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Al tempo dei lupi
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Al tempo dei lupi

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«Nel 1585 si dovette compiere la lotta contro i lupi che avevano invaso le selve e le fratte che, nel Basso Polesine di San Giovanni Battista, Alfonso proteggeva per soddisfare le sue esigenze di cacciatore. Vennero ingaggiati cacciatori esperti del Regno di Napoli: tale intervento si era reso necessario per proteggere il bestiame dall’assalto di quelle bestie che, moltiplicandosi, si erano rese pericolosissime» (Antonio Frizzi, Storia di Ferrara)
LanguageItaliano
Release dateOct 20, 2018
ISBN9788829533138
Al tempo dei lupi

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    Al tempo dei lupi - Luigi Bosi

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    Sinossi

    «Nel 1585 si dovette compiere la lotta contro i lupi che avevano invaso le selve e le fratte che, nel Basso Polesine di San Giovanni Battista, Alfonso proteggeva per soddisfare le sue esigenze di cacciatore. Vennero ingaggiati cacciatori esperti del Regno di Napoli: tale intervento si era reso necessario per proteggere il bestiame dall’assalto di quelle bestie che, moltiplicandosi, si erano rese pericolosissime» (Antonio Frizzi, Storia di Ferrara)

    Introduzione

    Tempi duri, quelli, tempi da lupi!… La Serenissima da poco aveva sconfitto il Turco, distruggendogli a Lepanto la flotta (1573). Ma era stata una vittoria, quella? In primo luogo la Repubblica ci aveva rimesso Cipro. Ma soprattutto n’era uscita con le ossa rotte, ancor più sul piano commerciale che non su quello politico o militare.

    Adesso però (1585) una nuova minaccia si profilava all’orizzonte di Venezia, un nuovo fantasma. Erano molti gli indizi che inducevano a pensare che si stesse portando avanti un progetto a dir poco sconvolgente. Alla Mesola, a due passi da Venezia, con ogni probabilità stava per sorgere una nuova città portuale che, nelle intenzioni del suo ideatore, il Duca Alfonso d’Este, avrebbe dovuto farle concorrenza!…

    Negli Archivi della Serenissima sono numerose, fin dal 1580, le segnalazioni sempre più allarmate su quanto in quella sua tenuta il Duca di Ferrara stava combinando. I rapporti delle spie della Repubblica sono assai eloquenti, e non sembrano lasciare molti dubbi. È chiaro che bisogna intervenire, fare presto. Occorre fermare l’incosciente prima che sia tardi! Sì, ma in quale modo?

    Come si vede, non erano tempi facili neanche quelli. Anzi, tempi piuttosto brutti a dire il vero, tempi da lupi. Già, perché nel mentre tutto questo succedeva, nel Polesine di San Giovanni i lupi s’erano moltiplicati a dismisura. Così tanto, che nessuno sapeva più come fermarli…

    L’autore

    AL TEMPO DEI LUPI

    1.

    A quell’ora, l’angusto locale dell’Osteria della Tola, scarsamente illuminato da un paio di lampade a olio, era gremito d’avventori come ogni sera. Un forte tanfo di sudore e di vino andato in aceto, misto all’odore dolciastro del soffritto di cipolle, impregnava l’aria fumosa e calda della serata estiva che le finestre spalancate non riuscivano a smuovere. La gente s’accalcava ai tavoli, seduta su sgabelli traballanti o su panche sbilenche, intenta a discutere con animazione. Pareva che per quella sera nessuno avesse intenzione di giocare alle carte. Il vino comunque scorreva a mezzi e a pinte come tutte le altre volte, e forse anche di più.

    L’argomento della serata naturalmente erano i lupi. Del resto non poteva essere diversamente, in quell’estate maledetta del 1585, con tutto ciò che da qualche tempo a questa parte stava succedendo in quelle terre, e su quelle acque, dimenticate da Dio e dagli uomini.

    Nel Polesine di San Giovanni Battista, o di Ferrara come lo chiamavano quelli di città, di lupi se n’erano sempre visti in giro, e nemmeno pochi. Li s’incontrava spesso nei boschi che crescevano sulle barene, in prossimità delle paludi e delle valli [1] . Erano incontri abituali, che in genere si concludevano senza conseguenze, soltanto con una buona dose di spavento. Dopo qualche momento di perplessità, durante il quale le bestiacce se ne restavano immobili a osservare il malcapitato che s’era venuto a trovare sulla loro strada, gli animali se ne andavano per i fatti loro senza far male a nessuno.

    Anche il bestiame non ne risentiva più di tanto, perché pareva che gli astuti predatori sapessero scegliere le loro vittime. I loro appetiti li calmavano per lo più con i tanti animali selvatici presenti in quelle terre pressoché deserte, risparmiando il bestiame degli uomini, quasi sapessero che costoro poi non gliel’avrebbero lasciata passar liscia.

    Da qualche tempo a questa parte però le cose erano cambiate e, come spesso succede in questi casi, decisamente in peggio. Da quando il signor Duca s’era messo in testa di farsi costruire un’altra delizia [2] nelle sue terre della Mesola, come se di quelle che già possedeva a due passi da Ferrara non ne avesse abbastanza, da quelle parti erano successe un sacco di cose strane.

    E soprattutto erano comparsi branchi di lupi da far paura [3]. E anche da far danni, talvolta fin dentro l’abitato. Pure lì a Massenzatica, infatti, erano arrivate le bestiacce! S’erano intrufolate addirittura nelle corti, del tutto indifferenti agli uomini e ai cani.

    L’altra notte me li sono ritrovati nell’ovile, dietro casa, quei maledetti diavoli! Sono riusciti ad accopparmi una pecora, prima ancora che potessi intervenire.

    A te è andata ancora bene, devi essere contento. Io me li sono ritrovati tutt’attorno, quei demoni, mentre tornavo dal lavoro con mio figlio piccolo e con la mia donna. Dovevate vedere gli occhi di quei maledetti, e i loro denti!… Per poco non ne nasceva una tragedia. Se non era per i cani di Tonio, il pastore che pascolava il gregge lì vicino, che li hanno messi in fuga, a quest’ora non sarei qui a raccontarla!

    Sentiamo cosa ne dice Manlio, che di animali selvatici se ne intende più di tutti noi.

    Il giovane chiamato in causa, fino a quel momento se n’era rimasto in disparte, del tutto silenzioso, ad ascoltare di lontano le chiacchiere dei suoi compaesani. Pareva che non avesse alcuna intenzione d’inserirsi nella discussione. Lui di mestiere faceva il cacciatore, e gli animali selvatici li conosceva bene. Ma soprattutto li rispettava. Tutti quanti, buoni o cattivi che dir si voglia, lupi o non lupi. Per questo non voleva immischiarsi in quelle chiacchiere da osteria, dettate, oltre che da un odio atavico, dall’ignoranza più assoluta nei confronti di quegli animali che qualche danno sì, in effetti talvolta lo arrecavano, ma alla fin fine non più di tante altre creature, come volpi o faine.

    Io di lupi ne ho sempre incontrati tanti, ma per la verità non mi sono mai sembrati così terribili come voi dite. Quando hanno fame, o quando soprattutto hanno dei cuccioli da sfamare, possono anche uccidere qualche pecora o qualche capretto. Come del resto facciamo anche noi cristiani. Ma in definitiva non fanno male a nessuno, anche perché dell’uomo hanno una paura maledetta. Sanno che è l’unico animale veramente pericoloso per loro, quello che in effetti può fargli del male, e perciò gli stanno alla larga più che possono.

    Ah, è così! Adesso gli animali feroci saremmo noi, secondo te? Ma che razza di discorsi stai facendo? gli rispose di rimando uno degli avventori, piuttosto risentito per ciò che Manlio aveva appena detto. Anche gli altri si mostrarono subito d’accordo con quest’ultimo, assentendo con ampi cenni del capo e fissando il giovane cacciatore con sguardi severi, di rimprovero.

    Beh, allora continuate così, andate avanti per la vostra strada riprese Manlio, a sua volta risentito. Caricatevi di odio e di paura nei confronti di quei poveri animali, e vedrete che i lupi se ne andranno lontano e vi lasceranno in pace. Così finalmente dormirete sonni tranquilli!

    Ciò detto il giovanotto vuotò tutto d’un fiato il suo boccale, prese il giubbino che aveva deposto sulla panca e se ne uscì nella notte, senza salutare nessuno.

    Erano discorsi di questo genere, che quasi ogni sera s’accavallavano nella penombra dell’osteria, in un clima di generale esaltazione. Gli animi erano sempre più eccitati, e non solo per il vino che circolava in abbondanza, ma anche e soprattutto per i fatti di quegli ultimi tempi. Ormai s’era arrivati al limite della sopportazione. La situazione francamente cominciava a far paura a tutti quanti.

    In effetti da qualche tempo a questa parte le cose erano arrivate a un punto tale, da rendere la vita piuttosto difficile agli abitanti di Massenzatica, il piccolo villaggio ai bordi della palude. Anche dopo l’ultima bonificazione [4], che tanta parte di acquitrini aveva sottratto alla laguna, trasformandoli in terreni in qualche modo coltivabili, il Polesine di San Giovanni Battista anziché migliorare dal punto di vista della vivibilità della sua gente, era diventato un vero inferno.

    Dapprima c’era stata l’invasione di tutta quella gente venuta da fuori, dal veneziano e dalle terre di Romagna, richiamata dal miraggio di un lavoro. Perché la storia che il Duca era intenzionato a bonificare quelle terre paludose s’era sparsa in un baleno. La gente s’era messa in marcia, proveniente da ogni direzione, chi con la vanga sulla spalla, chi con la carriola, tutti comunque con addosso la stessa puzza di miseria, e s’erano presentati alla Cembalina, in prossimità di Ambrogio, dove risiedeva l’ inzegnero e messer Donato, il responsabile dei lavori. Un esercito di morti di fame aveva invaso il Polesine, portandosi dietro altra miseria e altra disperazione, che a lavori ultimati, alcuni anni dopo, era rimasta sul posto, a sovrapporsi a quella che già esisteva prima, che non era poca.

    Poi nel ’78 s’era verificato un altro evento straordinario, del tutto eccezionale per un luogo fuori dal mondo come quello, dove non succedeva mai nulla di speciale. Il Duca, chissà per quale ragione, aveva deciso di farsi costruire una nuova delizia nella sua tenuta della Mesola [5]. Ma non un palazzotto o una villa come tante altre, bensì un castello vero e proprio, con tanto di torri e con una cinta di mura che non finiva più.

    Cosa se ne volesse fare, il vecchio Duca Alfonso, di una tenuta di caccia come quella, a più di due giorni di navigazione da Ferrara, lui che a neppure un’ora di cavallo, dietro casa, aveva tutto quello che poteva desiderare, sia per praticare la caccia che la pesca, nessuno era riuscito a spiegarselo. Anche questo fatto, com’è ovvio, s’era ben presto trasformato in argomento di conversazione all’Osteria della Tola per almeno un paio d’anni di seguito, senza che nessuno riuscisse a trovare una qualche spiegazione convincente, che avesse un briciolo di logica.

    Il Duca Alfonso i suoi anni li ha messi assieme, eccome. Non è più un giovanotto. Cosa se ne può fare d’una riserva di caccia come quella della Mesola, quando ha tutta la selvaggina che vuole nei dintorni di Ferrara, a pochi passi da casa. Per di più figli da portare in giro, in posti nuovi, non ne ha messi al mondo. Che cosa se ne farà mai, di un Castello così lontano dalla città?…

    Ognuno diceva la sua, sbizzarrendosi nelle più strane congetture, a seconda degli umori del momento e del livello di rosso che aveva raggiunto. Eppure tutto quel parlare e quel fantasticare una buona ragione l’aveva. Perché mentre per la storia della bonificazione l’intera opera s’era svolta alla luce del sole, con tanta gente proveniente da ogni dove che vi aveva preso parte, per la costruzione del castello e della sua recinzione le cose erano andate in un modo ben diverso.

    Ogni iniziativa era stata tenuta nel massimo riserbo, quasi segreta, con maestranze e operai giunti da fuori, non si sa bene da dove, tenuti segregati e guardati a vista dalle guardie del Duca come se si fosse trattato di galeotti.

    Per anni là dentro un esercito di misteriosi operai aveva sgobbato da mattina a sera, senza che nessuno degli abitanti dei dintorni fosse in grado di saperne qualcosa. Non c’era verso di ficcarci il naso, in quella Fabbrica. Le poche volte che qualcuno, preso dalla curiosità, s’era azzardato a fare capolino, magari arrampicandosi sull’alto muro di cinta eretto in quattro e quattr’otto, per miglia e miglia, tutt’attorno alla tenuta, gli era andata molto male. Perché immancabilmente le guardie del Duca, che là dentro parevano nascere nel bosco come i funghi, tante ce n’erano, li avevano acciuffati e fatti pentire della loro impertinenza. Per un niente erano botte. Bastava affacciarsi al di sopra del muro, per essere accolti da una pioggia di frecce o da una sassaiola. Le cose poi erano andate anche peggio per chi s’era azzardato a mettere piede nel bosco, magari per portare via, mentre si guardava attorno, qualche cucciolo di daino o qualche leprotto. Di alcuni addirittura non se n’era più saputo niente.

    I pochi comunque che erano riusciti a dare una sbirciatina e a tornare indietro, avevano riportato impressioni assai diverse fra loro, su quello che succedeva là dentro.

    Voi non ci crederete diceva qualcuno. Ma là ci sono strade larghe e dritte, e torri e palazzi, come in una grande città. Il castello poi è una vera meraviglia! Cose da non credere!…

    Ma altri avevano avuto un’impressione ben diversa.

    Macché palazzi, macché strade! Là c’è soltanto un intrico di alberi da perdercisi in mezzo, con guardie e guardaboschi a ogni cantone, pronti a saltare addosso a chiunque abbia l’ardire d’affacciarsi al di là del muro. Altro che meraviglie! Un vero inferno, popolato per di più da lupi e da cinghiali feroci che, se riesci a scansare le guardie, ci pensano loro a farti passare la voglia.

    Insomma dopo quelle sporadiche intrusioni le idee degli abitanti di Massenzatica, come dei pochi che abitavano in quelle terre ingrate, erano più confuse che mai. Cosa stesse combinando il Duca e i suoi Signori dentro le alte mura che contornavano la tenuta della Mesola, non c’era verso di scoprirlo.

    Il mistero era assoluto. Dicevano che doveva servire per la caccia e per la pesca del Duca Alfonso, ma in realtà non si vedeva mai nessuno venire dalla grande città lontana. E sì che quando qualcuno della Corte si spostava, era un evento che non passava di certo inosservato! C’era agitazione già un mese prima. Quando poi giungevano su meravigliose imbarcazioni lungo il Po, il signor Duca sul Bucintoro addobbato a festa come la chiesa d’Ambrogio il giorno del santo protettore, pareva d’essere al mercato della Berra. Senza contare le carrozze e i carri che li precedevano e li seguivano, con servi e cani e cavalieri a non finire.

    No, da quelle parti non si facevano vedere quasi mai, come del resto era logico che fosse date le distanze. Solo qualche volta, durante i lunghi anni che erano durati i lavori, il Duca Alfonso era capitato all’improvviso, del tutto in incognito, come se fosse venuto per fare un sopralluogo, per accertarsi che i lavori procedessero a dovere, e poi via. Tutto comunque doveva marciare secondo i piani, là dentro, almeno a giudicare dai carri che entravano e uscivano, sempre sotto l’occhio vigile delle guardie del Duca.

    2.

    A rendere ancora più strana quella grandiosa impresa, era stata la costruzione di torri lungo il muro di cinta, poste a regolare distanza l’una dall’altra, sulle quali anche dal bosco circostante si potevano scorgere distintamente bocche da fuoco, cannoni e spingarde, di quelle per le quali il Ducato andava famoso in tutto il mondo [6]. Specie in prossimità del mare, da dove la vista spaziava dal porto di Goro a quello dell’Abate, le difese erano state allestite con particolare cura, come se navi nemiche potessero affacciarsi all’orizzonte da un momento all’altro.

    Ma che razza di riserva di caccia è mai questa, difesa da soldati e da cannoni?…

    Seduto sotto un albero, intento a fare colazione con un poco di formaggio e pane secco, Manlio da una buona mezz’ora osservava l’imponente cinta muraria, ponendosi nel contempo cento domande. Pure a lui del resto quella Fabbrica non risultava per niente chiara.

    Il desiderio d’entrare all’interno del recinto, per poter constatare di persona cosa si nascondesse là dentro, era sempre stato forte. Ma le storie che si raccontavano in giro, a proposito di quei pochi che avevano messo in atto un simile proposito, lo facevano desistere. C’era di che rimetterci la pelle.

    Ragione per cui ancora una volta, benché tentato, Manlio poco dopo si levò in piedi, prese l’arco e le frecce che aveva appeso a un ramo, slegò la mula, e si rimise in cammino.

    Avanti, Bella, abbiamo perso anche troppo tempo da queste parti. Adesso diamoci da fare!

    Quel giorno il giovanotto s’era ripromesso di raggiungere i dossi della Bassarona, dove sapeva che di certo avrebbe trovato qualche buona preda da cacciare. Erano diversi giorni, del resto, che non portava a casa qualcosa di consistente, con cui soddisfare le richieste di carne di quelli del paese che di certo l’avrebbero ricompensato con qualche fiasco di vino e con un poco di farina.

    Facendo un ampio giro, si lasciò alle spalle l’inquietante cinta muraria della Mesola e il Po di Goro, per addentrarsi ben presto nel fitto bosco che in un paio d’ore l’avrebbe portato dalle parti della Bassarona. Non c’era alcuna fretta. Avrebbe dormito sotto le stelle, che di quella stagione non mancavano, e al mattino di buon’ora, quando la foresta si svegliava, si sarebbe messo al lavoro.

    Coraggio, Bella, facciamoci questa passeggiata. E speriamo di fare ritorno domani con qualcosa di buono sul groppone. Ne abbiamo proprio bisogno. Sono dieci giorni che ci dobbiamo accontentare di qualche lepre o di qualche fagiano. Con quelli non si fa molta strada. A malapena ci si cava la fame per una sera.

    Come sempre, quando non era in caccia, Manlio era solito fare lunghe chiacchierate con la sua mula, la quale in genere lo stava ad ascoltare e soltanto di rado lo contraddiceva. La bestia lo seguiva docilmente, a testa bassa, con il suo carico di attrezzi da lavoro, trappole e archetti per lepri e per uccelli, una buona scorta di frecce e l’arco di riserva. Insomma, tutto quello che poteva servirgli quando stava lontano da casa per più di una giornata.

    Mancava poco all’imbrunire, quando uscirono dal bosco. Gli ampi slarghi d’acqua dolce della Bassarona erano gremiti di folaghe e germani, che non si diedero neppure la pena di levarsi in volo al loro avvicinarsi. Una grande pace regnava in quel mondo d’acque, cosparso di folti canneti e di tamerici. Sporadici salici e betulle affondavano le loro radici direttamente nella palude, che al sole radente del tramonto pareva in procinto di prendere fuoco.

    Manlio si preparò per la notte. Scaricò il mulo, togliendogli pure il basto perché fosse libero di pascolare, e magari di difendersi da qualche attacco nel caso che col buio ce ne fosse stato bisogno, quindi in un pentolino si riscaldò un poco di minestra portata da casa. Dopo la frugale cena, scelse un albero che facesse al caso suo e vi salì sopra fino alla prima biforcazione dei rami, sistemandosi con cura per passarci la notte.

    In effetti non tardò a prendere sonno. La giornata era stata lunga, aveva fatto molta strada, per cui non appena si fu sistemato fra le foglie dell’albero s’addormentò all’istante. Ma il suo sonno non durò a lungo: dopo un paio d’ore infatti venne svegliato di soprassalto da un ululare ancora lontano.

    Lupi!… Guarda un po’ chi viene a farci visita. Tra non molto saranno qua!

    Ai piedi dell’albero il mulo aveva smesso di pascolare e si teneva sul chi vive. Agitava la coda innervosito, tenendo le orecchie ben dritte per captare ogni rumore della notte. Manlio prese il suo fedele arco che aveva appeso a un ramo lì vicino, e rimase in attesa.

    La notte era calda. La luna, ormai alta nel cielo, illuminava la radura attorno all’albero. Si poteva distinguere ogni cosa in un raggio di varie decine di piedi, come fosse giorno. Poco lontano, le ultime propaggini del bosco che Manlio aveva attraversato la sera prima costituivano un muro impenetrabile, nero come le porte dell’inferno. Manlio sapeva che di là sarebbero venuti i lupi.

    In effetti non si sbagliava. Ben presto gli ululati cessarono, segno che gli animali avevano annusato la presenza dell’uomo e del mulo. Poi ombre guardinghe fecero la loro comparsa al limitare del bosco. Apparizioni fugaci, brevi istanti in cui le astute bestie si portavano allo scoperto a osservare, a valutare la situazione, per poi tornare a scomparire nel folto della foresta.

    Dal suo rifugio aereo Manlio osservava le caute manovre dei lupi, pronto a intervenire. Ma non era preoccupato. Sapeva che la sua mula era giovane e forte, e che certamente avrebbe saputo tener testa a un branco anche numeroso. L’unico pericolo era che la potessero ferire, così da renderla inservibile. Del resto non c’era altro da fare che aspettare.

    Non tardarono molto i lupi ad attaccare. Uscirono dal bosco tutti assieme, non più d’una decina a una prima occhiata, trotterellando senza alcuna fretta, e in un attimo si disposero attorno al mulo. Ma questi non mostrava d’aver paura. Occhi e orecchie erano bene all’erta, pronti a cogliere ogni segnale d’attacco, che in effetti non tardò a venire.

    Quella che doveva essere il capo del branco, una vecchia femmina dal pelo nero come la notte, a un tratto s’avventò contro un garretto del mulo, ma questi fu svelto a scansarsi, mandando il lupo a vuoto. Senza perdere tempo pure gli altri s’avventarono tutti assieme: ma questa volta l’animale reagì con maggiore decisione, con impennate e violente sgroppate, costringendo i lupi alla cautela, nel timore che gli zoccoli s’abbattessero come martelli su qualcuno di loro.

    Manlio da sopra l’albero teneva una freccia incoccata, pronto a intervenire in aiuto della sua fida compagna, qualora ce ne fosse stato bisogno. Ma pareva proprio che il mulo se la cavasse egregiamente per suo conto. I lupi compivano continui caroselli attorno all’animale, con assalti ripetuti provenienti da ogni direzione. Ma nel contempo pareva che temessero non poco la reazione del quadrupede, il quale con impennate continue e sparando calci all’impazzata li teneva a distanza.

    Il branco non faceva alcun progresso. Quasi se ne fossero resi conto, come a un segnale convenuto tutti i lupi a un tratto smisero l’attacco e senza fretta, così com’erano venuti, riguadagnarono il limitare del bosco, scomparendo ben presto nel folto degli alberi. Il resto della notte trascorse senza ulteriori contrattempi.

    Come se non fosse successo niente, Manlio si dispose a ritrovare una posizione comoda e ben presto tornò ad addormentarsi. Prima dell’alba si svegliò riposato, pronto per la caccia.

    Scese dal suo ricovero notturno e senza fare rumore andò ad appostarsi in un cespuglio di tamerici, al bordo d’uno specchio d’acqua dolce, dove le numerose tracce lasciate sul terreno dicevano chiaramente che di lì erano passati e ripassati grossi animali. L’ora dell’abbeverata era ormai prossima. A oriente una striscia di luce rosata faceva presagire l’imminente sorgere del sole. Un sovrapporsi quasi assordante di richiami d’uccelli, i più disparati, rendevano l’attesa promettente.

    In effetti i primi animali non tardarono a fare la loro apparizione: dapprima una coppia di istrici, poi una grossa scrofa selvatica, seguita da una

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