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Tu sei la mia felicità (Floreale): Vol. III Felice perché ho te
Tu sei la mia felicità (Floreale): Vol. III Felice perché ho te
Tu sei la mia felicità (Floreale): Vol. III Felice perché ho te
Ebook382 pages5 hours

Tu sei la mia felicità (Floreale): Vol. III Felice perché ho te

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"Tu sei la mia felicità" è il capitolo finale della serie bestseller "Felice perché ho te" composta da:
Vol. I "Felice perché ho te"
Vol. II "Finché ho te sarò felice"
Vol. III "Tu sei la mia felicità"

"Era un’anima nera, me lo aveva detto più volte: io ero la sua luce e non potevo spegnermi."

Il cerchio sta per chiudersi. Questa volta Aurora e Alessandro metteranno in gioco i loro sentimenti ancor più di prima. Una serie di eventi e situazioni li hanno portati a spingersi ben oltre le loro aspettative, rendendosi conto di aver a che fare con qualcosa di molto pericoloso e fuori controllo. 
Dei nuovi personaggi cambieranno le carte in tavola, dei sorprendenti avvenimenti stravolgeranno ancora una volta le loro vite, ma c’è qualcosa che rimane sempre invariato e forte: il grande amore dei due protagonisti. Un turbinio di emozioni vi farà ancora una volta sospirare, arrabbiare e trattenere il fiato, ma questa storia avrà finalmente un lieto fine? 
Non vi resta che scoprirlo nel capitolo finale per lasciarvi coinvolgere, un’ultima volta, nelle intriganti vicissitudini che hanno portato Alex e Aurora ad essere ancora più uniti e forti insieme… per sempre! 

«Avrò bisogno di questo per sempre, amore mio» mormorò fra i gemiti. Afferrò con decisione le natiche, stringendole tra le dita. «Aurora, io avrò per sempre un disperato bisogno della tua luce al mio fianco».
LanguageItaliano
PublisherPubMe
Release dateOct 26, 2018
ISBN9788833661605
Tu sei la mia felicità (Floreale): Vol. III Felice perché ho te

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    Tu sei la mia felicità (Floreale) - Hazel Pearce

    (Legge 633/1941).

    Prologo

    Il sole splendeva alto nel cielo blu puffo, ma non faceva molto caldo. L’aria era fresca, l’atmosfera finalmente serena.

    La guardavo correre, felice. I lunghi capelli scuri, che ricadevano in mille boccoli, svolazzavano al vento. La sua risata cristallina riecheggiava nella valle. Le scarpette bianche che tanto adorava. Non le importava se dovevamo andare al parco, lei voleva indossare quelle graziose scarpine a tutti i costi. Il vestitino in tulle color pesca che si muoveva sinuoso sulle gambine magre e corte. Correva a perdifiato la mia bambina, trascinandosi dietro quel grande aquilone che aveva costruito insieme a suo padre. Sentire la sua risata armoniosa mi provocava un innato senso di quietezza. Era simile a quella del suo papà.

    Improvvisamente la vidi accasciarsi al suolo, piangendo disperata. Scattai dalla panchina, correndo a perdifiato verso la mia bambina. Le fui accanto in un baleno e le presi il viso ricoperto di lacrime tra le mani. Somigliava terribilmente ad Alessandro.

    «Mamma, non è colpa tua» mormorò, alzando i suoi occhietti bui su di me. «Non essere triste, mamma» continuò, poggiandomi le manine delicate sulle guance arrossate.

    Le lacrime mi appannarono la vista. «Io avrei dovuto proteggerti, piccola» risposi con la voce spezzata, carezzando quel tripudio di ricci scompigliati. «Sarei dovuta stare dentro quella sala e aspettare che quella donna cattiva andasse via, Arianna».

    Si asciugò le lacrime sulle gote, sorridendomi amorevole. Nascose il viso nel collo e mi baciò dolcemente la punta del naso. «Io lo so che mi hai amata tanto, mamma e io amo te». La strinsi forte al mio petto, annusando profondamente il suo profumo. Odore muschiato, come quello del papà. Sciolse quella tenera stretta, guardandomi seria. «Adesso devi svegliarti mamma. Papà ti sta aspettando».

    Capitolo 1

    Aprii gli occhi su quel soffitto bianco. L’aria era pesante e il cielo prometteva pioggia quel giorno. Respirai a pieni polmoni quell’odore di disinfettante e cibo da mensa che mi fece rivoltare le budella. Una fitta dal basso ventre mi mozzò il respiro in gola. Strinsi gli occhi per resistere al dolore ed espirai il più lentamente possibile. Mi sistemai sul cuscino, provando a sollevarmi un po’ su quel letto al quale ero inchiodata da settimane.

    Ero stanca, distrutta, ma quando chiudevo gli occhi, le iridi vitree di Laura mi comparivano davanti, facendomi urlare di terrore svegliando l’intero reparto. Lo psicologo veniva a trovarmi una volta a settimana, ma non mi serviva a nulla parlare con lui di quello che era accaduto e sentirmi propinare le solite analisi boriose: ero rimasta traumatizzata dalla cosa e dovevo superarla. Sfido chiunque a vivere sereno dopo aver ricevuto una coltellata che mi aveva quasi fatto perdere la vita, ma soprattutto, che mi aveva fatto perdere mio figlio.

    Guardai il vuoto mentre poggiavo la mano sopra al ventre: m’illudevo ogni volta di sentire qualcosa, sentire anche solo il minimo movimento dentro la mia pancia, ma non c’era assolutamente nulla. Lui o lei, il simbolo dell’amore tra me e Alex, non c’era più e le lacrime cominciavano a scorrere lente e silenziose lungo le gote. Se solo fossi stata meno sciocca e impulsiva.

    La porta della stanza si aprì e la graziosa infermiera dai lunghi capelli color nocciola entrò, venendo verso il letto con il carrellino della colazione. «Buongiorno, signorina Renard» esclamò allegra. Mi riasciugai velocemente le lacrime, non amavo farmi vedere piangere dagli estranei. «Dormito bene questa notte?» domandò, poggiandomi il vassoio sulle gambe dopo avermi aiutata a mettermi a sedere.

    «Ho passato notti migliori» bofonchiai disgustata da quella pappetta che fumava sotto ai miei occhi.

    «Non faccia così signorina. Deve mangiare per poter prendere gli antidolorifici e gli antibiotici» mi redarguì con un sorriso sulle labbra. «Questo pomeriggio passerà il dottore per visitarla. Se i risultati delle sue analisi sono a posto, la potremmo dimettere tra qualche giorno».

    Mugugnai, portandomi l’orripilante poltiglia di latte caldo e biscotti alla bocca. La pioggia cominciò a battere sui vetri, mentre il vento soffiava forte, la stessa sensazione che provavo dentro me: una tempesta. Mentre mangiavo forzatamente quella massa indefinita di cibo, l’infermiera faceva i soliti controlli di routine che poi andava a segnare sulla cartellina ai piedi del letto. Avevo tutta la stanza per me. Non avevo compagni di camera con cui chiacchierare un po’ e passare le mie giornate.

    Le ore trascorrevano guardando la tv, provando a leggere qualche libro e scrutando fuori dalla finestra. Era quello l’unico momento in cui rivivevo per intero quella drammatica serata.

    Le urla, quegli occhi gelidi e quel dolore. Il freddo, la sensazione del sangue che inzuppava il vestito e le sue lacrime che mi cadevano sul viso. La sua voce, la sua bellissima e profonda voce rotta dal pianto e dalla disperazione e il suo profumo che forse mi aiutò ad aggrapparmi a quell’ultimo brandello di forza che non mi fece cadere dentro la fossa. Ero rimasta incosciente per qualche giorno, per poi risvegliarmi intontita, ma avvertendo subito quel vuoto dentro di me; la frustrazione mi aveva travolta come un torrente in piena.

    Due colpi sordi alla porta. Non mi serviva aspettare, sapevo chi sarebbe entrato a breve in quella camera d’ospedale. La sua massa di capelli castani sbucò da quella.

    «Buongiorno signora Emma!» esclamò cordiale l’infermiera, infilandosi la penna dentro al taschino sul petto.

    «Ciao mamma» sospirai rilassata.

    Mi venne incontro con un timido sorriso sulle labbra. Si poggiò sul letto per arrivare a me e potermi dare un bacio in fronte. «Ti trovo bene, bambina» mormorò allegra. Il suo sguardo s’illuminò mentre frugava in borsa. «Sai, Alex è riuscito a farsi lasciare il pass. Posso stare con te tutto il giorno tesoro!» esclamò euforica, sventolandomi davanti al naso un bigliettino plastificato.

    «È una splendida notizia, signora Emma!» canticchiò entusiasta l’infermiera, incamminandosi verso l’uscita. «Ma si ricordi di non far affaticare troppo la signorina Renard» si raccomandò, aprendo la porta. Lanciò uno sguardo scintillante a me e mia madre. «È per il suo bene» concluse, lasciandoci sole.

    «Per il mio bene un cazzo» ringhiai tra i denti, sbattendo sul comodino al mio fianco quella rivoltante poltiglia.

    «Aurora, smettila di tenere questo atteggiamento insolente!» mi riprese Emma.

    Mi passai le mani sul viso, sospirando piano per non concitare la ferita. «Mamma io non ce la faccio più a restare chiusa qui dentro!» mi lamentai esausta. «La ferita sta guarendo e se devo stare inchiodata a questo letto per uno stupido taglio, posso anche andarmene a casa!».

    Prese una sedia che trascinò accanto al letto, abbandonandosi su quella. «Aurora, i punti sono ancora freschi e la ferita è molto profonda. Deve guarire del tutto prima che ti lascino andare a casa» replicò pacata. Mi pose una mano sul braccio con la flebo. «Si tratta al massimo ancora di qualche giorno, poi potrai uscire da qui. Ma devi ascoltare quello che ti dicono i medici».

    Serrai la mascella con la collera che cominciava ad invaghirsi dei miei sensi. «Sono troppo vulnerabile qui» bofonchiai. Fissai mia madre con aria vitrea. «Finché sono qui, Laura Cruz potrebbe farmi qualsiasi cosa».

    Sospirò chinando la testa sul petto. «Aurora, è sparita dalla circolazione» cercò di rassicurarmi.

    «Mamma lo ha già fatto altre volte!» la incalzai. «Si volatilizza nel nulla per un po’ di tempo così che io abbassi la guardia e appena si presenta l’occasione, rispunta fuori». Emma mi scrutava spaventata. «Non posso stare qui ancora per molto tempo. Mi stupisco che non mi abbia fatta fuori quando ero in stato comatoso».

    «Aurora Amelie Renard!» mi riprese inorridita. «Non dire una cosa del genere nemmeno per scherzo».

    «Io non scherzo, mamma. Non ho nessuna voglia di giocare adesso!». Il sangue si stava scaldando nelle vene. «Io…» feci per urlare, ma un’altra fitta mi spezzò il fiato nei polmoni.

    «Non agitarti!» sentenziò allarmata, avventandosi su di me. Respirai a fondo, aspettando che quel dolore si affievolisse. Emma mi spostava le ciocche di capelli dal viso, accarezzandomi la faccia. «Bambina mia, ti prego, sii paziente» mi scongiurò.

    «Ha ragione tua madre» sentenziò la sua voce profonda.

    In un solo attimo, sparì tutto quanto. L’odio, la rabbia, il dolore, lo sconforto. Le endorfine entrarono subito in circolo, facendomi fremere il cuore. Aprii gli occhi ed era lì, sull’uscio della porta con una mano in tasca e l’altra che brandiva un mazzo di fiori. Me ne portava uno ogni giorno. Vestito nel suo impeccabile completo nero, Alessandro mi scrutava con cipiglio divertito ma allo stesso tempo teso. Fece qualche passo nella stanza, arrivando di fianco a mia madre. Le avvolse le spalle con un braccio, baciandola dolcemente sulla tempia. Dovevo ancora abituarmi a quella visione di Emma e Alex così in confidenza. «Come stai?» le chiese premuroso.

    La donna mi guardò esasperata, espirando pesantemente. «Starei meglio se non avessi una figlia così cocciuta» borbottò arrendevole.

    I suoi occhi illuminati da quella scintilla si fissarono su di me. «Bisogna farci il callo, Emma. È anche per questo che l’amiamo, no?» domandò retorico.

    Gli poggiò una mano sul petto, guardandomi con aria amorevole. «Vado a prenderti qualcosa da mangiare» ci congedò, uscendo mestamente dalla stanza.

    Si sedette accanto a me, baciandomi dolcemente le labbra. «Come sta la mia guerriera, oggi?» sussurrò ad un palmo dal mio naso.

    Inspirai a pieni polmoni quel profumo che era come una boccata d’aria fresca per me. «Adesso benissimo» risposi sollevata. Gli passai una mano sulla mascella contornata dalla peluria. «Mi piace come ti sta questa barba» dissi, sorridendo.

    Il suo sguardo dolorante. Mi diede un bacio sul dorso, stringendolo tra le sue dita. «Non hai idea di quanto mi manchi piccola».

    Gli carezzai la massa arruffata di capelli, osservando attentamente il suo volto. «Sei stanco?» domandai premurosa.

    Scosse lentamente la testa. «Distrutto» borbottò. «Non riesco a chiudere occhio senza saperti al mio fianco». Calò un silenzio intenso, rotto solo dallo scroscio della pioggia battente sui vetri.

    Quel pensiero mi balenò in mente come un fulmine. Le lacrime arrivarono agli occhi. Li alzai al cielo per non far cadere la rugiada sulle guance. «L’ho sognata di nuovo, Alex» mormorai con la voce spezzata. «Sarebbe stata una bambina bellissima» sussurrai. «Avrebbe avuto il tuo stesso bellissimo sorriso» piagnucolai sforzandomi di sorridere.

    Poggiò le labbra sulla fronte, attirandomi poi al suo petto profumato mentre i singhiozzi facevano sussultare il cuore. «Piccola, ti prego, non riesco a vederti così».

    Mi risollevai dalla sua stretta, passandomi la mano sulle guance. «Se solo non fossi stata così stupida… io…» balbettai.

    «Ehi» mi richiamò pacato, afferrandomi il volto tra le mani. «Eri esasperata. Chiunque avrebbe reagito in quel modo» provò a rassicurami.

    «Alex, ero incinta!» esclamai straziata. «Ero incinta e ho pensato come una stupida di poter affrontare quella psicopatica senza tener conto dei rischi che correvo!». Il suo volto si distorse in una smorfia di rammarico. «Anche se non avesse avuto un coltello, che cosa avrei potuto fare, Alex? Cosa avrei potuto fare per fermarla? Combattere? Prenderla a pugni sapendo di mettere a rischio la vita del mio bambino?».

    «Aurora, ascoltami attentamente» m’incalzò serio. «Adesso basta piangersi addosso» commentò atono. «Tra qualche giorno uscirai da qui e potremmo riprendere la nostra vita insieme» continuò, rigirando tra le dita l’anello che stava al mio anulare. Chinò lo sguardo su quello, aprendosi a quel sorriso mozzafiato. «Io ti sposerò, ti amerò ogni giorno sempre di più e ci costruiremo una famiglia tutta nostra, Aurora». Chiusi gli occhi con le lacrime che scorsero nuovamente sulle guance. «Faremo tanti bellissimi bambini e tu mi renderai l’uomo più felice del mondo». Sorrisi annuendo. «Piccola» chiamò ancora, ponendomi un dito sotto al mento e catturando tutta la mia attenzione. «Per ogni singolo giorno della nostra vita insieme, io non smetterò mai di essere al tuo fianco».

    Il dottor Cattaneo scrutava attentamente il referto. Gli occhietti cerulei nascosti da quelle lenti a mezzaluna poggiate sul naso aquilino. La bocca dalle labbra sottili si storceva in qualche smorfia emblematica. Il respiro regolare ma pesante, riempiva il silenzio di quella stanza e io scalpitavo al solo pensiero di sentirmi dire quelle parole, che non tardarono ad arrivare.

    «I valori sono tornati a posto» sentenziò, alzando lo sguardo su di me. «Il livello di emoglobina è stabile e l’infezione è guarita del tutto».

    L’esile mano di mia madre mi strinse calorosamente il braccio. «Quindi posso uscire?» domandai concitata.

    Cattaneo sorrise, annotando qualcosa sulla cartellina che ripose appesa alla sbarra, poggiandosi su quella con le mani.

    «Al massimo due giorni e lei sarà fuori di qui. Diamo ancora del tempo alla ferita» rispose calmo. «Posso vedere?» chiese avvicinandosi a me. Sospirando, tirai su la maglietta, scoprendo la benda leggermente macchiata da una chiazza marroncina. Si chinò sul mio fianco, sollevando il pezzo di garza, lentamente. Qualche lamella di dolore mi bruciò la pelle. Il poco sangue uscito si era coagulato contro la benda. «Mmh» mugugnò osservandola crucciato. «I punti sono quasi guariti, ma non mi piace ancora questa fuoriuscita di sangue» commentò laconico. Si sollevò, prendendo qualche medicinale dal carrellino accanto a lui. «Meglio curarla ancora un po’. Le prescrivo dei coagulanti e antidolorifici una volta uscita di qui, ma dovrà seguire attentamente la ricetta, altrimenti non guarirà in fretta».

    Sospirai decisa, guardando quel buco legato con dei punti che mi perforava la pelle. «Farò di tutto per guarire al più presto dottore» mormorai decisa.

    Capitolo 2

    Respirare quell’aria fresca. Vedere con i miei occhi il cielo, seppur plumbeo, senza nessuna patina di vetro davanti. Sentire quei suoni, il rumore del traffico, il canto libero degli uccellini che preannunciavano l’arrivo dell’estate. Quella sensazione di libertà che mi aiutò a rilassarmi. Nelle ultime quarantott’ore, mi ero sentita prigioniera di quella clinica privata. A volte sentivo mancare il respiro e avevo come l’impressione che quell’ampia stanza fosse grande quanto una briciola. Niente più mura, niente più infermiere dal sorriso fin troppo tirato e finto, niente più pappette disgustose per colazione e pranzi a base di pesce e verdure bollite. Finalmente ero libera.

    Tra le sue braccia, era tutto decisamente più bello. Era entrato in ospedale a passo spedito. Non aveva accettato nessun tipo di aiuto, né tanto meno di trasportarmi con la carrozzina. Mi aveva caricata in braccio come faceva sempre. Aveva preso la borsa con i miei vestiti e i miei medicinali ed era uscito dall’ospedale, ignorando le raccomandazioni che l’infermiera ci urlava dietro.

    «Stai bene, piccola?» sussurrò al mio orecchio quando eravamo ormai vicini alla macchina. Nascosi il viso tra i suoi capelli profumati e mugugnai per affermare. Stavo bene eccome, ero al settimo cielo stretta al suo corpo. «Ti faccio male?» mi chiese timoroso. Scossi la testa. Sorrise, guardando davanti a sé. «Pensi di parlare e dirmi qualcosa?» domandò divertito.

    Sollevai la testa dalla sua spalla, scrutando ammaliata quel profilo divino. «Mi sei mancato tantissimo» mormorai sognante.

    Voltò lo sguardo verso me, baciandomi la punta del naso. «Mi sei mancata anche tu piccola» replicò dolcemente, uccidendomi ancora con quel suo sorriso incredibile.

    Aprì il portellone della BMW nera, adagiandomi con cura sul sedile del passeggero. Si chinò su di me allacciandomi la cintura di sicurezza e, quando quella fu a posto, mi afferrò il viso tra le mani, la sua lingua intrecciò la mia in un movimento lento e sensuale. Il suo profumo si insinuò immediatamente in ogni più remoto meandro della mia anima che, solo in quel momento, poté dire di essere davvero rinata. Strinsi i suoi capelli tra le dita, spingendo la sua nuca contro me. Il suo sapore dolciastro ridiede vita alle mie papille gustative e i polmoni respiravano a pieno quella dolce fragranza di muschio selvatico. Le sue mani erano come ferri roventi che solcavano la mia pelle fremente di avere a pieno il suo corpo e la testa non mandava più nessun impulso ai nervi, se non quello di baciarlo con quel trasporto che speravo mi portasse lontano da lì, anche solo per un istante.

    Lentamente, la sua lingua si ritrasse, rimanendo a pochi centimetri dalla punta del naso sulla quale si strofinò. «Mi è mancato da impazzire questo, piccola» sussurrò con gli occhi ancora chiusi. «E mi manca ancora un’altra cosa…» ringhiò, sollevandomi la maglietta sul ventre.

    Le sue labbra scesero sull’incavo nel collo, provocandomi un lungo brivido che percorse tutta la spina dorsale fino ad intaccare il cervello. «Alex…» sussurrai a fatica. Detestavo allontanarlo, soprattutto dopo tutto quel tempo in cui non potevo che accontentarmi di un casto bacio sulle labbra. «…Non possiamo…» continuai. Con un lamento, mi guardò in volto. Presi fiato per qualche secondo, scrutando quei suoi lineamenti contorti dal desiderio represso. «Non posso fare troppi sforzi o rischio di rompere i punti e riaprire la ferita» mugugnai contrariata.

    Chinò il capo, sospirando pesantemente. «Quanto dovrebbe durare questa convalescenza?» brontolò seccato, scansandomi un ginocchio dal sedile per potersi appoggiare.

    Feci spallucce. «Il tempo che si rimargini» esclamai, abbandonandomi sullo schienale. «Probabilmente qualche settimana ancora».

    Strabuzzò gli occhi. «Qualche settimana?» sbottò inorridito. Risi di fronte a quella sua reazione a mio avviso un po’ esagerata, mentre lui scuoteva la testa con lo sguardo perso nel vuoto. «Lo sai che rischierò di impazzire vero?». Tornai lentamente seria e così anche lui. Avvolse una guancia con la mano, carezzando dolcemente la pelle. «Non sai quanta gioia abbia provato nel sentir dire dai dottori che eri fuori pericolo». Sorrisi, osservando ammaliata quella visione celestiale. «Mi sono sentito morire quando sei caduta tra le mie braccia piena di…». S’interruppe, strizzando gli occhi come se stesse provando dolore fisico.

    «Alex, sono qui» lo rassicurai. Le sue iridi buie furono ancora su di me. «Sono ancora qui» ripetei sollevando gli angoli della bocca. «Non ti libererai tanto facilmente di me».

    «L’unica cosa che vorrei è essere ammanettato per tutta l’eternità alla tua bella e unica anima, piccola». Quello sguardo mi stava facendo sciogliere le viscere. «Io sarei un uomo inutile senza di te, Aurora. »

    L’auto procedeva a velocità moderata sul vialetto sterrato mentre una fila di cipressi ci sfrecciava accanto, creando dei giochi di luci e ombre con i timidi raggi del sole che stavano per nascondersi dietro le colline verdeggianti. La mia nuova casa, la nuova villetta nella quale io e Alessandro avremmo iniziato un nuovo capitolo della nostra vita. Distava qualche chilometro in più dalla città, ma questo non mi preoccupava affatto considerando che per le prime settimane di convalescenza non mi sarei potuta muovere da casa per andare al lavoro. Quando la BMW svoltò in un’altra stradina molto più piccola e dal terreno più instabile, la vidi sbucare davanti ai miei occhi. Mi cadde la mascella sulle ginocchia davanti a quella visione mozzafiato. Mi sembrava di essere stata chiara: non volevo nulla di mastodontico. Non una casa dispersiva all’interno della quale mi sarei potuta perdere o peggio, dentro la quale qualcuno si sarebbe potuto tranquillamente nascondere pronto a saltarmi alla giugulare. Già detestavo il fatto che Alinovi non avesse accettato il mio desiderio di rimanere a vivere in città. Lui voleva essere immerso nel silenzio e nella pace e la città non avrebbe fatto al suo caso. Ero scesa a compromessi e gli avevo permesso di prendere una villetta lontano dal caos. Quella che man a mano che ci avvicinavamo diventava sempre più grande, non rispecchiava sicuramente i miei canoni.

    Mi voltai a guardarlo con aria cagnesca mentre lui osservava soddisfatto e pieno di sé quella gigantesca villa a soli due piani, ma ampia quanto due campi da calcio.

    «Avevo detto niente case giganti, Alex» lo redarguii seccata.

    «Beh, non è molto grande!» si difese, incassandosi nelle spalle.

    «Mi prendi in giro?» esclamai sbigottita. «Alex, quella casa sarà grossa quanto un palazzetto sportivo!» sbottai angosciata. «Non amavo stare da sola nella tua villa a Compiano, figuriamoci stare dentro questa reggia!» mi lamentai.

    La sua mano si poggiò sopra al ginocchio. «Piccola, non sarai mai da sola» mi rassicurò. «Ho assunto una ventina di persone che si prenderanno cura della casa e che ti ronzeranno sempre intorno»

    Mi si gelò il sangue nelle vene. «Alex, avremmo la servitù?» domandai inorridita.

    Poggiò la testa sullo schienale, ridendo divertito. «Non avremo gli schiavi, piccola» disse disinvolto. «Sono dei semplici domestici che terranno la casa in ordine. Anche i miei genitori li hanno e per questo li consideri delle brutte persone?» domandò, inarcando un sopracciglio.

    Sbuffai, stropicciandomi la faccia con le mani. «No, certo. Ma Alex io voglio poter cucinare con le mie mani, fare la lavatrice da sola e pulire casa senza che nessuno mi stia attaccato alle caviglie ripassando dove ho già pulito!». Sospirò pesantemente. «Credo che tu abbia esagerato un pochino».

    «Aurora potrai fare tutto quello che vorrai. Pulire, cucinare, stirare e lucidare l’argenteria. Nessuno te lo vieterà. Ma ammetterai che con i nostri lavori abbiamo ben poco tempo per badare ad una casa, soprattutto se di queste dimensioni». Grattai la gola per sottolineare il mio disappunto. Prese la mia mano e se la portò alle labbra, baciando dolcemente il dorso. «Piccola se possiamo permettercelo, perché non avere un piccolo aiuto così da avere del tempo più per noi?». Scossi la testa, guardando fuori dal finestrino il paesaggio sull’imbrunire. «Ehi» mi richiamò, facendomi voltare verso quello. «Sei appena uscita dall’ospedale, Aurora. Concediti un po’ di relax per qualche tempo e stacca un po’ la spina da tutto questo».

    «Fosse facile» mugugnai guardandomi le ginocchia. «E come torneranno a casa questi poveracci che hai assunto? Affitterai un pulmino per riaccompagnarli a casa?» lo schernii.

    «No, affatto» rispose, piegando gli angoli della bocca verso il basso. «Lo vedi quel cottage lì?» disse, puntando il dito in qualche posto alla mia destra. Seguii la direzione, vedendo in mezzo al prato verde, una struttura alta due piani e completamente tinteggiata di rosa salmone. «Quella è casa loro. Vivranno lì quando non saranno in servizio» continuò neutrale, come se stesse parlando della cosa più normale del mondo.

    Io non sapevo se ridere o piangere. Non solo avrei avuto un mini esercito di domestici pronti a scattare alla mia parola, ma li avrei pure avuti come vicini di casa, privandoli di ogni loro legame affettivo al di fuori del lavoro.

    «Ma che cazzo…» brontolai, abbandonandomi sullo schienale già distrutta.

    Ora che l’imponente villa era vicina, potei scrutare attentamente i dettagli di quella. Si ergeva su una piccola collinetta dal prato curato e verde acceso. Davanti alla facciata centrale campava una fontana che zampillava acqua dalla bocca di un putto alato. I due piani e l’intero perimetro della villa erano in mattone cotto color beige, con un tetto in testa di moro e spiovente. Due grandi vetrate dominavano la facciata principale, avrei sicuramente avuto dei paesaggi mozzafiato dal salotto. Un sentiero ciottolato scosceso faceva il giro intorno alla fontana, portando dritto davanti alla grande porta d’ingresso. Con il naso schiacciato contro il vetro, rimasi a fissare quella gigantesca casa che sarebbe stata mia, per sempre.

    «Vuoi che ti prenda in braccio?» mi chiese premuroso ma io feci un segno di diniego con la testa.

    Sorreggeva già il mio borsone in mano e mi scrutava con cipiglio allegro. Mi tese una mano, invitandomi con un cenno della testa a raggiungerlo per entrare nella nostra nuova villa. Sospirando, sganciai la cintura e scesi dalla macchina, legandomi con il braccio intorno ai suoi fianchi. Salimmo insieme sette gradini in pietra che portavano alla porta in legno massiccio. Frugò in tasca per estrarne un mazzo di chiavi tintinnanti che mi sventolò sotto al naso prima di infilarle nella toppa. Fece scattare la serratura, ma senza aprire la porta. Si voltò verso me, guardandomi con quel suo sorriso angelico.

    «Sei pronta?» domandò entusiasta.

    Mugugnai un verso, tenendo gli occhi fissi sulla superficie, aspettando che mi si spalancasse davanti al naso. Quella si aprì sotto la spinta dell’imprenditore, ma non rimasi senza fiato per l’enorme, gigantesco salotto.

    «Sorpresa!» esclamarono una quindicina di persone dentro la casa non appena mi videro comparire sull’uscio della porta.

    Mi si spezzò il respiro in gola a vedere tutte quelle persone: i miei genitori e mio fratello. La famiglia Alinovi al completo con una nuova entrata, Rachele, la presunta nuova fidanzata di Alessio. Carmen, Rudy, Elisey ed Emanuele tutto abbronzato e fresco di ritorno dal viaggio di nozze insieme alla neo sposina Roberta, bella come sempre. E loro, le mie due incredibili e inseparabili amiche del cuore con i loro compagni. Mi portai una mano alla bocca per contenere il grido di spavento che mi fece sussultare il cuore e restai lì, imbambolata a guardare con gli occhi pieni di lacrime le persone in assoluto più importanti della mia vita. La sua mano mi cinse il fianco.

    «Benvenuta e ben tornata a casa, piccola» mormorò con fare suadente, appena in tempo prima che quella valanga umana si avvicinasse a me.

    «La mia dolce Aurora!» squittì Angelica, fiondandosi tra le mie braccia con forse troppa veemenza, dato che sentii una fitta lancinante dal basso addome. Si ritrasse subito. «Scusami, ti ho fatto male?» domandò allarmata.

    «No…» mormorai con la voce strozzata per reprimere quell’urlo straziante che bruciava tra le corde vocali. «Sto bene, Angelica, non ti preoccupare» cercai di rassicurarla, ma senza grandi risultati. Angelica mi fissava atterrita, con le mani che attorniavano il viso. Sospirai, mi misi eretta e tolsi le dita dalla ferita. «Sto bene!» canticchiai allegra mentre i punti mi stavano mandando a fuoco le viscere.

    L’abbracciai più delicatamente, sentendo quel profumo che mi ricordò tanto il suo. Toccai con mano quei ricci ben definiti e curati, avendo la sensazione di accarezzare ancora quei capelli bellissimi. La sua pelle era candida e liscia, proprio come quella della gemella e le lacrime mi giunsero immediatamente agli occhi. Come avrei voluto poter stringere anche lei tra le mie braccia.

    Quello che mi toccò di più il cuore, fu il grande omone alle spalle di Angelica che mi scrutava sull’orlo di un pianto ininterrotto. Sciolsi lentamente la stretta, fissandomi sui grandi e lucidi occhi cerulei di Gregoire. «Papà» mormorai con la voce spezzata.

    «La mia principessa» replicò con un italiano poco ortodosso, avvolgendomi le spalle con le sue spesse braccia e lasciandosi finalmente andare a quel pianto liberatorio.

    Non era mai venuto in ospedale, ma non me l’ero presa. Aveva un motivo ben preciso: la nosocomefobia era una patologia più unica che rara e chi poteva soffrirne se non il mio incredibile e speciale padre? Aveva il terrore degli ospedali, non riusciva a entrarci senza avere una crisi isterica o quant’altro. Me lo ricordo bene la prima e unica volta in cui lo avevo visto entrare in un reparto quando mio fratello era stato operato di appendicite. Era fuori di sé, quasi non lo riconoscevo più. Sapevo che era in apprensione per me, mia madre mi aveva raccontato che, da quando era successo il fattaccio, non era riuscito più a chiudere occhio. Solo quando sarei uscita da quel posto avrebbe potuto dormire sogni tranquilli e adesso, il grosso e dolce Gregoire, poteva tirare un sospiro di sollievo.

    «Stai bene, bambina?» domandò afferrandomi per le spalle e guardandomi con espressione gioiosa in volto. Annuii asciugandomi le lacrime sulle guance. «Non sai quanto sia felice di vederti, mia piccola Aurora» esclamò sollevato in francese. Il suo italiano faceva davvero schifo, non sapevo come facesse a comunicare con mia madre. «Guarda chi è rimasto qui?» disse poi, scostandosi per mostrarmi le spesse e muscolose spalle di Federico fremere sotto i singhiozzi.

    «Tu non sai stare lontana dai guai, eh?» mi redarguì sorridendo e dandomi un buffetto sulla guancia. Mi prese il viso tra le mani e mi baciò a lungo la guancia. «Non hai idea dello spavento che ci hai fatto prendere, teppistella» sussurrò al mio orecchio.

    «Ma sono ancora qui» risposi, stringendo i suoi duri tricipiti tra le mani. «Non sarà facile mettermi fuori gioco».

    Mi sorrise ancora, passandomi la mano tra i capelli e scompigliandomi le ciocche scure, quando il mio sguardo si posò nuovamente verso di loro, in un angolo della sala. Il volto zuppo di lacrime e con i fazzoletti che cercavano di tamponare il trucco sbavato. Mi avvicinai alle mie due incorreggibili amiche del cuore, tuffandomi, senza troppa foga, tra di loro.

    «Ci hai fatto prendere un bello spavento, lo sai?» disse la francesina.

    «Ho pregato così tanto per te, Aurora» la incalzò Isabel che non poteva stringermi forte solamente per l’enorme pancione che stava tra noi.

    Abbassai lo sguardo su quello e un improvviso magone mi assalì i nervi, facendomi girare la testa. Barcollai un po’ all’indietro, ma le sue mani mi afferrarono prontamente. «Piccola siediti» mi ordinò in quel modo autoritario ma allo stesso tempo pacato che solamente lui sapeva fare. Mi accompagnò lentamente all’immenso divano circolare che dominava l’intera stanza, aiutandomi ad adagiarmi su quello sotto lo sguardo apprensivo di tutti. «Meglio se ti godi la festa da qui» sentenziò sorridente, ma capivo che dentro stava morendo dall’angoscia nel vedermi così fragile e debole.

    Dovevo a tutti i costi rimettermi in sesto. Non potevo recare tutte quelle ansie e preoccupazioni all’uomo che, in quel momento sorrideva, ma che aveva una tempesta dentro, perché non sapeva più che

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