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Una drogheria fuori Porta
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Una drogheria fuori Porta

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Questo romanzo racconta la storia di un commerciante ebreo ferrarese, e della sua famiglia, attraverso le complesse vicende, belle e brutte, del secolo da poco terminato. Una storia comunque quasi del tutto vera.
LanguageItaliano
Release dateOct 20, 2018
ISBN9788829533206
Una drogheria fuori Porta

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    Una drogheria fuori Porta - Luigi Bosi

    DIGITALI

    Intro

    Questo romanzo racconta la storia di un commerciante ebreo ferrarese, e della sua famiglia, attraverso le complesse vicende, belle e brutte, del secolo da poco terminato. Una storia comunque quasi del tutto vera.

    UNA DROGHERIA FUORI PORTA

    A nonno Ugo, commerciante ebreo a Ferrara in tempi non facili.

    Quando da piazza del Travaglio s’usciva di città, dopo aver varcato la vecchia Porta Paola ci si ritrovava ben presto in mezzo alla campagna, che allora giungeva fin quasi al sottomura. I pioppeti e i campi coltivati a grano arrivavano a lambire da entrambi i lati lo stradone polveroso che portava dritto fino al ponte. Poi, attraversato il «canalone», la strada riprendeva tutta una curva, fiancheggiata da due filari di pioppi alti e dritti, verso il Chiesuolo e verso il Butifredo, in direzione di Bologna.

    Appena fuori della porta, che ultimamente aveva cambiato nome e veniva detta Porta Reno, ci s’imbatteva negli uffici del Dazio, all’esterno dei quali sostavano di continuo, sia d’estate che d’inverno, due o tre funzionari col berretto rigido dalla visiera di tipo militare. D’estate se ne stavano in maniche di camicia, seduti su seggiole appoggiate in precario equilibrio contro il muro, mentre d’inverno s’aggiravano ben infagottati nei loro lunghi pastrani neri, a battere i piedi e a fregarsi le mani per il freddo. E subito accanto al Dazio, non c’era da sbagliarsi, s’incontrava lì sulla sinistra la vecchia drogheria del signor Ugo.

    Si trattava d’un edificio basso e lungo, con una facciata d’un giallo un poco incerto, dipinta chissà quando, nella quale s’aprivano tre grandi vetrate, ciascuna incorniciata da un’intelaiatura di legno nero finemente lavorato a sbalzi floreali, che nell’insieme conferivano una certa eleganza alla costruzione, per il resto molto sobria, se non insignificante addirittura. Le due vetrine fra loro più lontane fungevano anche da porte d’accesso, così che nel negozio si poteva entrare da una parte e uscirne dall’altra, il che rappresentava un indubbio vantaggio quando c’era molta ressa, come spesso capitava il lunedì mattina o gli altri giorni di mercato.

    Il negozio si continuava sul retro con un lungo edificio, inserito come una T maiuscola nel corpo principale, che s’addentrava nel sottomura per un centinaio di metri e forse più. In tal modo da una parte andava a confinare con le gigantesche cupole argentate del deposito del gas, e dall’altra con le stalle della rimessa comunale. Questa lunga costruzione, alla quale s’accedeva pure da una stradina laterale, costituiva il magazzino del negozio e come tale fungeva da deposito per ogni bendiddio.

    Di fronte alla drogheria del signor Ugo, dall’altra parte della strada, c’era invece l’edificio principale della rimessa cittadina, dove chi arrivava dalla campagna lasciava in custodia biroccio e cavallo, prima d’accedere in città, evitando così di pagare il Dazio. Si trattava d’un complesso molto ampio, e anche ben tenuto, dove si poteva sempre trovare tutto quello che serviva, da un fabbro per aggiustare una ruota al maniscalco, da un bagno caldo a una stanza dove cambiarsi d’abito e rimettersi un po’ in ordine. I cavalli poi, staccati dalle stanghe e liberati dai finimenti, venivano portati nelle ampie stalle lì vicino, dall’altra parte della strada come si diceva, dove si poteva stare sicuri che venivano accuditi come dio comanda.

    C’era sempre un gran lavoro alla rimessa comunale, un continuo andare e venire di uomini, di calessi e di cavalli, specialmente il lunedì mattina quando la gente veniva in città per il mercato. Negli ultimi tempi poi, volendo stare al passo col progresso, era stata installata sul davanti una moderna pompa di benzina. Si trattava d’una grande colonna d’un bel rosso fiammante, tanto alta da sembrare un omaccione, con un globo luminoso al posto della testa e due boccioni di vetro da riempire con la pompa a mano, i quali alla sera venivano rinchiusi entro sportelli di latta che parevano un gilè. Perché già da qualche tempo a questa parte in giro si vedevano, e non era più una novità, quegli strani marchingegni che chiamavano automobili.

    Ma per tornare alla nostra drogheria, il bello era entrarci a far la spesa. Un grande banco di legno massiccio, tutto intarsiato di fiori e di fogliame, divideva per il lungo l’ampio salone rettangolare, un po’ in penombra, che pareva una stazione ferroviaria. Da una parte stavano i clienti, e alle loro spalle, disposti contro il muro e contro le vetrine, erano allineate in bell’ordine decine di grandi sacchi aperti, con il bordo accuratamente arrotolato e una lucente sessola conficcata nel bel mezzo. Ciascuno aveva il proprio cartellino, che ne specificava il contenuto e il prezzo della merce. Lì c’era di tutto. C’era ogni tipo di farina, quella bianca, quella gialla, quella di castagne. C’erano fagioli d’ogni qualità, e tutte le altre specie di legumi, c’era il riso, l’orzo e ogni altro cereale, lo zucchero, le carrube e così via.

    Sempre a terra, alle spalle dei clienti, stavano pure le grandi bacinelle smaltate con il baccalà in salamoia, le cataste ordinate d’aringhe affumicate e di stoccafisso, le mastelline di legno con l’anguilla marinata, le grandi scatole del tonno e quelle delle acquadelle [1] sott’aceto.

    Poi c’era il banco con il grande ripiano di marmo marezzato, ricoperto per intero da una serie infinita di formaggi, di marmellate, di conserve e mostarde prelibate, disposte in bella mostra l’una accanto all’altro.

    Ma l’arredo più importante del negozio, quello che subito attirava l’attenzione non appena s’entrava, era l’enorme scaffale di legno che andava a rivestire l’intera parete sul fondo e quelle laterali. Si vedeva al primo sguardo che si trattava di un’opera fuori del comune, veramente di prim’ordine. Ciò che colpiva era la decorazione floreale, scolpita nel legno da un artista di talento, da fare invidia a un negozio di speziale.

    Nello scaffale s’aprivano un’infinità di cassetti e cassettini, più piccoli quelli in basso, e poi sempre più grandi a mano a mano che s’andava verso l’alto, ciascuno con la propria etichetta scritta in bella calligrafia per rammentarne il contenuto. Un’infinità di cose, tutto un mondo, procurate chissà da chi e chissà dove, per molte delle quali, i famosi coloniali, a volte da non sapere neppure di cosa si trattasse.

    E per finire c’era lo spettacolo di tutto il bendiddio che pendeva dal soffitto, la distesa dei prosciutti, dei salami e mortadelle, delle pancette e cotechini, e via dicendo, tanto che a starsene lì sotto si provava una certa deferenza, oltre che farsi venire l’acquolina in bocca.

    Ma più ancora dell’abbondanza delle merci esposte, erano soprattutto gli odori che colpivano chi entrava nel negozio. O per meglio dire era quell’unico odore, del tutto speciale, che alla fine risultava dal miscuglio d’aromi e di profumi forti, che provenivano da tutta quella mercanzia. Ed era proprio quell’odore particolare che distingueva la drogheria del signor Ugo, così come lo stesso odore aveva col tempo contrassegnato le persone che là dentro ci lavoravano ogni giorno. Che poi alla fine erano soltanto in tre, il padrone e due commessi, anche se certe volte sembrava che ce ne fossero di più.

    Quanti anni potesse avere il signor Ugo, era assai difficile da dire. Forse aveva da poco superato la trentina, anche se in verità ne dimostrava assai di più. Piuttosto basso di statura, alquanto tracagnotto per una pinguedine incipiente che in nessun modo riusciva a mascherare, nemmeno con l’aiuto del grembiule grigio che gli scendeva fino alle caviglie, l’uomo camminava con passo strascicato, la punta delle scarpe un poco in fuori a causa dei suoi ben noti piedi piatti. Si teneva di continuo in movimento, bene attento a tutto ciò che succedeva attorno a lui, sempre disposto a scambiare due parole coi clienti, ma nel contempo pronto a redarguire i suoi commessi se s’accorgeva che qualcosa non andava. A dirla in breve, si vedeva di lontano chi era il padrone in quel negozio.

    Gli occhi neri, piccoli e vivaci, il viso ovale dalla pelle rosea che profumava di vaniglia e di cannella, la pappagorgia che già s’indovinava sotto il mento, i baffi all’Umberto girati per l’insù e i capelli neri pettinati con la scriminatura da una parte, tutti questi erano piccoli particolari che conferivano all’uomo un che di buono e di mansueto, ma che nello stesso tempo ne facevano intuire la viva intelligenza e la determinazione.

    C’erano pure i due commessi nel negozio, anche loro col grembiale che arrivava fino a terra, Armando quello più giovane e ambizioso, molto efficiente ma da tenere d’occhio, e il vecchio Francesco, sempre in movimento

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