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Ebook623 pages12 hours

Face Mask

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Una storia di riscatto e di vite parallele.

Mattia è un professionista del football americano che nasce ad Aviano ma, dopo il trasferimento della sua famiglia, cresce nel polveroso Texas, affrontando pregiudizi per le sue origini e pressioni per uno sport che all’inizio non sente suo.

Emma è una fotografa affermata nel mondo della moda e dell’arte, che nasce nella stessa cittadina in provincia di Pordenone ma decide di trasferirsi prima a Roma e poi a New York per studiare. Li affronterà tutti quei fantasmi che la perseguitano da quando era bambina.

Tra l’Italia e gli Stati Uniti, nell’arco di quindici anni, cresceranno professionalmente arrivando al successo con passione e determinazione fino a prendersi la loro rivincita. Due ragazzi che celando le loro anime sensibili dietro ad una maschera, incroceranno le loro vite, si conosceranno, si scontreranno fin quasi a distruggersi, prima di far cadere quella stessa maschera.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateOct 31, 2018
ISBN9788827852149
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    Face Mask - DEBORAH VIDALI

    2018

    CAPITOLO UNO

    Prima mostra personale

    26 giugno 2015 – New York

    Emma arrivò a Manhattan tra la 24 West e la 57th Street con un Uber e la galleria d’arte era lì, per lei spaventosa, ad aspettarla, per farla stare questa volta dall’altra parte dell’obiettivo. Entrò nell’edificio e confondendosi tra un gruppo di persone vestite elegantemente, strinse i denti e si incamminò verso gli spazi posti vicino al giardino interno. L’emozione le ribolliva nel petto. Si guardò ad uno specchio che, posizionato in modo strategico, faceva sembrare quel corridoio di passaggio ancora più grande, e tutte le sue insicurezze ritornarono a galla. Non importava cosa  diceva a se stessa, quella stupida vergogna del cazzo, quegli anni di gelido isolamento, non sembravano abbandonarla. Non importava che ora riuscisse ad attrarre i ragazzi. Rimaneva quella a non essere mai stata baciata fino a quando era andata alle superiori.  Non importava sapesse di essere intelligente o di avere degli amici che la supportavano. Sotto sotto, era ancora quella ragazza. Cazzo! Non sarebbe riuscita a respirare quando le avrebbero puntato i riflettori addosso. Perché lo avrebbero visto. Lo avrebbero visto tutti che era ancora quella ragazza grassottella che non riusciva a inserirsi.

    Poi si concentrò e il suo riflesso la fissò con aria di sfida, come sempre.

    Francy le corse incontro non appena si affacciò alla sala, prima che la hostess le chiedesse l’invito.

    A parte pochi invitati, nessuno conosceva il volto di Emma perché aveva sempre preferito mantenere l’anonimato e parlare attraverso le sue immagini. Ora però era arrivato il momento di uscire dall’ombra.

    La sala era molto grande, illuminata soffusamente e con luci artificiali che andavano a colpire, secondo un preciso studio di illuminotecnica, le fotografie posizionate con cura. Al centro di quella prima stanza c’era l’immagine di una bambina.

    Francy sembrava più una ragazzina eccitata che la sua agente. Sembrava più emozionata di lei ed Emma provò un’ondata di affetto.

    Si lasciò guidare da lei, verso quell’immagine. Ricordava quella foto, l’aveva scattata un pomeriggio di primavera mentre camminando a Williamsburg era rimasta incantata da quello che aveva visto. Un bimba di non più di quattro o cinque anni era seduta sul marciapiede polveroso, con dei vestiti sgualciti e sporchi, i capelli scarmigliati e una sbucciatura sul ginocchio. Ma sul suo viso c’era un’espressione di pura meraviglia mentre guardava il piccolo fiore che aveva colto, nato tra le crepe dell’asfalto. Il suo cuore, in quel momento, si era gonfiato, mentre in ginocchio catturava quell’attimo così vero.

    Alcune persone radunate lì intorno stavano osservando l’immagine. Il cuore le batteva così forte che sembrava scuotere la sala e il suo contenuto. Francy scivolò leggera verso l’uomo che sembrava più preso da quella fotografia, allungò una mano affusolata e gli toccò la manica.

    Fece scivolare l’altra mano in quella di Emma mentre il signor Rouche si girò verso di loro. Aveva capelli argentei lisciati all’indietro, un volto interessante, di corporatura robusta e uno smoking nero che gli stava a pennello. Parve sorpreso dalla presentazione, e quando il suo sguardo incrociò quello di Emma la sua bocca si curvò in un sorriso.

    Lei si sentì avvampare e Francy scoppiò nella sua tipica risata, limpida e argentina.

    Emma decise di assumere l’espressione impassibile che aveva sempre quando non sapeva come comportarsi.

    Il signor Rouche alzò il bicchiere di liquido chiaro dal quale stava bevendo e ne buttò giù un sorso, pensieroso.

    La sua amica e agente si rivolse di nuovo al signor Rouche e lei si chiese di sfuggita se si chiamasse Xavier come il professore degli X-man. Sembrava tipo da riuscire a leggerle nella mente.

    Francy continuò:

    Trasudava sicurezza ed Emma avrebbe voluto tapparle la bocca.

    Francy non ebbe un attimo di esitazione.

    Il signor Rouche aveva un profumo speziato, intenso ma non fastidioso, sicuramente costosissimo. La prese sottobraccio e si avvicinarono verso l’ingrandimento della foto successiva. Forse quei modi cortesi erano una prerogativa degli uomini illustri o forse degli uomini ricchi e colti e lei aveva poca esperienza con entrambe le categorie. Camminava al suo fianco, alla disperata ricerca di qualcosa di intelligente da dire. All’improvviso si rese conto che il signor Rouche non si aspettava nessuna battuta arguta, ma era profondamente assorto nella contemplazione dell’immagine che aveva davanti.

    Solo allora si accorse dell’opera che stava guardando.

    Emarginata era posizionata su un cavalletto nero e l’illuminazione metteva in risalto ancora di più quel gioco di chiaroscuri che caratterizzava l’immagine e che pareva uscire dalla sua cornice a voler dire qualcosa.

    Come un flashback le ritornò in mente la giornata in cui quell’immagine era stata fermata nel tempo. Si ricordò di quanto determinata fosse stata a trovare uno scatto.

    Era ben consapevole che Francy non capisse nulla dei suoi discorsi ma non importava. Voleva andare a Hoboken perché da quando era arrivata a New York non c’era mai stata e voleva farlo quel giorno; era come se una vocina l’avesse spinta a farlo prima di partire per Londra dove sarebbe rimasta per una settimana.

    Sarebbe andata a far visita ai suoi genitori che non vedeva ormai da almeno quattro mesi. Ma prima, aveva bisogno di uno scatto che facesse da apripista per la sua mostra personale. Voleva lo scatto che avrebbe lasciato tutti bocca aperta.

    Collaborava già come freelance con più di un giornale e anche con due agenzie pubblicitarie di rilievo. Il suo nome ormai era una garanzia; era professionale, puntuale, capiva al volo i bisogni di chi le commissionava un lavoro e per questo era molto ricercata. Ovviamente ne era felice. Reputazione, denaro, e che il suo nome fosse tra i più conosciuti nel mondo della fotografia pubblicitaria e di moda era appagante. Ma voleva di più. Voleva che la gente vedesse quello che lei vedeva attraverso l’obiettivo. Non scenette preconfezionate, ma vita vera. Emozioni vere.

    Ripensare a come aveva iniziato, le faceva venire i brividi. Aveva sempre pensato che nella vita molte cose, involontariamente, le avrebbe dimenticate e sapere che con uno scatto avrebbe potuto congelarle esattamente com’erano, l’aveva resa e continuava a renderla felice. Sarebbe stato ancora più bello se qualcuno avesse inventato un qualcosa che nelle foto intrappolasse anche i suoni, gli odori, le lacrime, le risate, l’amore. Tutto in uno scatto, tutto fermo lì, per sempre.

    Aveva camminato lungo la riva occidentale del fiume Hudson da dove poter ammirare la splendida vista sullo skyline di Manhattan, promettendosi di ritornare la sera perché le luci della città sul fiume sarebbero state un perfetto connubio di colori. Era arrivata finalmente nel New Jersey, stato che da sempre era l’emblema dell’immigrazione italiana negli Stati Uniti: infatti tra i circa 50.000 abitanti, una percentuale rilevante erano quelli di origine italiana. Bastava pensare che una delle più grandi voci italo-americane di sempre, Frank Sinatra, era nato in quella piccola comunità a ridosso della Grande Mela. Si era addentrata nei vicoli di una città visibilmente in festa e questo, paradossalmente al fatto che fosse la prima volta che la vedeva, l’aveva fatta sentire a casa. I marciapiedi pullulanti di persone che stavano festeggiando l’Hoboken Italian Festival e le strade con un viavai di pedoni e auto. Aveva preso il telefono per sentire i suoi genitori e confermare che di lì a qualche settimana si sarebbero rivisti. Ma, mentre era rimasta in attesa della voce di sua madre, il suo sguardo vagante e incuriosito si era  bloccato, letteralmente, su una ragazza che, semi nascosta dietro a un angolo, aveva schivato un gruppo di ragazzine. Loro erano appena uscite dalla famosa pasticceria di Buddy, il Boss delle torte, tutte molto ben vestite, magre, bionde con i capelli lunghi e le classiche voci da gallinelle viziate; mentre lei era rimasta lì, da sola, dentro ad un maglione sformato nonostante fosse settembre e la temperatura fosse mite, per nascondere tutti i chili di troppo. Pantaloni larghi, capelli scuri e un po’ spettinati e, mentre le guardava andarsene, ognuna con il proprio muffin tra le mani, sbocconcellando e ridendo in modo plateale, sulle sue guance erano scesi dei lacrimoni. Lo stomaco di Emma si era contratto, stringendosi talmente tanto da provocarle dolore e la nausea era cominciata a salire insieme a tantissime emozioni ormai sopite da tempo. Tutto era tornato a galla in un battito di ciglia: le derisioni, le prese in giro, le cattiverie, gli insulti, l’emarginazione di un tempo. Aveva messo il telefono in tasca e con un gesto spontaneo aveva afferrato la reflex che portava con sé. Aveva attraversato la strada cercando di non farsi notare, quasi senza badare alle auto, e si era messa all’angolo opposto in modo da poter guardare senza essere vista. Aveva scattato finché non si non si era accorta che la macchina aveva qualche problema, non riusciva più a mettere a fuoco. L’aveva scostata dalla faccia per controllare l’ottica, ma la sfocatura non era sparita; anche lei stava piangendo e i suoi occhi erano colmi di lacrime come quelli di quella ragazzina che in quel momento, era sparita. Emma si era guardata in giro per cercarla, avrebbe voluto consolarla, avrebbe voluto assicurarle che avrebbe potuto farcela, avrebbe voluto dirle di non mollare. Sicuramente sarebbe stata dura, difficile, tutta in salita, ma perseverando sarebbe riuscita ad uscire da quell’involucro che la soffocava, che la sotterrava, che la rendeva solo un impedimento da schivare. Avrebbe voluto prenderla per mano e confortarla ma… si era volatilizzata. Aveva controllato sul display della macchina per rendersi conto di non aver sognato, di averla vista davvero. Ed era lì, la sua immagine era lì. Con tutto il suo dolore. Alcuni capelli appiccicati alla faccia, bagnati dalle lacrime. Poi un altro scatto dove gli occhi erano scesi a guardare le sue forme. Un altro ancora a riguardare le ragazzine che continuavano a ridere. E un altro ad asciugarsi la faccia con la manica del maglione e poi un altro, mosso, sfocato, dove probabilmente lei se n’era andata ed Emma aveva singhiozzato.

    Aveva ripescato il cellulare, che evidentemente, mentre lei scattava aveva continuato la sua chiamata.

    Aveva trovato lo scatto giusto. Tutti quei sentimenti, tutte quelle emozioni, tutto quel dolore, sarebbero passati attraverso quelle immagini e chi le avesse guardate con attenzione avrebbe sentito, almeno in parte, quello che lei aveva provato, quello che lei aveva subito fino alla sua metamorfosi; o almeno lo sperava.

    Appena era arrivata a casa, in serata, si era buttata sotto la doccia, aveva indossato dei pantaloni in cotone leggero e una canotta. Aveva ordinato giapponese da Mister Zeng e messo tutte le foto fatte durante la giornata sulla memoria del computer e su tutti gli altri dispositivi a sua disposizione.

    Il fiume Hudson; il Pier C Park uno dei moli più recenti, una specie di piccola isola galleggiante con uno splendido panorama su Manhattan; il molo A dove era stato costruito un memoriale dedicato ai soldati americani salpati alla volta dell’Europa durante la seconda guerra mondiale; la stella in stile hollywoodiano in onore di Frank Sinatra davanti alla casa in cui era nato, erano stati i soggetti della sua Canon. Ma dopo aver fotografato quella ragazza, non aveva più fatto alcuno scatto, troppo sconvolta probabilmente da tutte le emozioni che aveva risvegliato. Aveva continuato a guardare quelle immagini e ogni volta che si concentrava su di lei, i suoi occhi diventavano lucidi.

    Era un’immagine forte, piena di angoscia. Ed in quel momento, in mezzo a tutta quella gente, per un attimo la vide con gli occhi degli altri e il respiro le si mozzò in gola. Non era solo la foto del viso di una ragazza in sovrappeso che, con le lacrime agli occhi, guardava verso il nulla; era sofferenza, era dolore. L’immagine era aperta all’interpretazione di ognuno, senza pensare per forza al significato che le lei le aveva attribuito, ma trasudava una forte emozione. Si era vista e rivista molte volte in quell’immagine, anche dopo la sua metamorfosi fisica. In fin dei conti, non era bastato perdere tutto il suo sovrappeso per cancellare anni di sguardi e commenti sprezzanti. Emma non disse nulla, ma guardò oltre, sperando che il signor Rouche passasse all’opera successiva.

    Lei sentì che la fissava e alzò gli occhi.

    Le rivolse un sorriso, che si sforzò di ricambiare. Sapeva che avrebbe dovuto parlargli della fotografia, venderla, vendere se stessa, ma non poteva. Non sapeva come fare. Solitamente i lavori le venivano commissionati e poi lei, semplicemente, portava le immagini tra cui venivano scelte quelle che avrebbe acquistato il committente.

    Seguì un silenzio imbarazzato. Alla fine fu lui a prendere la parola, salvando entrambi.

    Si sentì come scoperta, e tutto a un tratto avrebbe voluto sparire nell’ombra della stanza, da dove poter osservare senza essere osservata.

    Era al braccio di una persona che poteva essere enormemente utile alla sua carriera. O meglio, a quella parte della sua carriera che per lei voleva dire sentirsi finalmente realizzata e libera.

    La sua voce era tenera e gentile.

    Il cuore le batteva dolorosamente nel petto.

    E passarono oltre.

    La serata continuò in un turbine di abiti costosi e complimenti che le davano alla testa.

    Compiaciuta da tutte quelle attenzioni, passò da un mecenate entusiasta all’altro mentre Francy interpretò egregiamente il ruolo di chaperon.

    In un momento di pausa, tra un ospite e l’altro, Emma si ritrovò difronte all’immagine dove i soggetti erano una chiesa e un cimitero della campagna inglese. L’aveva intitolata Sacro e profano e benché le sue immagini non avessero spesso come soggetto il paesaggio, quella volta era stata attirata proprio dai colori di esso. Ricordava quella serie di scatti, fatta quando la sua mente e il suo cuore erano in subbuglio.

    L’anno precedente, dopo essere stata presente alla partita di football NFL che si era disputata a Londra, e dopo una serata e una nottata alquanto bizzarre, aveva deciso di prendersi un giorno per pensare…

    La strada si era snodata tranquilla tra vallate di cui non si scorgeva la fine e piccoli ponticelli in pietra. Il vento aveva soffiato intenso, frustando le chiome di eriche e ginestre, allacciandole insieme in un miscuglio di porpora e giallo che pareva uscire dal pennello di un impressionista. E poi c’era stato lui, il verde, che non era solo un colore, ma un insieme di forza e leggerezza, di pace e ardore, capace di cancellare in un istante ogni certezza. Perché di colpo non era più un misero sfondo su cui posare distrattamente lo sguardo prima di approdare a ben più intense bellezze. D’un tratto era lui il protagonista, il personaggio principale a cui il resto avrebbe fatto da contorno. Era brillante e insieme cupo, armonioso e delicato, eppure forte e irruento, come la vita che nascondeva. Emma non aveva mai visto un colore così. Immersa nella romantica bellezza della campagna inglese aveva attraversato decine di paesini, per lo più piccoli agglomerati di case disposte intorno ad una chiesa circondata da un prato puntellato di cupe lapidi inclinate. Aveva sentito come una sorta di strano misticismo nell’aria, come se sacro e profano in quei luoghi fossero tanto vicini da potersi toccare. Ed era stato tanto inquietante, quanto curioso. Perché nella sua mente ogni cosa doveva avere un ruolo, ogni posto una sua funzione e se prima di allora le era sembrato chiaro che la chiesa fosse un posto di speranza, a quel punto non riusciva a comprendere quale messaggio intrinseco dovessero invece portare quelle costruzioni alla gente del posto. Era come dire: pregate e abbiate fede, ma sappiate che prima o poi là sotto finirete. Era strano, e forse anche un pochino macabro e  il suo pensiero era rimasto sospeso tra sacro e profano.  Poco più tardi, nuvole minacciose avevano sovrastato ogni frammento di luce e un tuono era rimbombato nell’aria. Grosse nubi cariche di pioggia avevano raggiunto l’idilliaco paesaggio che stava attraversando, spinte da quello stesso terribile vento che l’aveva accolta all’arrivo. Una volta, aveva sentito dire da qualche parte, che in Inghilterra si potevano vivere tutte le stagioni in un sol giorno, tanta era la mutevolezza del clima. Aveva sbuffato, lanciando uno sguardo preoccupato all’orizzonte. Il verde brillante che solo qualche istante prima l’aveva affascinata si era trasformato in una grossa lingua grigio scuro che da ogni dove sembrava inseguirla, pronta a inghiottirla. Le ginestre e le eriche si erano dissolte e al loro posto avevano lasciato un leggero strato di vapore, che si levava sinistro nell’aria con sempre maggior insistenza. Aveva rallentato confusa, cercando di vedere qualcosa oltre la coltre di nebbia che intanto era salita dalla brughiera, e aveva capito che la sua era stata una scelta affrettata, per non dire assolutamente insensata. Noleggiare una vecchia macchina e inoltrarsi in posti di cui non aveva mai nemmeno sentito parlare, solamente per togliersi dalla testa quel giocatore di football, era senza alcun dubbio la sciocchezza più grande che avesse mai commesso. Certo, il pretesto di aver la possibilità di scattare delle immagini uniche in paesaggi mozzafiato era stata un’ottima scusa per non pensare al reale motivo che l’aveva fatta andare talmente su tutte le furie da aver bisogno di isolarsi dal mondo per almeno un giorno. Non era la prima volta che lo faceva, certo; prendere la sua Canon e partire per mete non stabilite, senza nessuno, solo per isolarsi e ritrovare la calma. Ma quella volta era stata veramente una scelta azzardata

    Certo era stato che quella gita avesse prodotto una serie di immagini molto belle e una, ora, era lì esposta, a ricordarle però, due occhi color dell’autunno; strati e strati di castano intenso che si fondeva al verde di foglie appassite, il tutto spruzzato da pulviscoli dorati. Due occhi che non potevano essere veri. Due occhi che doveva togliersi dalla mente.

    Verso la fine della serata, la sua amica si fermò e salutò qualcuno dall’altra parte della stanza, facendole segno di avvicinarsi. Le persone davanti a lei le impedivano la vista degli ultimi invitati appena entrati in sala.

    CAPITOLO DUE

    Una serata diversa

    26 giugno 2015 – New York

    Una cinquantina di persone affollavano gli ambienti della galleria, sparse tra il tavolo del buffet, i corridoi e le sale tappezzate di fotografie di varie dimensioni.

    Fitz non avrebbe voluto essere lì, non sapeva nemmeno di cosa si trattasse ma il suo amico e compagno di squadra Brock Heeney aveva organizzato quel week end lungo a New York e una serata a quattro. La donna di cui lui avrebbe dovuto essere cavaliere quella sera, aveva voluto partecipare a quell’evento. Quando erano arrivati, non l’aveva nemmeno lasciato vedere la locandina di presentazione e l’aveva tirato per un braccio attraverso l’ingresso della galleria. Sembrava fosse una mostra di fotografie e benché avrebbe potuto essere interessante, la sua mente era già proiettata alla preparazione per la stagione che sarebbe iniziata in agosto. Fitz aveva partecipato a tutti i Workout da aprile, anche se la riabilitazione fisica e il lavoro atletico della squadra, non erano stati sufficienti per lui e come sempre aveva preparato per se stesso una tabella aggiuntiva di allenamenti per potenza e agilità.

    Per fare un favore a Brock, che voleva portarsi a letto quella sventola con cui era arrivato, si era fatto sei ore di volo e aveva cancellato ben sette sessioni di allenamento e la cosa lo aveva infastidito parecchio. Neanche per una sua scopata cancellava gli allenamenti. Ma l’amico l’aveva sfinito di parole finché non aveva ceduto e tutto sommato la bambolina che aveva appesa al braccio avrebbe potuto essere un bel diversivo a fine serata.

    Così era lì, a nascondere dietro al suo smoking nero il fastidio e la noia che gli provocava essere in quella sala. Davanti a loro si stendeva un corridoio dalle pareti grigie, il pavimento in grandi piastrelle di gres color ardesia e due file di faretti al soffitto che gettavano la giusta luce sulle immagini appese alle pareti.

    Una bella ragazza, con un aderente abitino color crema, sorrise. Crissy allungò i quattro cartoncini, per loro due e per Brock e Noemi.

    Alla Goodman Gallery si inaugurava una mostra personale di una fotografa già molto conosciuta nel mondo pubblicitario e quella serata era riservata solo a personalità di spicco dell’arte newyorkese e noti collezionisti.

    Sulla destra era stato apparecchiato un lungo banco, dove si stendevano vassoi colmi di tartine, focaccine salate, stuzzichini multicolori e pasticcini di ogni genere. In un angolo troneggiava un’enorme boule piena di ghiaccio, irta di colli di bottiglie.

    Molti degli invitati si girarono a guardare lui e il suo compagno di squadra, additandoli di nascosto e spettegolando sulla loro presenza in quell’ambiente che non sembrava il loro. Ma nessuno osò essere scortese o invadente, anche se era chiaro che li avessero riconosciuti, anche lì a New York.

    Se voleva arrivare a fine serata senza farsi seghe mentali aveva bisogno di un po’ di alcool. La settimana successiva si sarebbe allenato il doppio per smaltire quegli sgarri.

    Fitz riconobbe la fascetta del Vielles vignes Francaises di Bollinger su uno dei colli emersi dal ghiaccio.

    Prese le coppe dalle sue mani e ne porse una ciascuno.

    Le bollicine dello champagne sprizzarono il loro raffinato gusto asciutto sulla lingua di Fitz.

    Una voce squillante si sollevò dall’agglomerato di persone lì vicino. Una bionda minuta con una maglia tirata sul seno, innaturalmente alto, spuntò tra un uomo in tight e un’indiana che indossava un sari a fiori blu e azzurri.

    Le due donne sbaciucchiarono l’aria intorno alle reciproche guance.

    Fitz sollevò le labbra in un sorriso calcolato che non arrivava agli occhi e le porse la mano. Si portò il dorso alle labbra e il rossore marezzò la generosa scollatura di Michelle.

    Un leggero tremito rispose alla nota seduttiva.

    Brock si mise a ridere.

    La biondina guardò Brock e poi rivolse lo sguardo nuovamente verso di lui.

    Si era stufato di quell’esame.

    Lei non fece caso al suo tono e ridacchiò.

    Poi prese Crissy sottobraccio e si incamminarono lungo il percorso della mostra, le teste vicine per sussurrarsi chissà quali segreti. Fitz rimase alle loro spalle, un occhio alle persone in sala e uno sulle immagini. Non era mai stato ad una mostra di fotografia e non ne capiva abbastanza, ma il realismo di quegli scatti, l’intensità delle immagini lo stava catturando. Chi le aveva scattate doveva essere una persona sensibile, vera, viva. Un ingrandimento attirò il suo sguardo. Un uomo, con la maglia della squadra di football di Miami era seduto su uno dei seggiolini dello stadio, la testa fra le mani e lo sguardo perso, rivolto verso il campo. Come se avesse subìto lui una sconfitta. A cosa stava pensando? Forse che la vita sarebbe andata avanti lo stesso, vittoria o sconfitta che fosse? Oppure se tutta l’energia impiegata lì, in quei momenti, sarebbe servita un giorno a qualcosa di più concreto?

    Fitz aveva riconosciuto lo stadio, il campo, ricordava quella partita giocata a Wembley e il pensiero lo riportò lì. Avevano vinto alla grande perché tutti avevano dato il massimo e lui si era sentito un Dio. Forte, devastante, aggressivo… aveva messo fuori uso il loro quarterback con un’azione da manuale. Era stato potente come un autotreno e preciso e veloce come un laser. Ma quel ricordo lo riportava anche ad un sapore dolce e amaro. Se da un lato si era sentito un dominatore imbattibile, che dopo essersi scrollato di dosso un numero indefinito di corpi che aveva sopra, era esploso in un urlo di potenza che aveva teso ed esposto il suo corpo muscoloso ai compagni e al pubblico, quasi fosse un guerriero vincitore di una battaglia; dall’altro, quando era ritornato in sé e i suoi occhi erano ritornati normali, quando i suoni erano rientrati nelle sue orecchie e il suo naso era stato pizzicato dall’odore acre del sudore di più di venti uomini, aveva visto il giocatore a terra, che urlava per il dolore, con la gamba che formava un angolo innaturale perché l’osso si era spezzato, aveva provato un senso di colpa. In quel momento c’era stato Mattia sotto al casco, che però aveva subito sostituito con Fitz, il suo alter ego. Il miglior giocatore di difesa di tutta l’NFL; un uomo presuntuoso, borioso e arrogante.   

    Non avrebbe potuto essere diversamente, quello era il football.

    Quindi in quella mostra mancavano due foto, che erano invece appese in casa sua, ma presenti ben chiare nella sua mente.

    E allora dov’erano quegli occhi che somigliavano alle nocciole mature e al cioccolato? Quegli occhi che avevano saputo vedere oltre la maschera? Era forse possibile che fosse lei l’autrice? Nei messaggi e nelle mail che a volte si scrivevano non gli aveva detto nulla, ma perché? D'altronde lui non si era proprio interessato alla sua carriera. Erano stati altri i motivi che l’avevano spinto a mantenere quei contatti. Fitz cominciò a guardarsi intorno.

    Che cazzo di stereotipi pensò.

    Faceva comodo pensare che tutti i maschi fossero superficiali, lasciava aperta l’illusione di poterli manovrare con più facilità. Lui non era così, Crissy non poteva saperlo e non lo avrebbe scoperto mai. Quella sarebbe stata la prima e ultima volta in cui avrebbero condiviso qualcosa. O meglio l’unica volta in cui se la sarebbe scopata.

    Lui non era uno che si lasciava controllare, ne mettere sotto i piedi, lo aveva giurato a se stesso quando era diventato Fitz. Era lui il burattinaio, adesso, e gli altri danzavano al movimento delle sue dita. Qualche scatto più avanti erano esposte delle immagini femminili, perlopiù ballerine immortalate in dei vicoli che immaginava fossero a New York; ma nello scatto al centro della sala, una donna era seduta sui talloni, il busto riverso in avanti, la guancia su un pavimento di parquet e le mani intrecciate dietro alla schiena.

    L’opera meritava un altro sorso di campagne.

    Era una delle sue posizioni preferite: immobile, in attesa, sottomessa. I capelli neri erano stretti in una crocchia, il viso perfetto, le palpebre chiuse e l’espressione di chi si era persa in un sogno. Aveva un’idea precisa di chi avrebbe voluto mettere in quella posa. Seguì il profilo della donna accovacciata e la immaginò con un colore di capelli diverso, magari rasati corti, con una bocca disegnata, piena e succosa.

    Gli era rimasto un gusto amaro per quella storia, quelle labbra carnose e ardenti infestavano ancora i suoi sogni notturni.. La prima volta, dopo molto tempo, che aveva guardato una donna volendo scoprire di lei molto di più che il suo corpo.

    Non sarebbe stato troppo gentile quella notte con la sua accompagnatrice, doveva scaricare un po’ di quella frustrazione che gli faceva vedere fantasmi dietro lo scatto di un fotografo.

    Un luccichio attirò l’attenzione di Fitz verso sinistra. Un uomo distinto, dai numerosi capelli bianchi, si era fermato poco distante. La donna al suo fianco era vestita di verde, con dei dettagli d’argento che luccicavano sotto i faretti dell’illuminazione. Fitz notò le unghie corte e curate di quella mano appoggiata a quel braccio maschile, le morbide curve tentatrici del fondoschiena e un taglio corto di capelli castani con dei riflessi rossi. La coppia si voltò e per un attimo Fitz dimenticò di aver bisogno di ossigeno per sopravvivere. Non poteva essere! L’oggetto delle sue fantasie non poteva stare lì, davanti a lui, appesa al braccio di quel vecchio coglione vestito da pinguino. Fitz fece un futile tentativo di convincersi. Forse gli avevano messo dell’LSD nello champagne. Ma in realtà la sua vista era perfetta e l’italiana di Londra, con cui era riuscito solo a tenere una semplice corrispondenza, era ancora più abbagliante di quanto si ricordasse. Il semplice vestito, lungo fin sopra il ginocchio, con una decorazione in strass e perline dove confluivano le pieghe della stoffa, le abbracciava le curve perfette come le mani di un amante. I capelli erano ricresciuti un po’ dall’ultima volta che l’aveva vista. Era bella, quasi troppo. Bella da togliere il fiato.

    L’uomo rivolse un largo sorriso all’ accompagnatrice di Fitz.

    Lui le rivolse un sorriso mentre la sua compagna spostò lo sguardo sorpreso su Fitz.

    Sorpresa! pensò Fitz.

    Non mosse un muscolo e guardò divertito il colore chiaro della sua pelle diventare di un bel rosso acceso, mentre cercava di arrivare a patti con quell’incontro.

    Perché era sottobraccio a quel tizio?

    Emma allungò la mano verso di loro, spostando subito lo sguardo che era stato incatenato da Fitz.

    Sia Brock, che le altre due donne, le strinsero la mano congratulandosi per le immagini esposte e quando arrivò a lui il rossore si era impossessato sia del suo viso che del suo decolté. Allungò comunque la mano e prese quella di lui.

    Dopo l’ultima volta, quando aveva assaggiato le sue labbra,  più volte pensieri proibiti su di lei lo avevano fatto diventare duro, tanto da dover provvedere da solo a quelle dolorose erezioni. Neanche un adolescente arrapato sarebbe finito come lui, con quella donna che gli ronzava continuamente in testa e che non riusciva a togliersi dalla mente, per quanti sforzi facesse.

    Nessuna donna gli aveva mai fatto quell’effetto. Lui era abituato ad usarle le donne, a volte anche per scaricarsi, per divertirsi, per svuotarsi le palle e a nessuna aveva mai permesso di insinuarsi così sottopelle. Ma lei c’era riuscita e nonostante lui avesse continuato a scoparsene tante, a volte anche una diversa ogni sera, il viso che vedeva sempre, al posto di quello di tutte quelle donne, era quello di Emma.

    Era un doppio senso e lui sapeva che solo lei avrebbe compreso. Ma era anche un complimento sincero. Sembrava che tutte quelle immagini avessero un anima. Sembrava che fossero loro a guardarti e non viceversa. Sembrava parlassero, raccontando una storia che solo Emma era stata in grado di ascoltare e fissare in quelle fotografie. Ed era per quel motivo che guardare le foto aveva portato il pensiero su di lei prima ancora di conoscere chi le avesse scattate. Il suo inconscio era più attento di lui.

    Il complimento che le aveva fatto però, non pensava fosse andato a segno, vista l’espressione di lei. Cos’era? Paura, forse? Aveva paura di lui? O di se stessa? Oppure anche lei non era rimasta così indifferente a quello che era successo tra loro? In fondo in qualche mail erano arrivati anche al punto di scriversi che ci sarebbe potuta essere tra loro una storia di puro sesso, visto che entrambi non volevano legami. Ma lei, anche in quelle righe era sempre stata nebulosa, mai chiara. Cosa doveva pensare? Che preferisse una mummia ad un giovane maschio prestante?

    Fitz vide Emma fare un cenno di commiato e allontanarsi, sempre al braccio di quel vecchio, nella direzione opposta alla loro. Era ancora più bella di come la ricordava. Una bellezza molto diversa da quella delle donne che solitamente si portava a letto. Eppure sembrava avere dei segreti. Sembrava che la facciata nascondesse qualcosa che purtroppo, nemmeno nei loro due incontri, lui era riuscito a scoprire.

    Fitz continuò a seguire Emma con lo sguardo mentre si spostava tra la folla. I capelli corti di cui si scorgevano i riflessi sotto i faretti, la vita stretta che sfumava sui fianchi rotondi, il tacco alto e il cinturino argentato che stringeva la caviglia sottile. Si immaginò di toglierle quell’abito e di lasciarle solo le scarpe e gli orecchini e la risposta del suo corpo fu immediata.

    Il desiderio si irradiò nel basso ventre, premendo contro il jersey aderente dei boxer.

    Sei un idiota, Fitz si disse, stringendo i denti.

    Non finiva lì.

    Una cosa lo mandava in bestia: essere quello troncato, messo da parte, trattato quasi con sufficienza nei messaggi. La bella italiana avrebbe sentito ancora parlare di lui. L’ultima volta che erano stati insieme era stata lei a mettere fine al loro incontro in modo deciso e mentre in quel momento aveva pensato che andasse bene così, che in quel caso non avrebbe avuto problemi con spiegazioni, strascichi e telefonate, ora voleva renderle il favore.

    Si rese conto di essere rimasto immobile, davanti all’immagine della donna rannicchiata, a lanciare sguardi intensi verso la donna che gli stava inondando i pensieri.

    Si costrinse a riscuotersi e a seguire i suoi amici.

    Proseguirono fino alla fine della mostra senza altre distrazioni, e quando si avviarono all’uscita Fitz colse di nuovo il luccichio dell’abito di Emma, ferma davanti a un passaggio.

    Non sapeva cosa provare. Da un lato era contento di aver sostenuto la sua parte come un attore consumato. Lui era quello che era e non poteva essere diverso. Ci sarebbe sempre stata un’altra donna e forse ne avrebbe trovata una anche più interessante di Emma. Dall’altro allora perché all’improvviso il suo stomaco sembrava stritolato tra due macigni?

    CAPITOLO TRE

    Incontri inaspettati

    26 giugno 2015 – New York

    Il signor Rouche, dopo averla affiancata e lasciata più volte, apparve nuovamente alla sua destra insieme ad un ometto asiatico.

    Al suo fianco, Francy stava praticamente fremendo dall’eccitazione. Doveva essere una persona importante. Come cavolo si chiamava? All’improvviso, ebbe l’impressione che la testa le si staccasse dal corpo e volasse via come un palloncino.

    Cosa ci faceva Fitz a New York? Perché era venuto proprio alla sua mostra personale? Era capitato per caso oppure era venuto lì per lei? E se così fosse stato, perché era con un’altra donna? Aveva desiderato che il pavimento si aprisse e l’inghiottisse nel momento in cui l’aveva visto. Era stato scioccante, pauroso ma anche bellissimo. Sapeva che nella vita si era oramai imposta di non legarsi a nessuno perché tutti, prima o poi se ne andavano; quindi era meglio che lo facesse lei per prima per non soffrire. Ma il pensiero di Fitz, per molto tempo dopo il loro ultimo incontro, non l’aveva abbandonata. Aveva naturalmente immaginato che lui fosse abituato ad avere molti rapporti occasionali ma nel periodo in cui erano stati insieme aveva sentito qualcosa di diverso, di profondo. Aveva sentito di condividere con lui le sue paure più oscure. Oppure si era sbagliata e tutti quei pensieri, in quel momento, la stavano solo distogliendo dall’obiettivo di quella sera. Poi si riscosse davanti all’omino asiatico.

    Doveva inchinarsi anche lei? Francy lo fece, allora la imitò.

    Rouche sorrise all’orientale, con condiscendenza.

    Akihiro Okada! Doveva sforzarsi di ricordarlo.

    Con la coda dell’occhio, vide Francy attaccare discorso con Akihiro Okada, mentre Rouche, prendendola in disparte, le sussurrò all’orecchio;

    Era esterrefatta.

    Quella sera Emma era stata ammirata, sommersa dai complimenti, perfino adorata, ma la presenza di Fitz alla mostra, continuava a tormentarla. Il pezzo grosso di Hong Kong di cui non riusciva a ricordare il nome le aveva fatto promettere di fargli vedere al più presto altri scatti e che non sarebbe stato felice finché una delle sue immagini non avesse fatto parte della sua collezione personale.

    La serata era stata un successo sul quale avrebbe potuto costruire il futuro che aveva sempre desiderato. Di certo non poteva lamentarsi di tutto quello che aveva ora, di dov’era arrivata, delle collaborazioni con le agenzie pubblicitarie che era riuscita ad ottenere grazie alle sue capacità, al suo occhio; aveva conosciuto vari marchi e aveva lavorato per molti nomi della moda, ma fotografare su commissione, in studio o in esterni, ricostruendo scene, allestendo set di posa, non era come posare lo sguardo sulla vita vera e fermare gli attimi di quella stessa vita. Senza finzione e senza maschere.

    Il cuore però le doleva nel petto e aveva avuto la nausea per tutta la sera per colpa di Fitz e della donna che aveva al fianco.

    Andare alla mostra con un auto di Uber, per non essere legata a nessuno le era sembrata una buona idea, ma ritornare a casa si stava rivelando più difficile del previsto. Sembrava che di Uber non ne esistessero più  e nonostante ci fossero molti taxi in giro, a quell’ora tarda, non riusciva a fermarne uno libero. Aveva salutato la proprietaria della galleria e poi era andata a cercare Francy che aveva organizzato tutta la serata facendola diventare un successo. Era stata unica e le voleva bene. L’aveva abbracciata fino a farle perdere il respiro e si erano salutate con la promessa di vedersi l’indomani. E ora eri lì, su quel marciapiede, a sbracciarsi senza ottenere nulla. Se entro cinque minuti non fosse riuscita nell’intento avrebbe provato nuovamente con Uber, anche se sapeva, visto che ce n’erano pochi in zona e con molte richieste, che a quell’ora le sarebbe costato una fortuna. Più del taxi.

    Solo quando fu al suo fianco si voltò a guardarlo e, nel suo abito d’alta sartoria, c’era Peter Sanders: uno dei numeri uno dell’agenzia pubblicitaria Landor. Glielo aveva presentato un amico di Francy durante la serata e lui si era profuso in complimenti sulle sue immagini. Non sapeva perché, ma stargli vicino la intimidiva. Emanava un potere e una forza che mai aveva riscontrato in nessuno.

    Magari, forse solo in una persona, ma non era quello il momento di pensarci.

    Aveva trentaquattro anni, era nipote di uno dei fondatori dell’agenzia e, dopo la morte dello zio, aveva rilevato anche le quote degli altri soci. Nel giro di pochi anni aveva fatto accrescere il successo e il prestigio di un’azienda che era già piuttosto prolifica.

    Aveva capito cosa intendesse ma si limitò a fare spallucce e mormore solo un grazie sorridendogli.

    Fece esattamente come le chiese, infilò il telefono nella pochette e nel momento in cui alzò la testa lo ritrovò a fissarla con quegli incredibili occhi grigi.

    Che strano pensò.

    Era convinta che le sue iridi fossero azzurre. Forse era l’effetto della luce dei lampioni.

    Sembrava quasi una proposta proibita invece che una proposta di lavoro. Peter Sanders era troppo vicino, stava invadendo il suo spazio vitale.  Emma si sentì tremendamente in imbarazzo ed era come se le sue labbra si fossero sigillate. Lui era così… non sapeva neppure che aggettivo usare per descriverlo, sapeva solo che la sua presenza la metteva parecchio in soggezione.

    Suonava bene il suo nome pronunciato dalle sue labbra.

    Camminava al suo fianco, e con i tacchi era solo poco più bassa di lui.

    Le venne in mente quando si era trovata vicino a Fitz; avrebbe potuto calzare delle scarpe con dei tacchi vertiginosi eppure sarebbe sempre stata più piccola, il suo metro e sessantadue non poteva competere con il metro e novantacinque di Mattia Fitzpatrick.

    Con la coda dell’occhio lo vide sorridere e, quel piccolo gesto, la fece rilassare. La sua macchina era parcheggiata in un garage a livelli, custodito. Chiaramente un uomo come lui non poteva avere una semplice utilitaria, il suo era un SUV, uno di quelli grossi. Non sapeva riconoscere il modello ma lo stemma lo avrebbe riconosciuto ovunque: Porsche.

    Come un vero cavaliere le aprì la portiera.

    Dei pochi ragazzi che aveva frequentato negli anni, nessuno aveva mai fatto un gesto simile. Una cazzata a voler essere sincere, eppure c’era qualcosa di antico e galante che la fece sentire importante.

    Quando anche lui salì in macchina, quel grande SUV sembrò troppo piccolo per tutti e due.

    La macchina era ancora ferma e lui la stava fissando, il suo sguardo era attento come se la stesse studiando. Vedere quegli occhi su di lei le risucchiò via tutta l’aria dai polmoni.

    Sbarrò gli occhi sconvolta, mentre lui scoppiò a ridere.

    La macchina partì aumentando la velocità, e il suo cuore iniziò a battere in modo del tutto irregolare. Come irregolare e assolutamente sbagliato era ciò che aveva detto lui.

    Guardò fuori dal finestrino e si chiese cosa poteva fare per sciogliere la tensione che pesava su ogni suo muscolo; troppe cose da digerire, troppi avvenimenti da metabolizzare.

    La sua vita era stata abbastanza normale fino a quel momento. Ovviamente per quanto potesse essere normale lavorare in un settore, quello della fotografia, maschilista a tutti gli effetti. Un mondo dove essere donna non aiutava. Non le era mai accaduto niente di scioccante o sconvolgente ma aveva sempre dovuto lottare con le unghie e con i denti per essere accettata in un acquario pieno di squali e ce la stava facendo.

    La sua carriera stava decollando.

    La cosa però che più la irritava, non era il modo di flirtare del signor Sanders. No, avrebbe anche potuto essere interessante una breve storia di sesso.

    Ma l’assoluta indifferenza di Fitz, quella sera, e il fatto che continuasse a venirle in mente, costringendola a confrontarlo continuamente con l’uomo che aveva a fianco, la mandava in bestia.

    CAPITOLO QUATTRO

    Un uomo medio

    26 giugno 2015 – New York

    Chiuse gli occhi, nel vano tentativo di scrollarsi la sua immagine dalla mente, ma gli occhi di Emma continuarono a fissarlo nel buio. La immaginò accanto a sé, un lento sorriso seducente a incurvarle le labbra.

    Dio, quanto la voleva!

    Nella sua fantasia erotica Fitz le fissò a lungo le labbra dischiuse mentre una sensazione d’urgenza gli attraversava il corpo, stordendolo. La mano destra corse all’inguine, insinuandosi all’interno dei pantaloni della tuta. Il suo membro era duro e palpitante. La sola idea che potesse essere Emma a toccarlo in quel modo lo faceva impazzire. Abbassò pantaloni e boxer e strinse le dita attorno al proprio uccello; ansimò, la fronte leggermente imperlata di sudore. Mentre muoveva la mano su di sé, continuò a sognare Emma.

    Si stava masturbando, solo, in una stanza d’hotel.

    Tutti gli uomini lo fanno, certo!

    Anche lui, chiaramente, ma di solito era un momento per rilassarsi in vasca o sotto la doccia, un extra. Non era più abituato a sentire quell’urgenza adolescenziale serpeggiargli nelle vene.

    Nonostante avesse scopato Crissy senza risparmiarsi nulla. Nonostante lei non si fosse lamentata dei suoi modi bruschi e anzi si fosse prodigata in porcate, non era bastato. Il pensiero di Emma continuava ad accendere i suoi bollori.

    Era sul divano e toccava il suo membro avvolgendolo stretto nel pugno. Avrebbe potuto fare una doccia veloce, vestirsi e uscire, trovando sicuramente un incontro casuale con cui continuare a sfogare il suo testosterone galoppante. Ma non aveva voglia della fase scelta/valutazione, figurarsi del dopo: quella sera non avrebbe potuto sostenere fraintendimenti, spiegazioni o cazzate tipo Ci sentiamo presto come era successo solo un’ora prima con Crissy.

    Continuava a massaggiarsi con vigore e abbassò lo sguardo verso la sua asta gonfia e arrossata.

    Quella sera niente film porno, non ne aveva bisogno.

    Gli bastava chiudere gli occhi e pensare al corpo di Emma che non chiedeva altro se non di essere preso, al suo viso di porcellana su cui spiccavano quegli occhi ultraterreni.

    La immaginava mentre giocava con il suo membro, il suo sguardo ardente di desiderio. Stava cedendo al lato oscuro.

    Si sentiva affamato di quella donna, e pensare che fino a quel momento non aveva mai sofferto la fame. Era una sensazione fastidiosa e bellissima al contempo.

    Era come aver mangiato fino a quell’istante street food buono, anzi ottimo, per carità, ma poi essere portato a Parigi, sulla cima della Torre Eiffel prenotata in esclusiva e avere a disposizione una cena intera cucinata dal migliore chef del mondo.

    Le papille gustative si alteravano per forza.

    Niente era più lo stesso.

    E l’aveva solo assaggiata, per un breve istante.

    Passò il pollice sul glande per spargere una goccia di seme e poi ricominciare: su e giù a un ritmo serrato mentre l’istantanea della lingua di lei che usciva dalle labbra per raccogliere quella goccia si faceva sempre più nitida. Gemette e strinse ancora la mano pensando al suo sedere, quando il suo smarthphone vibrò accanto a lui e sullo schermo apparve: Brock ti ha inviato un’immagine

    Era una foto di Emma durante la mostra, fasciata in quell’abito che, seppur la copriva, lasciava veramente poco all’immaginazione.

    Appena rientrato aveva mandato a Brock un messaggio vocale spiegandogli il suo comportamento strano durante la serata.

    L’amico, probabilmente, aveva notato che non aveva fatto altro che guardare Emma, alla galleria, ma in presenza delle loro due accompagnatrici non aveva potuto raccontargli nulla. Evidentemente aveva apprezzato anche lui la donna che stava invadendo prepotentemente i suoi pensieri.

    Sentì una pulsazione potente nella mano e continuò ad assecondare la sua voglia di Emma con movimenti decisi. Premette e spinse e massaggiò, pensando a lei che magari si toccava, che giocava con il suo clitoride, lo accarezzava, lo seduceva, per poi eccitarsi e non resistere più raggiungendo la vetta con le dita sprofondate nella sua femminilità, il tutto pensando a lui.

    Invece… magari non era da sola.

    Aveva notato che un tipo belloccio le aveva ronzato intorno più del dovuto. Magari ora era con lui. Oppure era con quel vecchio dai capelli bianchi.

    Doveva saperlo… ne aveva bisogno.

    Aveva il suo numero memorizzato in rubrica e la sua mano sinistra era già tra i contatti a cercarlo. Inviò la chiamata e premette il vivavoce, ma dopo dieci squilli, la voce metallica della segreteria l’avvisò: il numero da lei chiamato non è al momento attivo.

    Dopo pochi secondi il suo smartphone, fortunatamente ancora intatto, vibrò nuovamente Emma ti ha inviato un immagine

    Era la foto del suo corpo nudo immerso nella vasca da bagno, la mano appoggiata sul ginocchio e se anche le parti interessanti erano coperte da una spumosa schiuma bianca, il ritratto era decisamente eccitante. Quella vasca era abbastanza grande per entrambi.

    Inviò nuovamente la chiamata e premette l’icona del vivavoce.

    Stava tremando di piacere. Neanche l’etere riusciva a diminuire la carica sessuale esplosiva che c’era

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