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La progenie di Abaddon
La progenie di Abaddon
La progenie di Abaddon
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La progenie di Abaddon

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NUOVA EDIZIONE da Maggio 2024.

Romanzo autoconclusivo, ambientato su Obsur, il quinto pianeta dell'Aetermundi.
Trovate tutte le opere, le curiosità, i contatti e altro sull'autore, su robhimmel.com

Non v’è oscurità peggiore di quella celata nel cuore dell’uomo

Kelo e Bhor, soci in affari nel rubare, ricettare e contrabbandare, si fiondano sul luogo d’impatto di un meteorite con l’intento di saccheggiare la «pietra del cielo», per poi rivenderla al miglior offerente. Tuttavia, troveranno più di quanto si aspettano.
Intanto Telion e Reya verranno incaricati dagli Splendenti di cercare l’unica cosa che, secondo la profezia, potrà contrastare l’attuale predominio di Abaddon.
Luce, invece, guida un gruppo di sopravvissuti che viene braccato dagli Oscuri, in una fuga disperata. Il viaggio la condurrà verso una scelta che richiederà un prezzo altissimo, ma necessario per concedere una speranza all’umanità.
Abaddon, però, non resterà a guardare…


DALLE RECENSIONI DEI BLOG

"La progenie di Abaddon" è un romanzo che vi sorprenderà, una storia in cui il colpo di scena è sempre dietro l'angolo. Una storia in cui lo scontro tra Bene e Male è portato al parossismo, in un mondo in cui il Bene traballa. [...] Un romanzo corale, come è nello stile di Rob Himmel, con tanti personaggi, scontri e battaglie, un romanzo dove non mancano azione e sacrifici, dolore e morte, e anche un bel gioco di incastri narrativi che sorprenderà piacevolmente il lettore. I MONDI FANTASTICI

Rob Himmel ha uno stile di scrittura estremamente semplice e lineare, che gli permette di mostrarci una trama non semplice in un modo che rende seguirla estremamente facile. I colpi di scena sono diversi e inaspettati, e il lettore si trova catapultato nella storia fin dalle prime pagine. UNIVERSO FANTASY

Si tratta di un fantasy che segue un percorso lineare che verrà ribaltato alla fine portando il lettore a chiedersi: Ma cosa ho letto fino ad ora? Ma davvero non mi sono accorto della presa in giro? Ebbene sì, ammetto che non ho sospettato assolutamente nulla, e sono stato raggirato alla perfezione. Mi è piaciuta molta la presenza di accenni di romance, in dose equilibrata. Ho ammirato la crescita caratteriale di ogni singolo personaggio che è stato posto di fronte alla scelta se subire gli eventi o rimboccarsi le mani e lottare. Consiglio il romanzo agli amanti del fantasy e vi dico: “Non fatevi scoraggiare dall’inizio poco comprensivo del romanzo” SOGNO TRA I LIBRI

La trama di questo romanzo è davvero molto interessante. Mi è piaciuto molto come la storia sia andata complicandosi con lo scorrere delle pagine, e come allo stesso tempo abbia subito un'evoluzione non indifferente insieme ai personaggi stessi. [...] Lo stile di scrittura è davvero scorrevole nonostante la mole di informazioni che ci vengono "scaricate" in un primo momento, si riesce a non perdere il filo e a comprendere bene le dinamiche di questo mondo che posso definire tutto fuorchè semplice ed ordinario. [...] La storia intervalla molto bene i momenti di tensione con i momenti più divertenti o emozionanti, così da non rendere il tutto troppo pesante agli occhi del lettore che riesce anche ad indagare e a capire bene le personalità dei singoli personaggi. URBAN FANTASY & CO.
LanguageItaliano
PublisherAetermundi
Release dateOct 25, 2018
ISBN9788829536313
La progenie di Abaddon

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    La progenie di Abaddon - Rob Himmel

    Capitolo 1

    Agenti d’affari

    «D atti una mossa Ghor !» lo sollecitò il compagno, senza voltarsi.

    Ghor sospirò nell’osservare il contrabbandiere minuto, febbricitante per l’eccitazione, spronare il cavallo di uno dei due carri che avevano preso in prestito. Avevano visto la notte squarciata da una scia di luce prima di un lampo, poi tutto era svanito. Da quel momento Kelo aveva cominciato a vedere oro ovunque.

    «Saremo ricchi Ghor … siamo ricchi!»

    Lui annuì, mentre cercava di recuperare la distanza dal compagno. Ma il suo carro era più grande e quindi più lento, ancor di più perché trasportava lui, che pesava quasi il doppio di Kelo. Era già da alcune ore che stavano mantenendo quel ritmo, senza contare che l’amico aveva insistito per partire prima del giorno, rischiando persino di incontrare qualche tenebra.

    «Le ore di luce sono poche» gli aveva detto Kelo. «Quindi dobbiamo sbrigarci. È imperativo arrivare prima di chiunque altro, reclamare per noi il bottino e scomparire senza che nessuno ci veda.»

    Ghor aveva elencato diverse ragioni per cui sarebbe stato meglio aspettare, ma ovviamente il compagno lo aveva ignorato. Per di più, come al solito, la fortuna aveva assistito Kelo.

    «Hai visto Ghor? Nessun problema!» gli aveva subito rinfacciato, non appena il giorno era sbucato tra la coltre di oscurità.

    Il fumo ascendeva dal luogo dell’impatto e Kelo, fermatosi, si leccò le labbra pregustando il bottino. Saltò giù dal carro, pieno di gioia, poi si immobilizzò.

    Ghor lo studiò in quell’insolito e piacevole silenzio, un pensiero che non avrebbe mai espresso ad alta voce. Gli si affiancò con il carro più grande e rimase a bocca aperta.

    L’impatto aveva modellato la piana in un cratere circolare. La terra si era solidificata tanto da sembrare pietra levigata, seppur tempestata da una miriade di crepe scomposte. L’intera distesa fumava e l’aria tremolava a causa del calore, mentre i frammenti argentei del meteorite erano disseminati un po’ ovunque.

    «Hai visto Ghor? Siamo i primi!» esultò Kelo. «Se avessimo avuto uno stendardo avremmo reclamato questo luogo per noi…»

    «Se avessimo avuto uno stendardo non saremmo stati ricettatori, ladri e contrabbandieri.»

    Il compagno indugiò sulla questione, poi annuì. «Giusto, giusto…»

    Ghor sorrise divertito. Il suo non era un mestiere che gli piaceva, anzi, e lo faceva solo per Kelo. Stargli accanto lo rallegrava, anche se spesso si ficcavano nei guai e gli toccava prendere a pugni qualcuno. Ma quelle volte in cui gli dava ragione… che goduria che provava.

    Si soffermò a osservarlo, mentre lui passava in rassegna il bottino.

    Kelo era un uomo basso e aveva un’aria furba. La voce, nasale e fastidiosa, si addiceva alla statura. I capelli neri, lucidi e unti di grasso, erano buttati all’indietro con trasandata noncuranza.

    A Ghor sfuggì un sorrisetto nel vedere quell’accenno di barba, gli succedeva spesso. Perché Kelo, nonostante avesse oltrepassato i trent’anni, aveva soltanto la peluria adolescenziale sotto il naso, sul mento e sulle basette. Nient’altro.

    «Che hai da ridere?» bofonchiò il compagno. «Quante volte ti ho detto di non fissarmi la barba?!»

    «Non trovi eccessivo chiamarla barba?» Ghor scoppiò a ridere. Una risata cavernosa e contagiosa.

    Anche se l’impulso di imitarlo fu forte, Kelo riuscì a trattenersi pur di mantenere una parvenza di dignità.

    «Avanti, mettiti al lavoro, pigrone!» gli ordinò puntellando i pugni sui fianchi. «Carica i carri, prima che arrivi altra gente o, peggio ancora, faccia notte. E non lasciare nulla, mi raccomando, prendi anche i pezzi più piccoli.»

    Ghor annuì come di consueto e si adoperò. A lui spettavano i lavori di forza, senza eccezioni. Non per niente Kelo si presentava alla gente sempre allo stesso modo: «Agenti d’affari Kelo e Ghor. Lui è il braccio, io la mente».

    Ogni singola volta che glielo sentiva dire gli suscitava una risata. Poi, in privato, Ghor gli contestava quell’agenti d’affari, per cui Kelo ribatteva con: «Dobbiamo apparire professionali!»

    Mentre Ghor cominciò a raccogliere i frammenti del meteorite, partendo dai pezzi più grandi, Kelo esaminò il cratere raccogliendo quelli più piccoli.

    «E quello cos’è?» chiese il compagno, più a se stesso che a lui.

    Al centro del cratere c’era una sfera simile a una perla, ma grande quanto una mela. Kelo sgranò gli occhi.

    «Non siamo ricchi, siamo molto più che ricchi… ricchissimi!»

    Ghor la guardò incuriosito.

    Kelo la prese e la elevò al cielo per esaminarla sotto al sole.

    Quando la sfera fu investita dalla luce, parve animarsi con un tenue bagliore all’interno.

    Ghor stropicciò gli occhi per capire se fosse frutto della sua immaginazione o fosse accaduto davvero. Ma pochi istanti dopo vide che tutto era svanito.

    «Con questa ci tiriamo su un sacco di soldi» si rallegrò Kelo.

    «Sempre se non la regali a qualcuno per la solita fretta di incassare» contestò Ghor. «Spesso hai venduto merce a meno della metà del prezzo che ci potevamo ricavare, solo perché ti credi più furbo degli altri.»

    «Dettagli compare, dettagli» disse Kelo agitando la mano al vento, senza però staccare gli occhi dalla sfera. «Alla fine abbiamo sempre mangiato, no? Certo, non sempre pasti caldi…»

    «… E commestibili.»

    «Ma mai a pancia vuota. Quindi non lamentarti e lavora.»

    Ghor sospirò. Quando Kelo cominciava con quella solfa c’era poco da parlare. La cosa migliore era stare zitto e continuare a fare il suo. Quindi fece finta di nulla e prese un grosso frammento di meteorite.

    Kelo trotterellò fischiettando verso il carro.

    «Ah! A quanto pare anch’io ho trovato qualcosa» esordì Ghor dopo aver posato il carico sul carro. Notò una macchia scura sulla piana, poco distante dal cratere.

    Kelo corse avido e smanioso. «Ricchi… ricchissimi!» Lo raggiunse pieno di aspettative, ma ne rimase deluso.

    C’era un uomo supino. Non si capiva se fosse ancora vivo, ma era sporco di sangue sulla testa e in alcuni punti del corpo. Gli abiti erano laceri e consunti. Aveva i capelli mori, corti e tagliati alla bell’e meglio, proprio come la barbetta sul viso.

    «Dici che è ancora vivo?» domandò Ghor sporgendosi in avanti.

    «Controlliamo…» replicò Kelo, sovrastando il corpo e cominciando a frugargli nelle tasche.

    «Cosa fai?»

    «Cosa pensi che stia facendo?»

    Ghor sbuffò. «So cosa stai facendo, ma non capisco perché devi farlo!»

    Kelo lo guardò in tralice. «Ricordi ciò che siamo? E poi, qualunque cosa abbia, a lui non serve più, mentre a noi…»

    «E se non fosse morto?»

    «Lo è, lo è…»

    Tornò a rovistare ma poi, dati gli scarsi risultati, prese a mugugnare.

    «Non ha nulla! Solo questa specie di collana, se così si può definire.»

    Era una pietra levigata a tal punto da somigliare a una moneta, con un buco da cui passava uno spago legato al collo. Sulla parte piatta c’erano delle incisioni.

    Kelo la esaminò.

    «Cosa c’è scritto?» chiese a Ghor, perché lui non sapeva leggere.

    «Danter… che sia il suo nome?»

    Ghor tirò su con le spalle e si chinò sul corpo dello sconosciuto. Gli mise una mano davanti al naso e disse: «Respira ancora, è vivo».

    «Buon per lui.»

    Ghor lo guardò torvo.

    «Hai ragione, sai? Buon per noi!» disse Kelo.

    «Cos’hai intenzione di fare?»

    «Mi sento particolarmente buono…»

    «Come se potessi crederci!»

    Kelo si portò una mano al petto, fingendosi offeso.

    «Così mi ferisci.» Scoppiò a ridere. «Ho una soluzione, buona per noi e per lui. Lo togliamo da qui, lo salviamo. Lo portiamo con noi, così non verrà divorato da qualche tenebra.»

    «Tu cosa ci guadagni?» gli chiese Ghor alzandosi e incrociando le braccia sul petto.

    Kelo lo imitò, soltanto che a stento gli arrivava allo sterno e non appariva affatto severo come lui.

    «Beh… diciamo qualche moneta, l’adeguata ricompensa per avergli salvato la vita.»

    «Come farà a pagarti se non ha nulla?»

    Kelo sorrise.

    «Hai intenzione di venderlo come schiavo!» disse contrariato Ghor.

    «Ora non mettermi il broncio! Fa parte del lavoro, è quello che siamo.» Fece per andarsene, poi si voltò e aggiunse: «Avanti, non voglio sfidare ancora la sorte restando qui mentre fa buio. Caricalo sul carro e finiamo di prendere quello che possiamo. Ne riparleremo a Bradford».

    Ghor fece come gli era stato ordinato, almeno finché sentì Kelo farfugliare qualcosa mentre indicava un punto impreciso all’orizzonte.

    «Sta arrivando qualcuno!» allertò il compagno, la voce tremolante di chi già stava andando nel panico. «Fa’ in fretta Ghor, dobbiamo andare!»

    Capitolo 2

    Luce

    La struttura tremò. La fortezza di Orbatart , costruita nel passo di una montagna, vacillò come fosse stata una capanna di legno. L’assedio era cominciato, proprio come lei aveva previsto.

    «Dobbiamo fare in fretta» avvisò Luce, «sfonderanno la porta e ci saranno addosso!»

    Il suo Lascito, la prescienza del breve futuro, le permetteva di anticipare gli eventi che la coinvolgevano. Mai prima d’ora, però, era accaduto come in quel momento: aveva scorto l’arrivo degli Oscuri con diverse ore di anticipo. Avevano avuto giusto il tempo per prepararsi alla fuga. Affrontarli sarebbe stato impensabile, erano inferiori di numero e pochi di loro erano in grado di combattere.

    La fortezza sussultò tra le pareti della montagna. Un tempo era stato un luogo sicuro, nascosto agli Abaddoniti per secoli, ed era la ragione per cui si erano rifugiati là. Luce stessa l’aveva suggerito, ciononostante, in un modo o nell’altro, gli Oscuri erano riusciti a rintracciarli. Lo sterminio andava avanti da anni, una caccia senza tregua che aveva costretto gli Splendenti alla latitanza. Così, gli uomini dediti alla luce si erano ritrovati a rifugiarsi in luoghi nascosti e bui pur di non essere individuati.

    «Quanti sono?» domandò Orlat, con lo sguardo severo fisso su di lei.

    Luce colse il significato implicito di quella domanda, sapeva cosa volesse fare, nonostante avessero già discusso sulla questione assieme a Gherdiom, Rauor e Saffolk. Avevano optato per la fuga e quindi non avevano alcun piano per affrontare i loro persecutori. Orlat, però, pareva ostinarsi in un’azione tanto stupida.

    Lei sapeva che la vera ragione di quella impazienza era il desiderio di vendetta. Una settimana prima la sua consorella, Serafino come lui, era stata trucidata davanti ai suoi occhi dagli Abaddoniti durante l’attacco alla fortezza di Wirlon.

    Lo studiò: Orlat si ergeva fiero e robusto come pochi altri, con quella massa muscolare. Vide i suoi occhi ricolmi di rabbia, la barba trasandata la diceva lunga sul suo stato d’animo. In genere era uno dei Serafini più attenti al proprio aspetto. Gli indumenti non erano da meno: sgualciti e sporchi.

    «Ti prego Orlat, non fare così» gli disse Luce. «Sai cosa abbiamo deciso per il bene di tutti. Non siamo pronti per combatterli adesso.» Gli si avvicinò poggiandogli una mano sulla spalla. «Arriverà presto il giorno in cui sarà fatta giustizia e torneremo a vivere sotto la luce del sole.»

    «Va bene…» borbottò.

    Lei annuì compiaciuta.

    «Che cosa state aspettando?» rimproverò Berdarp affacciandosi dal battente della porta. «Svelti, dobbiamo andare. Gli Abaddoniti hanno quasi sfondato il cancello.»

    Presero lo zaino e andarono. Mentre correvano per raggiungere l’uscita nascosta alle spalle della fortezza, sentirono l’ennesima vibrazione seguita da un frastuono. Il cancello era stato abbattuto.

    «Svelti, svelti!» incitò Berdarp.

    Luce passò in rassegna le persone che si erano raccolte alle spalle dell’edificio. C’erano tutti tranne uno.

    «Dov’è l’Arcangelo?»

    «Saffolk ha deciso di restare dentro» rispose Berdarp, che si era occupato dell’ultimo giro di perlustrazione affinché nessuno rimanesse all’interno. «Vuole far crollare tutto sulla testa degli Abaddoniti. Vuole concederci più tempo per fuggire.»

    Luce sussultò.

    D’impeto scattò verso l’interno, mentre Berdarp e Orlat cercarono di fermarla senza successo. Attraversò i corridoi in pietra chiamando a gran voce l’Arcangelo, ma non ricevette nessuna risposta. Proseguì senza arrendersi, cominciando a udire in lontananza, all’ingresso di Orbatart, l’afflusso di Abaddoniti riversarsi all’interno.

    Poco dopo una voce la chiamò e, intuita la direzione, corse. Attraversò altri due corridoi, girò l’angolo e giunse all’ingresso del salone centrale. Saffolk era lì, nel cuore della fortezza.

    «Sciocca!» la rimproverò lui non appena la vide arrivare, accigliandosi. «Metti in salvo gli Splendenti, è tuo compito, sbrigati!»

    Luce l’afferrò per un braccio senza replicare, nel tentativo di trascinarlo con sé. Nonostante Saffolk avesse visto oltre settanta estati, dimostrava un insolito vigore.

    «Sei un Arcangelo» disse Luce guardandolo dritto nei profondi occhi castani. «Non puoi abbandonarci!»

    Lui scosse la testa glabra. «Adempi alle tue responsabilità, Arconte! Questo è un ordine del tuo superiore e maestro!» Si divincolò dalla presa.

    «Abbiamo bisogno di te, sei la nostra guida!»

    «Sei testarda come tua nonna! Farò crollare questo posto, portandomi dietro quanti più Oscuri io riesca. È l’unico modo che ho per aiutarvi. Così facendo bloccherò anche l’uscita posteriore. Impiegheranno giorni prima di riuscire a riorganizzarsi, più il tempo che ci vorrà per farsi spazio tra le macerie.»

    Luce conosceva bene il Lascito dell’uomo, era un geocineta e poteva fare quanto aveva appena detto, anche se sarebbe morto sotto le rovine.

    «Vieni con noi, fa’ quello che devi appena fuori Orbatart.»

    «Stolta! Se lo facessi lì non otterrei gli stessi risultati. L’epicentro deve essere nel cuore dell’edificio, così da demolirne le fondamenta. Vi sto salvando, non lo capisci? Ora va’, non perdere altro tempo, stanno arrivando. Sii tu la loro guida.» La spinse. «Va’!»

    Luce gli lanciò un ultimo sguardo e corse via. Fuggì a perdifiato, mentre la bocca le si fece amara. L’ennesimo Splendente sacrificato alla causa.

    La terra prese a tremare poco dopo, con potenza crescente. La fortezza vacillò, ma parve resistere.

    Uscì e, senza voltarsi indietro, raggiunse la folla a circa sessanta metri.

    Un frastuono piegò il silenzio notturno. Orbatart, il gigante di pietra, crollò in rovina sotto le violente scosse di terremoto. Gli alberi adiacenti s’infransero, quelli più distanti vacillarono come steli d’erba quando furono investiti dall’onda d’urto. Un immenso polverone riempì la zona per decine di metri.

    Vi furono delle grida, poi tutto tacque.

    Luce scacciò qualunque pensiero triste. Davanti a sé aveva una sessantina di superstiti, tra combattenti e non.

    «Tutto bene?» s’interessò Rauor, avvicinandosi.

    Luce annuì, tornando in sé. «Qui non è sicuro, dobbiamo andarcene alla svelta.»

    Rauor la guardò. «Siamo in coppia da oltre sei anni. Ti conosco e so quel che stai provando… Saffolk è stato anche il mio maestro, condivido il tuo dolore. Lo sai.» Le poggiò una mano sulla spalla. «Sarà dura e lui lo sapeva. Ha voluto sacrificarsi per darci una speranza.»

    Speranza, una parola che suonava male dinanzi alla morte di una persona cara. Non ce n’era più per Saffolk.

    «È bene che provvediamo a chi sta confidando in noi» proseguì Rauor. «Ne hanno bisogno, così come hanno bisogno di te… io ho bisogno di te. Da solo non posso farcela.»

    «Sì, hai ragione…» confermò sollevando il capo, «hai una fiaccola per me?» chiese con un sorriso fugace.

    «Se non ci fossi io a portare un po’ di luce nella tua vita, come faresti?» ironizzò Rauor porgendole la torcia che aveva in mano.

    Luce inarcò un sopracciglio accompagnato da un sorriso sghembo. Sapeva quanto le volesse bene Rauor, così come conosceva i suoi ironici tentativi di distrarla dai pensieri poco piacevoli.

    Il compagno Arconte sfoggiava la solita espressione da ebete sulla pelle cerea puntellata da simpatiche lentiggini. Svettavano gli occhi celesti e i capelli ramati.

    Questa volta, però, ogni tentativo di distrarla non poteva funzionare.

    «Confratelli, andiamo» sollecitò Gherdiom. «Penso sia meglio bruciare la foresta dietro di noi. Finché ci sarà un incendio non potranno seguirci, cancelleremo anche le nostre tracce. Servirà a farci più luce e a tenere lontano le tenebre, almeno per un po’.»

    «Ottima idea» avvalorò Rauor. «Come tutte quelle che hai… o quasi tutte», aggiunse con un sorriso strafottente.

    Luce gli gettò un’occhiataccia, ritenendo la sua ironia inopportuna. «Concordo» disse a Gherdiom, guardandolo con stima.

    Gherdiom era suo parigrado nella gerarchia deli Splendenti, in quanto Arciserafino, titolo che denunciava la mancanza di un Lascito. Era, infatti, un uomo comune e malgrado ciò non aveva nulla da invidiare agli Arconti, sopperiva alla mancanza di un potere con un’intelligenza sopraffine. Lo sguardo arguto veniva amplificato dal mento pronunciato, basette curate e occhi verdi.

    «Immagino debba pensarci io» disse Rauor sorridendo.

    «Ovvio» confermò Gherdiom, allontanandosi.

    Rauor aprì i palmi e su di essi scaturirono delle lingue di fuoco. Compiendo movimenti armoniosi le disseminò su un’ampia area della foresta, appiccando un incendio. Esibì un’espressione soddisfatta all’indirizzo di Luce, che rispose con una smorfia, poi raggiunsero insieme il resto dei fuggitivi che si erano già incamminati.

    «Non c’è molto vento, ma comunque ci vorrà poco prima che le fiamme si propaghino» avvisò l’Arconte, poi specificò: «La foresta è praticamente secca».

    L’Arciserafino si mostrò contrariato a causa dell’ovvietà di Rauor. Un quadretto che si ripeteva spesso e non smetteva mai di far sorridere Luce, forse era proprio per quello che il compagno Arconte si divertiva a stuzzicare Gherdiom.

    Il gruppo avanzò tra l’oscurità, la foresta smorta e l’incendio alle spalle, in un silenzio funebre scalfito solo dai lamenti e dai gemiti dei feriti.

    «Dove stiamo andando?» sussurrò Mefi a Luce, dopo essersi accostata a lei qualche ora più tardi.

    Luce le guardò il viso tondo e innocente, poi rispose: «Ci stiamo dirigendo alla fortezza di Onghard. Nella speranza che ci sia ancora qualcuno, o almeno di trovare un riparo per un po’ di tempo».

    «Speriamo…»

    La loro conversazione finì là. A Luce parve che l’interesse di Mefi non fosse nella risposta, ma nella necessità di avere uno scambio verbale, forse per sentire qualcuno vicino. Questo la intenerì.

    Tutti i Serafini cresciuti nella Confraternita degli Splendenti erano stati addestrati a combattere e a sopravvivere contro la Setta e le creature delle tenebre, imparando a dominare e contrastare la propria oscurità interiore, assieme alle emozioni più fragili e pure. Ma Mefi, secondo lei, rappresentava un’eccezione. Era ancora immacolata, persa nell’ignoranza di quanto si fosse fatto disperato quel conflitto, dove i più avevano ceduto ad Abaddon. La giovane Serafina non aveva mai affrontato una tenebra, non aveva combattuto battaglie sanguinarie contro Abaddoniti fuori di testa, né si era confrontata con un Tenebris e la sua aura opprimente.

    «Fermi!» ordinò Berdarp, che era in testa al gruppo. «Ho sentito un rumore, c’è qualcosa…»

    Capitolo 3

    Arconti

    «A llora … cosa ti aspetti di trovare?» le chiese Telion con occhi celesti e un sorriso arzillo.

    Reya si portò una mano davanti alla bocca e sbadigliò, chiedendosi come facesse il compagno Arconte a essere così pimpante. Erano stati entrambi buttati giù dal letto perché convocati con la massima urgenza. Si erano presentati davanti al Pentalux, che li aveva incaricati di andare a nord, alla ricerca della roccia del cielo, o di ciò che ne rimaneva. Dovevano indagare e riportare quella che, secondo la profezia, veniva chiamata la «Lanterna».

    «In verità? Ben poco. Per quando saremo arrivati penso che non sarà rimasto nulla.»

    «Se così fosse, complicherebbe il nostro incarico» replicò Telion sorridente, poi si passò la mano tra i capelli biondi.

    «Un’ipotesi che sembra compiacerti.»

    Telion sollevò le spalle. «Che vuoi che ti dica? Non disdegno una boccata d’aria fuori da Solealto. Restare per troppo tempo in quella fortezza mi deprime. Sento il bisogno di vedere posti diversi, conoscere gente nuova…»

    Reya inarcò un sopracciglio. «… Donne nuove, vorrai dire.»

    Lui ammiccò, sfoggiando un sorriso a denti bianchi. «Vero, sarebbe ideale.»

    «Abbiamo un compito da svolgere.»

    «Avanti Reya, non cominciare con le paternali. E poi fa parte della legge dell’equilibrio: più sarai seria e più io sarò allegro. Più sarai casta e più io sarò lascivo. Per questo siamo la migliore accoppiata di Arconti, non trovi?»

    Lei si strinse nelle spalle, poco convinta. Guardò davanti a sé e indicò con il mento.

    «Siamo arrivati a Sulgord. Penso che sia meglio fermarci qui, il tempo di fare qualche domanda. Tanto non credo che sarebbe utile arrivare sul luogo dell’impatto, non adesso che è buio almeno. Faremo solo qualche domanda, nulla di più. È ora di mettersi a lavoro.»

    «È ora di mettersi a lavoro» le fece eco, imitandola anche nella postura. «Ai suoi ordini, Primo Arcangelo Reya!» aggiunse scoppiando a ridere.

    «Stupido.» Ma non trattenne un sorriso.

    Avanzarono a cavallo fin sotto le imponenti mura della città-rifugio, dove un uomo posizionato sulla torre di vedetta gridò: «Chi siete? Cosa volete? Da dove venite?»

    «Un po’ troppe domande tutte in una volta, non credi?» le sussurrò Telion in tono allegro. «A quale dovremmo rispondere per prima? E in quale ordine?»

    Lei lo rimproverò con lo sguardo e poi rispose alla vedetta: «Arconti della Confraternita. Facci entrare!»

    L’uomo parve borbottare qualcosa; malgrado ciò, le porte in ferro battuto si aprirono. I due fecero procedere i cavalli al passo e si trovarono davanti a un agglomerato di edifici in decadenza. Le strade erano ridotte a fanghiglia che puzzava di latrina. Volti cupi ed espressioni diffidenti indugiarono su di loro, studiandoli.

    «Che allegria» sussurrò Telion.

    «Sta andando tutto in malora» commentò lei, mantenendo la voce bassa. «Di questo passo ci estingueremo.»

    «Non finché elargirò il mio seme» ironizzò l’altro, ma Reya lo fulminò con un’occhiataccia. «Sei troppo seria.»

    «E tu hai sempre voglia di fare lo stupido. Osserva lo stato di questa città e dei suoi abitanti, guardali bene e dimmi se c’è qualcosa per cui ridere.»

    La conversazione morì così, mentre passavano in rassegna lo scenario deprimente dinanzi ai loro occhi. Ai bordi delle strade c’erano diversi mendicanti, mentre gente malaticcia si nascondeva in vicoli bui. Le case cadevano a pezzi, con assi di legno marce, delle volte mancanti. Se non fosse stato per le centinaia di fiaccole, lanterne e bracieri, Sulgord sarebbe stata inghiottita dall’oscurità, con gli abitanti che sarebbero divenuti cibo per le tenebre. Un’altra città-rifugio sul ciglio del baratro, in procinto di cadere.

    Reya si chiese dove sarebbero andati a finire.

    «Andiamo da Hurol?» le chiese Telion dopo un po’.

    Lei annuì.

    «Io non so nulla» disse l’uomo dagli occhi incavati e la pelle pallida, quando si ritrovarono dinanzi a lui, nella sua bottega.

    Telion osservò la consorella, che scosse la testa, poi tornò su Hurol sollevando il mento con fare altezzoso, e lo accusò: «Mendacio! Or noi sappiamo che sei nel giro!»

    Reya si guardò attorno, studiando gli scaffali in penombra con un paio di lanterne a fare luce. Erano colmi di cianfrusaglie, oggetti di ogni genere, ma per la maggiore si trattava di roba inutile o in pessimo stato. Gli angoli dei mobili e della stanza erano addobbati da ragnatele, mentre il bancone era rivestito da un tappeto di polvere. Questa non fece altro che solleticarle il naso, stimolandole uno starnuto.

    «Quale giro? Io non so di cosa parlate!» piagnucolò il bottegaio sollevando i palmi con aria disperata.

    Reya percepì una vibrazione: l’uomo stava ancora mentendo.

    «Non ci siamo.»

    Telion si alzò dalla sedia e si avvicinò a Hurol.

    «Il nostro essere Arconti di per sé rivela la custodia di un Lascito, e se la mia consorella afferma che menti, è così. Vi è chiarezza ora in quel becero cervello che ti ritrovi?»

    Hurol guardò la donna con espressione allarmata, poi tornò sull’Arconte biondo e annuì.

    «Or, chiarito questo, tutti sanno che sei un ricettatore. Negarlo è superfluo. Quel che invero a noi interessa è se hai informazioni che concernono la roccia del cielo. Qualcuno ha già tentato di vendertene dei frammenti?»

    L’uomo si accigliò. «Nessuno ha cercato di rifilarmi nulla, non ancora. Ma qualche giorno fa sono spariti dei carri con i cavalli, li hanno rubati. Qualche folle deve essere partito subito, attraversando l’oscurità, mentre altri sono andati soltanto quando si è fatto giorno.»

    I due Arconti si scambiarono un’occhiata e Telion sorrise, riportando l’attenzione sul bottegaio. «Or se tu avessi trovato quella roccia del cielo e quanto vi era nel luogo dell’impatto, dove ti recheresti per ricavarne dei guadagni?»

    Hurol rifletté sulla cosa, poi disse: «Bradford… Andrei a Bradford».

    La porta alle loro spalle si aprì e tre individui dai volti sporchi, con qualche dente in meno e abiti laceri, varcarono la soglia. Tra le mani impugnavano assi di legno come bastoni improvvisati.

    «Splendenti» sogghignò quello in testa al trio.

    «Or lasciate che io indovini» disse Telion voltandosi verso di loro. «Succubi, aspiranti Abaddoniti in cerca di Splendenti da consegnare alla Setta Oscura. Ovvero stolti disperati, senza audacia né senno. Invero commisero il vostro agire in quanto presagisce un esito nefasto, ma altresì gongolo nel riattivar le mie articolazioni, poiché da tempo immemore non mi allieto con una scaramuccia da vile plebeo.» Sorrise nel vedere le loro espressioni confuse.

    Reya guardò il confratello e sbuffò spazientita. Si tolse il cappuccio e aprì il mantello, rivelando i fulgidi occhi verdi e i capelli ondulati fin oltre le spalle, assieme agli abiti bianchi decorati con bordature argentate.

    «Arconti…» sussurrò l’individuo sulla destra, indietreggiando di un passo.

    «Possiamo farcela!» replicò quello in

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