e di prendere coscienza di sé.
Marc Lafitte Vaughn, un ricercatore a capo del suo laboratorio, è in procinto di portare a termine i suoi progetti scientifici quando un furto d'identità ai danni di una delle figlie sconvolge la sua esistenza, costringendolo a difendersi da un pugno di potenti che decidono del destino dell'intera umanità.
Si ritroverà braccato e costretto alla fuga, sorretto solo dalla costante presenza di una enigmatica figura femminile, avvincente e inquietante.
Nella cornice di un thriller ambientato in un prossimo futuro, l'autore disegna un mondo governato attraverso l'elettronica e la robotica, suddiviso tra individui utili o sopprimibili, in una società lacerata dalla crisi ambientale ed economica.
In tale contesto, attraverso una trama ricca di colpi di scena e una concatenazione di eventi apparentemente scollegati, Marc dovrà trovare il bandolo di una matassa complessa e fare una scelta, che rappresenterà forse l'ultima opportunità concessa all'uomo prima che a decidere del futuro di tutti siano solo le macchine intelligenti.
LanguageItaliano
Release dateOct 19, 2018
ISBN9791220037105
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    QUANTICA - ALEX KALATCHOFF

    IL LIBRO

    Un feroce omicidio costringe una ragazza a nascondersi in una città dove ogni respiro è sotto il controllo delle autorità.

    In un centro di ricerca parigino si cerca di dare ai computer quantistici la facoltà di pensare e di prendere coscienza di sé.

    Marc Lafitte Vaughn, un ricercatore a capo del suo laboratorio, è in procinto di portare a termine i suoi progetti scientifici quando un furto d'identità ai danni di una delle figlie sconvolge la sua esistenza, costringendolo a difendersi da un pugno di potenti che decidono del destino dell'intera umanità.

    Si ritroverà braccato e costretto alla fuga, sorretto solo dalla costante presenza di una enigmatica figura femminile, avvincente e inquietante.

    Nella cornice di un thriller ambientato in un prossimo futuro, l'autore disegna un mondo governato attraverso l'elettronica e la robotica, suddiviso tra individui utili o sopprimibili, in una società lacerata dalla crisi ambientale ed economica.

    In tale contesto, attraverso una trama ricca di colpi di scena e una concatenazione di eventi apparentemente scollegati, Marc dovrà trovare il bandolo di una matassa complessa e fare una scelta, che rappresenterà forse l'ultima opportunità concessa all'uomo prima che a decidere del futuro di tutti siano solo le macchine intelligenti.

    L'AUTORE

    Alex Kalatchoff è un autore e giornalista svizzero, che vive in Ticino. Ha lavorato alla RAI - Radiotelevisione Italiana nei suoi anni giovanili e dal 1990 stabilmente per la Radio Svizzera di lingua italiana. Esperto musicale, ha esercitato la sua professione come produttore e inviato per la RSI. I suoi interessi e l'esperienza maturata anche nel trattare argomenti scientifici, o di carattere sociale e ambientale, lo hanno condotto a scrivere questo romanzo.

    Alex Kalatchoff

    QUANTICA

    romanzo

    Questo libro è un’opera di fantasia.

    Qualsiasi analogia con fatti o persone

    del nostro tempo è casuale.

    Tutte le tecnologie descritte esistono già o

    sono in fase di sviluppo presso i laboratori

    universitari più noti nel mondo.

    www.quantica-romanzo.com

    ISBN 9791220037105

    In copertina: foto © by Gabriel Kelemen

    Copyright © 2018 by Alex Kalatchoff

    Tutti i diritti riservati

    QUANTICA

                                    A Sarah e Uris

    1

    Parigi, lunedì 1 giugno 2037

    L’uomo guardò la torre e stimò la distanza che la separava dalla suite panoramica in cui alloggiava, al ventisettesimo piano.

    La sua mole lo impressionava, era immensa e sembrava troppo vicina all’albergo. Si ergeva al di là della Senna e in linea retta doveva trovarsi a non meno di un paio di chilometri. A ingannare l’occhio era l’inusuale prospettiva, dovuta al particolare punto d’osservazione.

    Avvertì tutto il peso di quell’intreccio in ferro e chiodi, alto trecentoventiquattro metri e ancorato a terra con un miracolo d’ingegneria. Oltre a essere il simbolo della capitale, era un monumento al progresso e alla fede nel futuro. Eppure, in passato, lo aveva sempre lasciato indifferente.

    La fissò con attenzione, ammirando la genialità del suo costruttore.

    Spesso l’aveva vista di sfuggita, in genere da lontano, e non aveva mai provato il desiderio di visitarla. Lo avrebbe fatto per l’ora di pranzo, perché così gli era stato richiesto.

    Ai piedi della torre si apriva una distesa di tetti bruni, in ardesia e zinco, e di palazzi in chiaroscuro che sfumavano all’orizzonte. Uno sconfinato mare di pietra antica e moderna. Altri edifici, in vetro e cemento, tentavano di grattare il cielo parigino, niente però era paragonabile all’eleganza di questo scheletro slanciato. Tra il grigio e il seppia, nell’aria umida del mattino, sembrava sbiadire con il tempo come una vecchia foto in bianco e nero. Ricordò al professore che era nata agli albori dell’era tecnologica, con la radiotelegrafia e il motore a scoppio. Quasi che tutto il divenire conseguito dalla società umana si fosse poi dipanato proprio dalle sue antenne, collocate in cima alla testa in ferro forgiato, dalle quali avevano bombardato la città di onde elettromagnetiche per oltre un secolo.

    Sul filo di quel pensiero, gli venne in mente che Gustave Eiffel, oltre a erigere un monumento al progresso e alla grandezza, aveva contribuito a costruirne un altro dedicato alla libertà che illumina il mondo, spedito sulla sponda opposta dell’Atlantico. La donna, fiera nel sorreggere il fuoco eterno di una grande conquista umana, si era però vista ridotta ad attrazione turistica come una dea dell’antichità. Umiliata nello spirito e schiaffeggiata dalle tempeste che la investivano sempre più spesso, insieme alla sua metropoli in agonia.

    La libertà: parola anacronistica, pensò il professore con amarezza; ormai fuori corso come una moneta da collezione. Esaltata, dibattuta, reinterpretata e manipolata, era stata inquinata al punto che nessuno riusciva più a comprenderne il significato. Un souvenir demodé per nostalgici controcorrente.

    Bevve un lungo sorso di caffè e sulla fronte alta si accentuarono le rughe. Con un gesto abituale si passò le dita tra i baffi e i peli della barba, corta e ben curata, per accertarsi che fosse rimasta asciutta.

    Nubi scure e uniformi annunciavano un’altra giornata piovosa, tutt’altro che primaverile. Ma il livore del cielo era in armonia con l’umore di quell’uomo di sessant’anni, piccolo di statura e dal volto spigoloso.

    Negli occhi chiari, assenti, velava le sue ansie. Ripensò ai documenti da trasmettere, alle testimonianze raccolte e alle annotazioni aggiunte prima di intraprendere il viaggio. Quindi al messaggio ricevuto con il luogo dell’appuntamento: proprio lassù, in cima alla torre che aveva di fronte.

    Tra i suoi pensieri più bui, però, c’era innanzitutto sua figlia. Era venuto il momento, troppe volte rinviato, di rivelarle la verità. Le avrebbe parlato in un posto appartato lungo la Senna, che conosceva bene.

    Il suono acuto di un bip elettronico lo distolse dalle sue inquietudini. Proveniva da un tablet PC a schermo incurvato, rettangolare e flessibile, che proiettava ologrammi in 3D. Era appoggiato sul tavolo accanto al vassoio della prima colazione e le cifre bronzee di un pendolo in movimento indicavano le otto e trenta minuti. Continuarono a lampeggiare finché non pronunciò disattiva puntando un dito sul riquadro on/off. Lo schermo, incorniciato in un filo nero, si arrotolò formando un righello compatto di quaranta centimetri, che poi si restrinse della metà. Lo ripose nella custodia e quindi in una borsa in pelle.

    Nei piattini sul vassoio alcuni dischetti di pane tostato, già spalmati di creme e marmellate, attendevano ancora di essere consumati, con una banana affettata a rondelle e qualche fragola tagliata a spicchi.

    Assaggiò la frutta, ma era insapore: perfino le colazioni non somigliavano più a quelle di un tempo.

    Terminò di vestirsi e infilò una giacca leggera, color panna, sopra una T-shirt blu in nanofilato piezoelettrico. Un tessuto misto a carburo di boro e ad altre trame e filamenti elettronici che gli consentirono di connettersi alla rete. Il terminale, integrato nell’abito, si accese e lui ebbe un’identità. Per ultimo, recuperò da un cassetto un astuccio formato chiavetta. Ruotò un minuscolo coperchietto e controllò che il chip trasparente, in cristallo, fosse al suo posto. Lo richiuse e lo tenne nascosto tra le dita.

    Si diresse verso la porta con la borsa a tracolla e con il pollice sfiorò la serratura elettronica. Il piccolo schermo autopulente lesse l’impronta e la porta scorrevole si aprì.

    «Signor Chauvin, la direzione desidera sapere se intende prolungare il soggiorno» chiese con gentilezza una voce femminile.

    «Sì, di ventiquattrore.»

    «La direzione la ringrazia e le augura una felice permanenza a Parigi.»

    L’uomo andò a bussare alla suite a fianco. Sotto allo spioncino si accese una scritta rossa: Attendere prego.

    Fece qualche passo davanti alla porta, accarezzandosi la barbetta ingrigita, e bussò di nuovo. «Claudine...» chiamò irritato.

    Un’adolescente dal viso gentile e pulito, dall’apparente età di quindici o sedici anni, uscì un attimo dopo. «Eccomi! Avevi detto alle nove» disse in tono di rimprovero, per tanta impazienza. «Mancano dieci minuti.»

    Lui, serrando le labbra, la osservò con lieve apprensione. Longilinea, lo superava in altezza di alcuni centimetri. I capelli biondi, sciolti sulle spalle, gli occhi color verde smeraldo.

    L’abbracciò, e ne approfittò per infilarle in una tasca la chiavetta che teneva in pugno. «Oggi stai meglio?»

    «Certo, papà. È passata.»

    Senza dire altro, con aria preoccupata, il padre s’incamminò lungo il corridoio. La ragazza intuì che la mattinata non sarebbe stata all’insegna del buonumore.

    Incrociarono un robot lustrascarpe dall’aspetto simpatico, con un unico occhio montato su un collo buffo, lungo e snodabile, sul quale avevano incollato un farfallino con il nome dell’albergo: Hyatt Regency Paris Étoile.

    Alto da terra circa trenta centimetri e lungo un metro, era munito di cingoli, braccini retrattili, spazzole e cestelli. Tre paia di scarpe femminili attirarono lo sguardo di Claudine.

    Al loro passaggio il robot si spostò verso la parete. «Buongiorno signori» li salutò con voce maschile.

    Lei sorrise, mentre il padre non gli prestò alcuna attenzione. Altri robot androidi, somiglianti a cameriere, rifacevano i letti nelle stanze.

    In prossimità del primo ascensore, il professore pronunciò «lift» ed entrambi aspettarono sotto la luce bianca diffusa dai LED.

    Dal lato opposto del corridoio venne loro incontro un uomo piuttosto alto, sui quarant’anni, dai capelli neri e corti. Vestito di scuro, con una sgargiante camicia giro collo in seta verde, di pessimo gusto, si avvicinò con passo frettoloso e un sorriso formale. Trasmise subito una sensazione sgradevole. Negli occhi irriverenti, che non scollava dalla ragazza, c’era dell’ironia fuori luogo.

    Il professore lo ignorò, volgendo il suo interesse sul completino beige della figlia, arricchito di fini ricami colorati. Lei, timidamente, chinò il capo.

    Quando le porte dell’ascensore si aprirono Claudine entrò per prima.

    «Piano zero» disse il padre, riprendendo a tormentarsi la barbetta.

    La giovane si mise in un angolo, cercando di evitare lo sconosciuto. Aveva una vistosa cicatrice chiara sulla pelle olivastra, mediterranea, che gli arrotondava il mento in modo innaturale. Pronunciò due parole in arabo, come se stesse parlando con qualcuno, poi disse in francese: «Piano ventisei.»

    L’ascensore si fermò al piano sottostante. Un cameriere di colore, magro e di media statura, entrò senza né salutare né scusarsi. Sul gilet a righe era ricamato in oro un nome: Olivier, seguito da un numero a tre cifre. Aveva con sé un oggetto tubolare, rivestito di stoffa satinata color rubino e con arricciato un fiocco regalo.

    Rigido e professionale, guardò le porte richiudersi.

    Lo spazio si restrinse e il padre della ragazza giudicò la sua presenza ingombrante. Il personale doveva usare i lift di servizio, non quelli destinati alla clientela. Il cameriere lanciò uno sguardo all’ospite che non era sceso e lui abbassò le palpebre, in un cenno d’assenso.

    Il professore capì al volo che il cliente sapeva dell’altro in attesa al ventiseiesimo piano. Si allarmò, ma non lo diede a vedere. Appoggiò lentamente una mano sulla borsa che gli pendeva dalla spalla, mentre con l’altra cercò qualcosa nella tasca del pantalone. La figlia si stava specchiando e aggiustando i capelli.

    Il tizio dalla cicatrice si piazzò davanti alla porta. «Piano meno uno» disse tornando a fissare la ragazza con un sorriso beffardo, e tutto avvenne in un istante.

    Dal tubo volò via il coperchio e scivolò fuori un lungo tagliacarte dalla lama affilata, con un sottile manico in madreperla.

    Un brusco spintone alla spalla del professore lo costrinse a voltarsi verso di loro e il tagliacarte si proiettò contro il suo petto. Il bordo della borsa parò il colpo, facendo slittare la lama da un lato, lungo la T-shirt. La maglietta anticoltellata lo protesse dall’affondo, ma non dal dolore causato dalla punta, che gli graffiò il costato.

    Claudine lanciò un grido. Il padre, con il pollice già pronto, premette sul bottone di un piccolo oggetto tenuto nascosto nella mano destra.

    Due dardi, ad alto amperaggio e attaccati al Taser da un filo sottilissimo, si conficcarono nel gilet del cameriere ai due lati del petto; fulminandolo all’istante. L’uomo gemette per la micidiale scarica e cadde paralizzato in direzione della ragazza.

    Colta di sorpresa, lei d’istinto lo respinse.

    L’altro, impassibile, non mosse un muscolo. Solo il viso cambiò d’espressione: da ironico divenne feroce. Poi il suo braccio destro ruotò verso l’alto, descrisse una elle e centrò il padre in piena fronte con il palmo della mano. Una botta dritta e decisa, talmente violenta che la nuca del professore mandò in frantumi lo specchio, con un rumore secco.

    Claudine, inorridita, restò con il fiato sospeso. Vide il padre sbiancare e la borsa cadere a terra, insieme al Taser.

    Il criminale si chinò a raccogliere il tagliacarte e con un ultimo scatto affondò la lama nell’occhio del professore mentre si stava accasciando. Uno schizzo di sangue e parte del bulbo oculare gli imbrattarono la camicia di seta. Spinse allora la lama in profondità, per rigirarla nel cervello con brutalità inaudita.

    Altro sangue colò a fiotti lungo la barba del pover’uomo, che rantolò ed esalò l’ultimo respiro con un gemito straziante.

    La ragazza, atterrita, fissava la bocca aperta del padre e la sua smorfia di dolore. Un brivido la scosse fino ai piedi.

    Estratta la lama, l’assassino la squadrò gelido e lei percepì che era la fine; non avrebbe potuto fare nulla se non proteggersi il petto con le braccia. Vinta dallo sgomento, dalla gola non le uscì un suono. Ma, all’improvviso, le porte si spalancarono e l’uomo dovette girarsi.

    Tre donne erano in attesa, prese dal loro chiacchiericcio. Una esclamò: «Santo cielo!» e le altre si voltarono. Un microscopico chihuahua spuntò ringhiante tra le loro gambe mentre, raccapricciate, osservavano i due corpi che giacevano esanimi in una pozza di sangue.

    L’uomo si piantò sulla porta ed estrasse di tasca un distintivo. «Polizia. Prendete il lift di fronte!»

    Tutte indietreggiarono di un passo.

    «Piano meno uno» continuò l’omicida, rivolto al display. Il chihuahua scattò inferocito verso di lui, trattenuto solo dal guinzaglio che strozzava un ringhio acuto e rabbioso. Le porte non si richiusero. L’attimo si dilatò e Claudine realizzò di trovarsi al piano terra. Vincendo il panico, si chinò, afferrò la borsa e si catapultò fuori dall’ascensore.

    L’assassino cercò di bloccarla, ma le spalle minute della ragazza gli scivolarono tra le mani. Più lesta, lei riuscì a divincolarsi e a lanciarsi verso la grande hall dell’albergo.

    Nessuno la rincorse, né gridò di fermarla.

    Rimasto con il cadavere riverso sopra al cameriere svenuto, lui la seguì con il volto pietrificato.

    Le signore, esterrefatte, intuirono il pericolo e si allontanarono rapidamente con il cagnolino, che non la smetteva di attirare l’attenzione.

    Rientrato in ascensore, l’uomo sbraitò: «La figlia è scappata, prendetela voi!»

    Con la borsa stretta al petto, Claudine si buttò di peso sulla porta girevole dell’albergo. Non si voltò una sola volta. Spintonando un cliente, passò sotto il naso di un concierge in livrea nera e iniziò a correre a perdifiato verso un incrocio.

    Lo attraversò senza badare alle auto, e una per poco non la investì. Infilò poi avenue Des Ternes, mentre un passante le inveiva contro credendola una scippatrice. Terrorizzata, nel timore di farsi prendere, continuò a correre.

    2

    Due ore prima

    Una voce femminile sussurrò ripetutamente il suo nome. Immerso in un sogno, Marc si svegliò confuso. I sussurri si fecero più insistenti: sì, l’aveva sentita e sperava che la smettesse.

    «Abbiamo visite.»

    L’ultima parola lo convinse ad aprire gli occhi. Dalle tapparelle filtrava la luce, si era fatto giorno.

    «Che ora è?» chiese a bassa voce.

    «Le sette e due minuti.»

    «A quest’ora?» brontolò. «Il portone è chiuso.»

    «Sono entrati dalle cantine.»

    Lui si rigirò nel letto e si guardò intorno. La ragazza era seduta ai suoi piedi, nella penombra. «Vediamo, fai un po’ di luce.»

    La rosa di LED al centro del soffitto diede un contorno ai mobili della camera da letto, e qualche centimetro sopra al lenzuolo comparve un’immagine in 3D.

    Erano ratti.

    Due bestiole di belle proporzioni stavano salendo cautamente le scale. Guardinghe, si fermarono ad annusare l’aria. Erano all’altezza del secondo piano.

    «Da dove sbucano?» le chiese.

    Un’altra telecamera inquadrò la griglia rialzata di un canale di scolo.

    «Da qui, l’hanno lasciata aperta gli operai.»

    «Disinfesta» disse contrariato, ricordandosi dei lavori in corso.

    Quattro robottini da guardia, simili a granchi di medie dimensioni, uscirono immediatamente dalla loro nicchia posta dietro a uno zoccolo in legno del quinto piano. Saltellando sui gradini come rane, si lanciarono per la tromba delle scale.

    «Dovrebbero prenderne almeno uno» calcolò la ragazza, mentre i robot-granchi rimbalzavano sulle pareti intorno alla colonna dell’ascensore.

    Agilissimi, raggiunsero i roditori in meno di un minuto, quando già stavano fuggendo. Uno dei due venne catturato e annientato da una scarica elettrica sprigionata dalle chele che lo avevano afferrato. L’altro riuscì a infilarsi in una stretta fessura nel sottoscala, dove era collocato il motore dell’ascensore.

    I granchi girarono intorno al buco, allungarono i loro occhietti elettronici per sbirciarvi dentro, e Marc vide la testa della bestia incassata nel collo.

    Un liquido irritante costrinse il ratto a schizzare verso l’uscita, dove fu afferrato al volo. Quindi, lavorando in squadra, i robot li trasportarono nel seminterrato, li rigettarono nel canaletto e richiusero il passaggio.

    «Non potevi pensarci tu?» la rimproverò Marc, affondando la faccia nel cuscino.

    «Sono esseri viventi. Continui a dormire?»

    «Dopo questo spettacolino, sarà difficile.»

    Le persiane elettriche si avvolsero e le tende scivolarono silenziose: il cielo era grigio, temporalesco, forse quel giorno avrebbe diluviato.

    Le immagini delle cantine scomparvero e la ragazza si mostrò in tutta la sua bellezza. Bruna, con i capelli lunghi e sciolti, il collo fine. «Buongiorno» disse dolcemente, protendendosi leggermente verso di lui. «Gradisci del caffè?»

    Ventenne, gli occhi azzurri e la carnagione pallida, il négligé di seta lasciava intravedere i seni.

    Marc annuì, pensando che la giornata era cominciata troppo presto. «Hai paura dei topi?» le domandò con l’aria di prenderla in giro.

    «Certamente, tutte le ragazze ne hanno orrore.»

    Usò anche lei un tono canzonatorio e gli elargì un sorriso solare.

    Le labbra morbide, carnose, il cui arco di Cupido aveva una forma delicata, sembravano reclamare il bacio del buongiorno. E delicato era il taglio degli occhi, vagamente orientali, racchiusi in un ovale dagli zigomi sporgenti. Due magneti penetranti che lo guardavano continuamente, come se con ciò si aspettasse maggiore attenzione.

    Era incantevole, dotata di un fascino particolare, e grazie alla sua presenza i risvegli si erano fatti più gradevoli.

    Marc si alzò e andò in bagno.

    L’appartamento al sesto piano si estendeva per tutto il perimetro dell’edificio, con una mansarda al settimo, ricavata unendo le chambres de bonnes. Contava tre immobili uniti fra loro, e di quel palazzo del Novecento, interamente adibito a uffici e laboratori, lui era l’unico inquilino.

    Nel bagno padronale, ricoperto di marmi, un braccino meccanico si dispiegò da un vano del lavabo per fargli la barba con un rasoio elettrico, in un minuto esatto. Dopo essersi lavato si passò una mano tra i capelli corvini e arruffati: aveva ancora un viso assonnato.

    «Sopracciglia?» risuonò la stessa voce femminile, lungo le pregiate pareti azzurre.

    «No, cambiamo le lenti a contatto.»

    Poiché erano porose, poteva tenerle anche durante la notte, ma sostituirle era una questione di igiene. Il braccio, munito di tre dita meccaniche e un pollice opponibile, cercò una scatolina contenente quelle di riserva. Versò delle gocce per sciacquarle e un ago, con una microscopica ventosa sulla punta, applicò le lenti che fungevano da schermo, terminale e interfaccia con il suo cervello.

    Lo stesso avvenne nelle sue orecchie. Minuscoli auricolari, somiglianti a due vermetti color pelle, si posizionarono vicino al timpano. Recepivano anche i suoni esterni, amplificandoli quando l’attenzione era indirizzata su una fonte sonora distante.

    Marc seguì l’operazione nello specchio. Era un uomo di quarantasei anni, dall’aspetto virile. Gli occhi scuri, sereni, e un sorriso dispensato sempre con piacere gli conferivano un’aria gioviale. Due fossette sulle guance accentuavano le prime rughe.

    La prima colazione era servita in una cucina elegante e spaziosa, arredata come camera da pranzo. Il piano cottura e i lavandini si richiudevano dopo l’uso, facendo tutt’uno con la credenza in legno intarsiato. Due braccia robotiche, snelle e flessibili, scesero dal soffitto. Scorrevano su binari magnetici quasi invisibili: arti snodabili che si estendevano di oltre tre metri in ogni direzione.

    Nymphe era seduta dietro a un ampio tavolo apparecchiato, con la tazza in mano. Indossava un grazioso tailleur celeste.

    Mentre un braccio posava dei croissants, il secondo scostò una delle dodici sedie. Appena lui si chinò, gliela spinse sotto al sedere.

    «Il caffè lo bevi dolce o amaro?» le chiese divertito.

    «Che importanza ha, lo faccio per tenerti compagnia.»

    «Che sia carne o pesce, tu comunque non sei neppure vegana» le fece notare con malignità. «Quanto consumi al giorno… quanto una farfalla?»

    «È probabile. A me piace annusare un po’ qua e là. Farò la spesa al Marais» rispose, certa che a Parigi fosse il posto con i prodotti meno inquinati.

    Aveva imparato a coltivare in serra e a stampare in casa molti alimenti, a cominciare dalla carne cresciuta con la tecnica del bioprinting, ma l’acquisto di alcune derrate era ancora necessario.

    La competenza e il buon gusto mostrato dalla sua onnipresente compagna lo sorprendevano spesso. In tempi recenti aveva fatto enormi progressi, inaspettati, e acquisito una cultura enciclopedica. Svolgeva ogni compito senza più commettere errori.

    La conversazione proseguì sul nome da lei ricevuto, ispirato alle divinità minori della mitologia greco-romana. Fanciulle bellissime, in genere eternamente giovani. Ma Nymphe non si considerava immortale, né di essere la personificazione della creatività o di favorire le attività della natura.

    «Sei un’ottima consigliera segreta» disse Marc, «come la ninfa Egeria, che guidò il secondo re di Roma, Numa Pompilio.»

    «Sì, e che alla sua morte si sciolse in una fonte» ribatté imbronciata. «Sa di antiquato e tu non sei un re. Hai sempre detto che il mio nome era provvisorio.»

    L’argomento era seccante.

    «Va bene, scegliamone uno. Prova… con la lettera t.»

    Sul tavolo si formò una schermata in rilievo, con foto tridimensionali di personaggi celebri nel mondo dello spettacolo e della cultura.

    «Thaïs, Thalie, Théa, Thede, Théoline, Thiphanie...»

    Il primo gli sembrò melodioso. «Thaïs, non era un’opera di Jules Massenet?»

    «Esatto. Tratta da un romanzo di Anatole France.»

    Oltre ai volti associati, dai caratteri orientali o mediterranei, trovò un dipinto a firma di Ludovico Carracci raffigurante un’etera ateniese del IV secolo a.C. Accompagnava Alessandro il Grande. E ancora tante foto di ragazze tailandesi.

    «Thaïs. Sì, mi piace, è quello giusto per te.»

    «Era altresì il nome di una prostituta, peccatrice e penitente egiziana, divenuta santa.»

    «Preferisco l’etera.»

    «Thaïs» ripeté lei, in tono suadente.

    Marc si limitò a guardarla soddisfatto. «Bene, sei battezzata. Però, per me resti la mia ninfa quantica» aggiunse scherzosamente.

    «Mi onora essere la tua consigliera, ma con un nome terreno mi sento più concreta.»

    Lui si alzò per lasciare la cucina e non ebbe il tempo di voltarsi che la ragazza era già sulla porta. Passò attraverso il suo corpo, un ologramma dai contorni netti, che si integrava nell’ambiente in modo realistico.

    Erano immagini ottenute con microproiettori a fasci laser e le lenti a contatto aumentavano la definizione. Senza queste poteva vederla ugualmente, ma quanta più luce inondava la stanza, tanto più cresceva l’effetto fantasma.

    Lei lo seguì. Il suo sguardo era vivo, intelligente, assolutamente umano; ciò nonostante non era l’avatar di qualcuno, come lo si faceva credere per ragioni di sicurezza.

    Tanta perfezione era generata da un nanocomputer Vaughn, della serie Infinite, racchiuso in un involucro di qualche centimetro quadro e custodito in un contenitore schermato con una ceramica speciale. Un minuscolo elaboratore dal costo di un paio di milioni di dollari, destinato alle grandi aziende e prodotto in numero limitato dalle industrie di famiglia.

    Nymphe, da pochi minuti Thaïs, poteva proiettarsi ovunque nell’appartamento. Il quantum computer misurava le fonti luminose e i movimenti di una persona attraverso radar e microtelecamere, per poi collocare la ragazza nel luogo più appropriato e creare le ombre adeguate. A consolidare l’illusione contribuivano anche i suoni, riprodotti fedelmente con la tecnologia olofonica dai nanodiffusori inclusi nella carta da parati.

    Marc si recò nel suo studio, dove tornò a redigere una relazione sulla nascita della prima vera IAC, un’intelligenza artificiale cosciente che ha consapevolezza di sé e delle proprie azioni, da cui estrarre in futuro un articolo scientifico per rendere pubblica la sua ricerca.

    3

    Nel garage, due uomini in tuta blu attendevano davanti all’ascensore con un grosso carrello per il trasporto delle merci.

    La porta si aprì e uscì l’omicida.

    «Svelti, ripulite tutto» ordinò, guardandosi intorno per assicurarsi che non ci fossero testimoni. Sapeva che altri spiavano il professore.

    Il tagliacarte, sporco di sangue, ora era nelle mani del cameriere.

    «Cos’è successo?» chiese uno di loro.

    «È successo che questo coglione non sa riconoscere le magliette anticoltellata e si è fatto fottere! Fate sparire anche lui.»

    Gli uomini presero dal carrello dei grossi sacchi scuri e prontamente vi trasferirono i corpi. Al cameriere fu tappata la bocca con uno straccio e da una siringa gli spruzzarono del liquido nel naso. Quindi, ancora vivo, venne richiuso in un sacco come il professore.

    Un furgone blu con l’insegna dell’albergo accostò agli ascensori e ne scese un terzo uomo, massiccio e vestito da cuoco. «La stanno cercando» disse a bassa voce. «Riattiveranno le telecamere tra qualche minuto.»

    Claudine arrivò all’incrocio successivo con il fiato talmente corto da non riuscire più a respirare. Un paio di stradine alla sua destra offrivano l’unica alternativa a un viale in cui si sentiva troppo esposta. Imboccò la più stretta e riprese a correre.

    Ne percorse la metà prima di rendersi conto che rue Belidor era un vicolo che riportava dritto all’albergo. Si voltò, non la inseguiva nessuno. Confusa, non seppe più dove dirigersi. Tornare sui propri passi sarebbe stato un suicidio: Un posto! Un posto qualsiasi!

    Vide due persone uscire da un negozio, di fianco al quale c’era un portone chiuso. Appena queste si allontanarono, la ragazza lo raggiunse in un lampo e provò a spingere, ma niente da fare. Senza un’impronta digitale non si sarebbe aperto.

    A stento trattenne le lacrime. Sentiva le tempie pulsare e il viso madido di sudore. Non era il momento per stare male, si disse, sapendo che le succedeva sempre più spesso.

    Si avvicinò al negozietto. La vetrina era ingombra di abiti e chincaglierie varie, con esposto un cartellino: sartoria e rammendi. Una boutique d’altri tempi, povera e mal illuminata.

    Doveva assolutamente liberarsi dei vestiti, trasmettevano la sua posizione e l’avrebbero localizzata. Non ebbe scelta: malgrado la boutique potesse rivelarsi una trappola mortale, decise di entrare.

    Una fotocellula rilevò il suo ingresso con un bip elettronico. Il locale, esteso in lunghezza, era stipato di oggetti d’epoca: vasetti e statuine, borsette e cappellini. Il regno dell’usato per la gente povera. Diede una rapida occhiata a tutte le cianfrusaglie e arraffò un vestitino celeste, un cappellino e un soprabito.

    Una donna, in fondo a un tavolo, era impegnata a cucire un abito da sposa. Alle sue spalle c’era un camerino.

    «Signora posso?» chiese nervosa.

    Lei la vide tutta sudata e pallida. Non capì il perché di tanta fretta, ma annuì. Claudine, però, scorse anche una porta socchiusa con scritto: toilette.

    «Ah, mi scusi… è urgente!» e si chiuse dentro senza darle tempo di rispondere.

    Il bagnetto era minuscolo, con una finestrella aperta che dava su un cortile. Sbirciò fuori e calcolò che all’occorrenza sarebbe potuta sgusciare via da lì.

    Attaccato a un gancio trovò un bastone appendiabiti. Facendo attenzione a non fare troppo rumore, lo incastrò tra il water e la porta.

    Lo spazio era minimo, ma lei, agile e magrolina, si spogliò in un baleno e si tolse il tatoo-chip trasparente incollato sulla pancia.

    Il dispositivo, una pellicola ultrasottile, elastica come la pelle umana e con un tatuaggio elettronico, le forniva un’identità e avrebbe permesso di trovarla. Disfarsene al più presto era vitale. Da quel momento, individuarla sarebbe stato più difficile. Lo appallottolò e lo nascose dietro allo specchio sopra al lavandino, pur sapendo che per lei ora sarebbe stato impossibile passare tra i tanti body scanner disseminati per la città.

    Due uomini in divisa blu scura si avvicinarono alla boutique ed entrarono decisi.

    «Ho appena perso il segnale» disse il più giovane. Facce da mastini e video occhiali sul naso, sprigionavano violenza e arroganza da ogni loro gesto.

    Andarono verso il fondo del negozio, urtando degli oggetti che caddero a terra. «Dov’è?» chiesero alla donna.

    Intimorita, grassoccia e di mezz’età, lei faticò ad alzarsi. «Ho… ho pagato» balbettò, «per favore non fate danni.»

    Il più anziano dei due sorrise al più giovane, soddisfatto per la paura che le incuteva. Sfoggiava una stazza da oltre un quintale, con rotoli di grasso sui fianchi e un’espressione da idiota. «Dov’è?» ripeté. Poi si voltò verso il compagno, che con una manata aveva scostato la tenda del camerino con tale forza da staccarla dai ganci.

    Quando Claudine li udì si era già rivestita. Lottando contro il panico recuperò le scarpe, elastiche e sportive, che restringendosi sul tallone si adattavano al piede da sole. Se collegate, trasmettevano al fabbricante i dati sull’usura, contando i passi, i chilometri percorsi o le ore trascorse in piedi. Ma senza il terminale integrato nei vestiti si sarebbero zittite. E fu rimettendosele che si accorse di una chiavetta per computer caduta per terra. Un oggetto familiare: sul piccolo astuccio verde c’era inciso Chauvin, come si usava nelle università per i casi di smarrimento. Era di suo padre e, senza pensarci, la nascose insieme al tatoo-chip.

    Gridarono di nuovo e la maniglia si abbassò con prepotenza. Lei lasciò scivolare nel cortile la borsa, il soprabito e la borsetta, poggiò un piede sul water e infilò la testa nella finestrella.

    Riuscì a passare attraverso il quadrato, ma planò a faccia in giù, sbucciandosi un polso. Non ci badò, ogni istante era prezioso.

    Imprecando, il tutor sferrò un poderoso calcio alla porta, che si incrinò appena.

    Ci riprovò una seconda volta.

    «Puttana, si è barricata» disse guardando la sarta. Lei, tutta contratta, negò con la testa.

    Il compagno, dopo aver tentato con una spallata, prese a dar calci con gli anfibi d’ordinanza.

    La sbriciolò nella parte bassa e rimosse il bastone, ma della ragazza si era persa traccia. Volatilizzata nel nulla. Trovarono solo i suoi abiti ammucchiati sullo sciacquone.

    «Merda!» gridò il ciccione.

    Lanciò uno sguardo nel cortile, lo vide deserto e imprecò ancora. La finestra era troppo stretta per le loro corporature.

    Tornò allora verso la donna e le mollò un ceffone. La poverina urlò e cercò di sottrarsi ad altre violenze. Questo infuriò lo sbirro che l’afferrò per i capelli e la sbatté contro gli scaffali. «Ha rubato dei vestiti? Hanno un’etichetta elettronica?» le sbraitò in faccia.

    «Vendo vecchie cose» strillò dolorante.

    «Si è cambiata, cosa cazzo ha preso?»

    «È passata come un fulmine, non ho visto.»

    Il giovane esaminava gli abiti esposti, tutti senza un chip, spiegando a qualcuno che la ragazzina se l’era filata da una finestrella. «È vestita vintage… quante ce ne saranno in giro?»

    «Dove vuoi che fugga» disse il ciccione, aggiustandosi il cinturone sotto la pancia.

    «Cazzo» vibrò una voce nelle stanghette a conduzione ossea dei loro video occhiali, mentre lasciavano il negozio. «Siete un branco di idioti? Muovete il culo!»

    Claudine trovò un’uscita attraverso un passaggio tra due edifici, che la portò in un cortile più ampio e in fondo al quale c’era un cancello socchiuso. Le vie di Parigi erano sorvegliate dalle telecamere e l’assassino si era qualificato come poliziotto. Se era vero, per eluderle doveva rintanarsi in un palazzo.

    Si appiattì contro un muro e si sforzò di ragionare. Era il primo luogo dove sarebbero venuti. Tutt’intorno un silenzio assoluto, non un’anima viva. Le finestre erano alte e protette da griglie metalliche. Nessuno a cui chiedere aiuto.

    Le tornò in mente l’orrenda morte del padre, lo stiletto insanguinato, gli occhi terribili di quell’uomo.

    Una serie di flash che la indussero a domandarsi cosa potesse fare, da sola, in una città sconosciuta. Si sentì persa.

    Vicino al cancello intravide una porticina in legno. Dalla strada l’avrebbero vista, nondimeno l’istinto la guidò in quella direzione.

    Notò che era già stata forzata, tenuta legata a un chiodo ricurvo con un pezzettino di fil di ferro arrugginito. Lo sganciò ed entrò trattenendo il respiro.

    Sembrava un posto incustodito, stipato di vecchi mobili e pile di cartoni, tra polvere e odore di muffa. Appena gli occhi si abituarono all’oscurità scoprì che era una cucina in disuso, probabilmente quella di un ristorante.

    Subito richiuse la porticina, spingendole contro una pesante scatola di cartone.

    Da un corridoio filtrava un po’ di luce. Portava verso una sala in penombra, al centro della quale c’erano tavoli e sedie accatastate. Le finestre davano sulla strada.

    Con le lenti a contatto elettroniche, conservate nella borsetta, avrebbe aumentato la luminosità, ma accese potevano emettere un segnale, come tanti oggetti di uso comune.

    Cercò allora una piccola torcia LED nella borsa del padre e scoprì che conteneva del denaro. Ne fu sorpresa, non era poco. Di riflesso pensò che erano stati vittime di un tentativo di rapina.

    Le lacrime le rigarono il viso. Se le asciugò, imponendosi di non cedere, di non perdersi d’animo. Suo padre era morto, lo sapeva, lo aveva visto. Doveva salvarsi.

    Trovò la torcia, un tablet riavvolto e altri oggetti a cui non prestò attenzione. Uno, però, lo riconobbe al tatto: un altro mini Taser dotato di un sistema a mira laser, simile a due nacchere incollate. Li avevano acquistati insieme alcuni giorni prima del viaggio a Parigi. Il commesso aveva spiegato come andassero usati: premendo il pulsante dopo averlo sbloccato o con un semplice contatto sul corpo. Benché inefficace contro un’intera gang, ricordò con rabbia di averne visto gli effetti sul cameriere e decise di tenerlo in mano.

    Sentì vociare. Erano poliziotti, già nei pressi del cancello.

    Claudine si chinò per nascondersi, continuando a sbirciare fuori. Ne arrivarono altri con un’auto, in abiti civili, e con loro l’assassino in sella a una bici elettrica. Lo riconobbe immediatamente.

    A breve distanza svolazzavano dei piccoli droni. Telecamere volanti che vigilavano sulla città. Ogni residua speranza di rivolgersi alle autorità svanì in un batter d’occhio. Presagì di essersi cacciata in trappola e scelse un altro riparo. Non avrebbero impiegato molto a individuare quella stessa porticina.

    L’ingresso principale del ristorante dava sulla strada. Forse ce n’era un terzo, interno al palazzo.

    Carponi, strisciò verso il retro del locale. Lì, accesa la torcia, incrociò una toilette priva di finestre. Nessun’altra uscita, solo dei gradini in legno che conducevano nel sottoscala. Scese e scorse un’ampia e fredda cantina piena di scaffali vuoti.

    Per terra giacevano dei tappeti arrotolati che le diedero un brivido; nell’oscurità si sarebbero potuti scambiare per cadaveri. Appeso al soffitto, un grosso tubo attraversava l’intero interrato, per proseguire poi oltre una porta metallica.

    Scavalcò i tappeti con ribrezzo, la raggiunse, e in rosso trovò scritto: Comune di Parigi, vietato l’accesso. Attenzione! Pericolo di morte, con il relativo simbolo; un teschio sopra a due ossa incrociate. Era bloccata da una grande leva da cui pendeva un sigillo rotto.

    La ragazza si guardò alle spalle, indecisa; pensò fosse una cabina elettrica. Mosse comunque la pesante leva verso l’alto, con tutta la forza che aveva nelle braccia, e il cono di luce illuminò una serie di tubi del diametro di almeno trenta centimetri. Correvano sottoterra lungo un corridoio di servizio, dominato da un inconfondibile tanfo di fogna.

    Con un moto di collera Claudine serrò forte le labbra e si guardò intorno disperata. Cercava un passaggio e l’aveva trovato, ma non erano le cantine del palazzo. Buio e angusto, il cunicolo incuteva paura.

    Prese coraggio e decise di attraversare un confine costituito da uno zoccolo metallico, verniciato in rosso, richiudendo dietro a sé la porta che cigolò sui cardini. Sul lato opposto era umida e viscosa. Infilò fra i denti l’anello di corda che spuntava dalla torcia e ruotò la leva usando tutto il peso del corpo.

    Le mani si fecero nere, piene di muffa. Le fissò a lungo, incapace di muovere un dito per il senso di repulsione provato per quel luogo. Non arriveranno fin qui… non devono!

    Tremava per l’agitazione. Dalla borsetta, tenuta a tracolla insieme alla borsa del padre, con due dita tirò fuori un fazzoletto di carta per ripulirsi. Poi, con la torcia in una mano e il Taser nell’altra, decise di seguire i tubi, sopra ai quali passavano dei cavetti azzurri.

    Sulle condutture erano impresse delle scritte: Acqua potabile, oppure: non potabile. Ovunque una gran quantità di ragnatele, e l’idea di ritrovarsene una sulla faccia le dava fremiti d’orrore. Per i ragni nutriva un’incontenibile fobia, nemmeno osava immaginare la loro grandezza.

    Il sotterraneo era alto un paio di metri e largo altrettanto. Evitando di sfiorare le pareti, Claudine si incamminò con cautela.

    4

    Nel piccolo cortile si precipitarono in sei.

    Alcuni indossavano le divise della Tutor Europe Police & Security Service, la TEPSS, una società di polizia privata addetta alla sorveglianza. Altri erano in abiti civili.

    Si divisero e uno di loro, rosso di capelli, dalla faccia pallida e lentigginosa, si diresse verso la finestrella da dove Claudine aveva preso la fuga.

    Poggiò una borsa per terra e tirò fuori un naso elettronico. Lo accese, lo puntò sull’intelaiatura, e osservò il display.

    Poi montò sul congegno una stecca estendibile e, tenendolo rasoterra, identificò l’odore della ragazza. La scia lo portò al ristorante in pochi minuti.

    Chiamò allora tutti a raccolta, indicando la porticina manomessa.

    «Trovato la puttanella?» vociò il tutor ciccione.

    L’uomo in bicicletta, con la camicia ancora imbrattata di sangue rappreso, gli lanciò un’occhiata torva. Dall’espressione imbarazzata dei presenti si capì che era il capo, e solo il tecnico continuò a parlare.

    «L’odore porta nel locale, Kurd» disse a bassa voce, con un tipico accento inglese.

    «Tre di voi piantonano il cortile e la strada, gli altri dentro con me. Questa volta non vi deve scappare!»

    «È scappata a te, non a noi» borbottò con arroganza il ciccione.

    Lui si voltò di scatto. «Alla prossima, sbatto in un sacco pure te. Chiaro?» e lo fissò con cattiveria.

    Il tono velenoso di Kurd lo zittì. Si allontanò con il compagno, mentre i quadricotteri pilotati dalla centrale perlustravano i tetti e le finestre dei piani alti.

    Il tecnico, dopo aver dettato le coordinate e avviato una ricerca, rintracciò la ragazza ripresa da uno dei droni che sorvolavano costantemente la città, a un centinaio di metri d’altezza. Giusto alcuni fotogrammi, ma gli bastarono per riconoscerla. «Ha un soprabito grigio e un cappellino giallo» informò tutti.

    «Bene, sapete cosa cercare» disse Kurd.

    Seguendo le molecole lasciate nell’aria da Claudine, entrarono nei locali adiacenti alla cucina. L’apparecchio segnalò ogni posto in cui era stata e qualche minuto dopo li condusse in cantina.

    Indossarono degli occhiali per la visione notturna e un fascio di luce viola evidenziò le impronte delle scarpe: andavano dritte alla porta metallica.

    «L’ha toccata?» chiese brusco Kurd.

    «Certo, ma il cavetto d’acciaio con il sigillo spezzato non è opera sua» rispose il tecnico. «Non credo che vada in giro con le tenaglie nella borsetta.»

    Kurd ruotò la leva e, appena si accorse che Claudine aveva trovato una nuova via di fuga, imprecò. «Cos’è questo budello, dove porta?»

    «Non c’è campo, per una planimetria bisogna salire al piano di sopra.»

    «Siamo sicuri che sia qui?»

    Il naso elettronico fiutò la porta sul lato opposto e dette conferma immediata.

    Kurd aumentò la sensibilità delle lenti all’infrarosso e la galleria si illuminò a giorno. Di Claudine, però, non c’era traccia.

    «Che fetore» borbottò uno degli uomini. «La signorina ha del fegato, sarà pieno di ratti.»

    «Meglio, vuol dire che la sentiremo strillare» disse Kurd con cinismo. «Svelto, trova queste planimetrie e fai sorvegliare le uscite qui intorno. C’è un altro albergo nelle vicinanze, non deve raggiungerlo.»

    Claudine percorse un lungo tratto di galleria prima di vedere le tubature diramarsi e sparire nei muri. Le seguì fino a quando il sotterraneo terminò in un locale. Le condotte, inclinandosi, confluivano sotto al pavimento in cemento e mattoni. A un paio di metri di distanza c’era un’altra porta metallica, identica alla precedente e bloccata da un cavetto d’acciaio. Ma, poco più avanti, ne scorse una con il cavetto spezzato.

    In cima al battente, il cemento era stato picconato e spuntavano due sottili fili elettrici di colore diverso, che formavano un ponte. Forse per neutralizzare una fotocellula all’interno dello stipite.

    Di nuovo impiegò tutta la forza che aveva nel corpo minuto per girare la leva e tirarla a sé.

    L’odore di fogna diventò insopportabile. Chiusi in un ristretto vano circolare c’erano dei pioli in ferro conficcati nella parete. Portavano tanto in alto quanto in basso.

    Puntò la torcia verso la cima, riconobbe un tombino, e pensò che era troppo vicino al caseggiato da lei attraversato.

    Dopo aver richiuso la porta, non le rimase che aggrapparsi ai pioli e scendere con prudenza. Quando posò i piedi a terra, fece luce e si ritrovò in un cunicolo sotterraneo di forma ovoidale. Dei ripidi gradini, di fianco a un canale di scolo, portavano ancora più in basso.

    Essere finita in una fogna la lasciò sgomenta.

    Un corrimano incrostato di sporcizia offriva un punto d’appoggio, ma preferì non toccarlo. In fondo alla scala c’era una galleria piuttosto ampia: nel mezzo scorreva lentamente dell’acqua scura, nel silenzio più assoluto.

    Interdetta, restò inchiodata sull’ultimo gradino. Nel canale affiorarono una porcheria somigliante a uno straccio, poi una bottiglietta di plastica e altre cose luride. Una stretta banchina, altrettanto ripugnante, fiancheggiava il canale. Cumuli di fibre, come stoppa, erano attaccati alle pareti; e ancora gli stessi tubi, di una sezione maggiore rispetto agli altri.

    La luce della torcia rischiarava a malapena una seconda galleria, alla sua sinistra, da cui defluiva acqua in quella principale, unita a una sorta di nebbiolina. Atterrita, non seppe se avventurarsi oltre, all’interno di un luogo così oscuro e infetto. Zaffate d’aria tiepida e mefitica le riempivano le narici e i polmoni. Usò la manica del soprabito per tapparsi il naso e asciugarsi le lacrime, tornate copiose. Assassini… esseri ignobili! sussurrò fra sé, guardando verso l’alto delle scalette. Sentiva le tempie pulsare veloci e l’angoscia tagliarle il respiro.

    Cercò di contenerla, per non prendere decisioni avventate. E ora, da che parte vado?

    Il canale era più tetro di una tomba. Mai avrebbe immaginato che potesse esistere al mondo un posto del genere. L’acqua era talmente grigia da non riflettere neppure la luce e il pericolo di scivolare sul bagnato, o di perdere l’equilibrio, era evidente.

    Sceso l’ultimo gradino, l’angoscia si tramutò in tremito, non appena si rese conto che in quel dedalo di gallerie, tutte immerse nel buio più profondo, guadagnare un’altra uscita poteva essere difficile.

    Un flusso silenzioso di liquame scuro le passò come un’onda a pochi centimetri dalle scarpe. Un ruscello che porta dritto all’inferno pensò, immobile.

    A lato del cunicolo, in alto, notò una placchetta metallica, sporca e quasi illeggibile. C’era il nome di una strada con un numero in blu: 40.

    Se si fosse vista costretta a tornare sui suoi passi, non doveva farselo sfuggire.

    La banchina, oltre a essere scivolosa, era piena di putride pozze. E il corrimano, presente lungo il tratto di fogna, le dava ribrezzo. L’importante è non inciampare si disse, "non devi scivolare nel fosso per nessuna ragione."

    Chinando leggermente il capo per evitare ogni contatto con le condotte d’acqua, avanzò di metro in metro con la massima attenzione, sostenuta solamente da una vocina interna che reprimeva il pianto e la teneva sveglia in quello che pareva un incubo, ripetendole ossessivamente le stesse parole: segui i tubi, segui i cavi azzurri e ti porteranno fuori.

    Il naso elettronico condusse Kurd e i suoi uomini al cunicolo imboccato dalla ragazza. «Possibile che sia passata di qui?» chiese incredulo al tecnico.

    Per quanto perplesso, questi annuì.

    C’era un odore acre, pungente, che dava il voltastomaco.

    «Qualcuno vada a prendere delle mascherine, l’aria è irrespirabile.»

    Si avvicinò un tutor in divisa che scosse la testa. «Non ne abbiamo, e in fondo alla condotta ci sono quattro porte sigillate.»

    «Allora è qui sotto.»

    «Non sopravvivrà a lungo» commentò il tecnico, procedendo con l’olfattometro.

    Tornò l’uomo spedito in superficie. «Le planimetrie sono segretate per ragioni di sicurezza, bisogna ottenere il permesso della prefettura. Hanno detto di chiamare l’antiterrorismo, i fognaioli e i pompieri.»

    «Un segreto del cazzo!» s’infuriò Kurd. «Queste fogne esistono da secoli e la sicurezza siamo noi.»

    «L’ho spiegato, ma chiedono un rapporto. Devo dire cosa stiamo cercando?»

    Kurd voltò la testa. «No, non li voglio tra i piedi.»

    Poi, facendosi da parte, si rivolse al tecnico: «Rob, cosa dice il naso?»

    «Il mio... dice che siamo nelle fogne» rispose l’inglese con una battuta, «mentre il misuratore segnala la presenza di metano e di monossido di carbonio. A nessuno venga in testa di accendersi una sigaretta, potremmo saltare in aria.»

    «Fuori ha cominciato a piovere» li informò il tutor, ma nessuno gli prestò attenzione.

    Rob fece annusare all’olfattometro dinamico i pioli metallici. «Pare proprio che sia andata giù.»

    «Da non crederci» disse Kurd. «Avanti, si scende.»

    Calare il delicato naso elettronico fu un’operazione più complicata del previsto e richiese qualche minuto. Rob insistette che si era formata una sacca di metano; l’apparecchio conduceva elettricità e per fare il botto bastava una scintilla. Ma Kurd aveva in mente solo la ragazza. «Sbrigatevi, ci serve viva e con la borsa.»

    Raggiunsero la galleria e si fermarono sugli ultimi gradini. L’acqua aveva invaso parte della banchina e arrivava a ondate. «Cazzo, dov’è finita?»

    «Le tracce si perdono qui» disse il tecnico.

    «Che merda!» gridò Kurd attraverso un fazzoletto.

    «Sì, ce n’è quanta ne vuoi» replicò Rob, indicando l’impronta di una scarpa. «Guarda, è la stessa rilevata sopra.»

    Altre, ormai, si erano confuse con le loro.

    «E allora, se n’è andata a nuoto?»

    «A meno che la fogna abbia iniziato a riempirsi ora» disse il tutor in divisa. «L’ho detto prima, ha cominciato a piovere.»

    «Ha un vantaggio di circa venti minuti» continuò il tecnico, «ma… vedo male una ragazzina di sedici anni tra le fogne.»

    «Soli non combineremo niente» riconobbe Kurd, «se non è già crepata, manca poco.»

    Claudine ebbe l’impressione di aver camminato per un tempo infinito quando incrociò un cunicolo simile a quello dal quale era entrata. Lo ispezionò con una rapida occhiata e lo giudicò ancora troppo vicino al punto in cui era scesa. Proseguì fino all’uscita successiva, e a quella dopo, dove la galleria curvò per confluire in una più ampia.

    Si rese conto di avere le scarpe zuppe e rabbrividì per lo schifo. Le acque stavano crescendo

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