Oscure presenze
By AA.VV.
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Oscure presenze prendono vita dal mondo dei giocattoli, dalle maschere, dall’ignoto, dall’inaspettato, dall’incredibile, dall’invisibile e dall’inconscio. Preparatevi a tremare.
Perché le storie horror sono così attraenti, i thriller elettrizzanti, perché l’orrore ci fa orrore ?
Perché i racconti raccapriccianti hanno un magnetismo irresistibile? E quali elementi in comune hanno le buone storie di paura?
A volte le storie horror hanno lo scopo di scioccare o disgustare, ma le migliori ci fanno pensare, ci costringono a confrontarci con presenze che ignoriamo, sfidano i nostri preconcetti; l’orrore ci ricorda che il mondo reale non è sempre quel posto sicuro che sembra. Ogni tipo di orrore gioca su paure diverse, ma il “gioco” più efficace si basa su paure antiche e viscerali, eredità dell’esperienza ancestrale o derivanti dall’immaginazione infantile. Disturbano il nostro senso di sicurezza, distruggono tutte le certezze, distorcono e deformano ciò che è familiare in non familiare.
I racconti contenuti in questa antologia non sono tutti horror nel vero senso della parola, ma affrontano il discorso “paura e ossessioni” anche da un punto di vista psicologico: è proprio nel nostro cervello che si annidano le paure; sentiamo le scariche di adrenalina, il cuore che martella, il respiro che accelera, immaginiamo noi stessi ai margini del baratro, del pericolo e dell’orrore.
Ed ecco che le “oscure presenze” prendono vita dal mondo dei giocattoli, dalle maschere, dall’ignoto, dall’inaspettato, dall’incredibile, dall’invisibile e dall’inconscio.
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Oscure presenze - AA.VV.
Angelelli
Il fantasma di Villa Nappi, di Andrea Ansevini
Era una sera piovosa il 17 marzo 1871, quando Giuseppe Tesei venne trovato impiccato a un albero del parco di Villa Nappi a Polverigi, paese dove viveva con la moglie Maria Serafini, inserviente del curato e responsabile della pulizia della chiesa del S.S. Sacramento situata di lato alla Villa.
Nessuno degli abitanti aveva saputo spiegarsi il motivo di tale gesto, essendo una coppia nota a tutti per i loro modi di fare gentili e per aiutare il prossimo.
Alcune persone raccontavano di aver udito la voce dell’uomo urlare «Aiuto! Aiutatemi!», ma quando accorsero lo trovarono ormai senza vita.
Attorno non c’erano tracce di impronte umane o di animali, a parte le sue, ma la cosa strana e che rendeva tutto più misterioso e inquietante, era il fatto che avesse le mani legate dietro alla schiena.
«Come avrà fatto a legarsi le mani e uccidersi da solo», andavano dicendo i cittadini del paese.
Nonostante le accurate indagini dell’epoca per cercare di fare chiarezza, il caso venne in poco tempo archiviato e iniziò a girare insistente la voce che la Villa fosse stata infestata da un fantasma, divenuto di lì a breve noto a tutti come «il fantasma di Villa Nappi».
Alcuni anni dopo
Da quel giorno in poi, nel parco di Villa Nappi, successero altri casi strani e morti sospette, alcune anche in modo tragico e violento.
Un testimone raccontò di un gruppo di cinque bambini che giocavano a palla nel parco. All’improvviso a uno di loro finì la palla in un cespuglio e quando andò a riprenderlo vide una testa decapitata di un uomo tra i rami.
Spaventato da quello che aveva visto tornò dagli altri senza la palla e tra un respiro e l’altro, disse balbettando:
«C’è... c’è... una testa mozzata di un uomo tra i rami.»
I ragazzi, a loro volta increduli, andarono a vedere, ma quando misero la testa nel cespuglio non videro nulla.
«Non c’è nulla, fifone che non sei altro!», fece uno di loro avvicinandosi a questo.
«Invece si, l’ho vista!»
Uno dei ragazzi, dopo aver liberato la palla dai rami, rimase bloccato a guardare un punto fisso. Sgranò gli occhi, li chiuse e li riaprì più volte, poi disse:
«Ho visto un uomo con la maschera che mi guarda dietro quel vetro», puntando l’indice verso una delle finestre.
«Sarà il fantasma della Villa di cui mi ha parlato il nonno», disse un altro sbiancando in volto.
«Di che fantasma dici?», chiese curioso all’amico.
«Mio nonno, mi raccontò che anni fa, qui in Villa, un uomo venne trovato morto in circostanze misteriose, appeso a un albero, e nessuno seppe mai il motivo della sua morte.»
«Sarà una storia di fantasia che ti avrà raccontato per metterti paur.! Anche a me spesso mio papà ha raccontato storie così...», fece il più grande dei cinque per prendere in giro l’amico terrorizzato.
Fu proprio mentre ripresero a giocare che il fantasma si materializzò.
Era lì, davanti ai loro occhi increduli, e teneva una testa mozzata tra le mani.
I cinque bambini rimasero atterriti e urlando iniziarono a scappare in varie direzioni, ma il fantasma riuscì ad avere la meglio e con velocità fulminea nel giro di pochi istanti arrivò ad afferrare ognuno di loro; solo il più grande riuscì a scappare e dare l’allarme, così un gruppo numeroso di persone accorsero sul posto indicato dal giovane.
Giunti nel luogo trovarono i quattro ragazzini morti in vari punti del parco, immersi in una pozza di sangue, mentre i loro corpi erano cosparsi da numerose ferite. In alcuni punti la pelle era stata anche squarciata.
Il ragazzo venne portato in caserma, interrogato e perquisito.
«Era vestito con un costume particolare...», disse subito a uno dei carabinieri. «Indossava un vestito arancione con un ciondolo al collo, portava i guanti e un colletto bianco alla Pierrot, inoltre aveva una maschera d’oro che mi impediva di vedere il volto, mentre in testa aveva un cappello a forma di cono.»
Gli venne trovato un lungo coltello affilato e insanguinato nascosto dentro i pantaloni.
«Non è mio il coltello, non avevo niente addosso, ve lo giuro!»
Purtroppo, anche qua, nonostante le accurate indagini, non emerse nessuna prova che certificasse l’esistenza di questo fantasma, per cui alla fine il ragazzo venne incriminato dell’omicidio dei suoi amici e incarcerato.
Al mattino, ogni volta che gli servivano la colazione, il ragazzo raccontava che durante la notte il fantasma appariva nella cella. Nessuno lo credette.
Andò avanti a raccontare questa storia per due mesi, dopodiché, su invito del giudice, fu sottoposto a visita psichiatrica, e venne accusato di essere anche uno psicopatico e schizofrenico, oltre che pluriomicida. Il mattino seguente alla sentenza i carabinieri lo trovarono senza vita, appeso al soffitto della cella con un lenzuolo.
Qualche tempo dopo, una testimone raccontò che una donna delle pulizie era intenta a lavare il pavimento della chiesa, quando notò una faccia maschile disegnarsi sul pavimento.
Cercò varie volte di mandarla via, lavando in modo più energico pensando fosse solo una macchia strana, ma sembrava che questo volto si formasse di continuo sul pavimento e, a poco a poco, oltre quel volto, iniziarono ad apparire facce diverse e sempre più numerose.
La signora uscì per chiedere aiuto al parroco, il quale giunto sul posto, dopo aver appurato che le facce c’erano veramente, incredulo di quello che vedeva, non seppe spiegare ciò che stava accadendo. Con il passare del tempo, le facce erano sempre più numerose e anche sui muri.
Decisero così di chiamare i carabinieri, i quali avvisarono subito anche un di team di esperti di fenomeni paranormali.
Giunti sul posto, secondo loro non c’era alcuna traccia di manomissione sulle porte e sulle finestre, così, per fare maggiore chiarezza, decisero di scavare sotto il pavimento dove era apparsa la prima faccia.
Un paio di metri più sotto furono ritrovate ossa umane, al che dedussero che la chiesa fosse stata costruita sopra un cimitero e quelle facce altro non erano che le anime morte in precedenza.
Solo a quel punto si convinsero che forse il fantasma esisteva veramente e non era frutto di storie fantastiche.
All’improvviso, dentro la chiesa, che in precedenza era stata chiusa per non far avvicinare nessuno, si spensero tutte le luci e le candele, pochi istanti dopo sentirono un forte vento freddo soffiare su di loro e il pavimento cominciò a vibrare, come se fosse ci una scossa di terremoto, poi dal pavimento uscì il fantasma e iniziò a volteggiare sopra le loro teste. E non era solo.
Alla sua destra c’era un uomo con una corda al collo, davanti un altro che teneva una testa, alla sinistra c’erano cinque fantasmi più piccoli, sicuramente i quattro bambini e il ragazzo suicida.
Il fantasma era vestito tale e quale a come lo aveva descritto il ragazzo suicida e solo allora la sua testimonianza venne ritenuta dal maresciallo veritiera e attendibile.
Il giornalista, che era al seguito della squadra degli esperti di paranormale, dopo essersi ripreso dalla paura della visione dei fantasmi, cominciò a scattare fotografie.
«Sono il fantasma del Conte Nappi e questa è zona mia. Andatevene subito!»
«Cosa vuoi da noi?», chiese uno degli esperti di paranormale.
«Voglio che mi lasciate in pace! Non voglio nessuno qua attorno a me!»
«Ma noi...», l’esperto non fece in tempo nemmeno a finire la frase, che la presenza manifestò a tutti la sua forza.
«Allora verrete puniti!»
A quel punto urlò delle parole in una lingua a tutti sconosciuta, anche agli esperti di paranormale, seguito dal coro dagli altri fantasmi.
Fuori, intanto, il cielo si andava scurendo, le nuvole minacciavano pioggia. Le prime gocce caddero sul suolo come dei macigni, poi iniziò a diluviare; il rombo dei tuoni spezzava il silenzio del parco, il chiarore dei fulmini che si squarciavano a terra rendevano il cielo più luminoso e spettrale del solito.
Fu allora che il fantasma disse una nuova parola incomprensibile e nello stesso istante si udirono i rintocchi delle campane. La chiesa iniziò a tremare, le pareti sembravano fatte di cartapesta e cominciarono ad aprirsi, il soffitto a cadere sui presenti che cercavano invano di scappare. La chiesa crollò su se stessa e uccise tutti quanti a eccezione del solo giornalista che si era riparato sotto il grande altare. Era rimasto leggermente ferito, e aveva prove a sufficienza per dimostrare a tutti quanto era accaduto. Si convinse che «il destino» lo aveva risparmiato per fare da porta voce.
Qualche giorno dopo uscì la notizia sul giornale, lui raccontò quanto aveva visto e pubblicò alcune foto, anche se non chiarissime, per dimostrare la presenza del fantasma di villa Nappi., destando paura e curiosità tra tutti gli abitanti.
La chiesa fu ricostruita a tempo di record e il giornalista fu richiamato dal sindaco per far sì che potesse con un articolo ridare lustro e visibilità al paese, dato che veniva visto come il paese del fantasma di Villa Nappi.
Quella sera mentre stava facendo ritorno nella sua casa in Ancona, lungo la strada che da Agugliano va a Casine di Paterno, improvvisamente la sua macchina sbandò a una curva. Uscì fuori strada ribaltandosi più volte l’uomo morì sul colpo.
Tutte le malelingue andavano dicendo era stato il fantasma che era venuto a riprendersi l’unico sopravvissuto di quella storia, giusto il tempo per far capire a tutti della sua esistenza, per poi portarselo via per sempre dal mondo dei vivi.
Così al calar della notte, la Villa diventa buia, solo qua e là qualche lampione illumina il parco e gli alberi attorno la fanno da padroni.
Da allora sono successi altri incidenti. Si dice che la notte si odono voci di bambini, mentre nella chiesa sconsacrata alcuni testimoni dicono che all’interno vengano fatti riti occulti.
Oggi 8 luglio 2018, Polverigi è un piccolo paese di quasi 4500 anime e a distanza di quasi centocinquanta anni, gira ancora la voce di questa storia in cui si narra di questa entità dal vestito di colore arancione simile a un Pierrot che si aggira di notte spaventando chi incontra all’interno del parco di Villa Nappi.
Secondo alcuni cittadini, in realtà, questa presenza, a volte gira per il paese anche in pieno giorno. Difatti alcuni dicono che vedono un uomo anziano ricurvo passeggiare e ironia della sorte, si chiama anche lui Giuseppe Tesei, come la persona trovata morta impiccata nel 1871, e che, a causa di un incidente sul lavoro che gli bruciò buona parte del viso e del suo corpo, porta sempre una maschera dorata per nascondere le ustioni e il volto sfigurato, dei guanti bianchi per nascondere le mani e un vestito lungo arancione per nascondere il resto del corpo.
Quando lui passa tra la gente, nessuno lo può additare o guardare con molta insistenza e sono in tanti a pensare che questa persona, altro non è che il famoso «fantasma di Villa Nappi».
FINE
Andrea Ansevini è nato ad Ancona il 30 aprile 1979. Nel 2010 ha pubblicato il suo primo libro di poesie, intitolato Poesia nel diario - 50 pensieri nel tempo
. Il suo esordio come romanziere risale al 2014, con il romanzo La porta misteriosa
, da lui auto pubblicato, a cui fa seguito nel 2017 il suo secondo romanzo Oltre la porta
, edito da Le Mezzelane Editore, mentre il terzo è in attesa di venire alla luce; nel frattempo sta già scrivendo un nuovo romanzo. Appassionato di fotografia, prende spesso parte a esposizioni fotografiche presso il circolo culturale C. Antognini
di Ancona, Euterpe
di Jesi e La Guglia
di Agugliano. Attivissimo anche nel mondo del rap, incide, assieme alla moglie Adele, poetessa, cd di denuncia sui malanni della società
, opere trasmesse da radio regionali, in primis Radio Aut Marche, e nazionali.
Margherita, di Tania Bertelli
Sto così, sospesa tra i giorni che passano, tra l’essere e il non essere in bilico perenne tra il vivere e l’esistere.
Sto così, faccio parte delle cose reali. Esisto, vedo, sento.
Ma questa non è, non può essere vita.
Sono come Margherita.
Margherita poggiata sul tavolo, vicino alla finestra. Margherita con le sue guance paffute e rosee, i suoi capelli biondi raccolti in un grande cappello di paglia, con il suo vestito bianco adornato di morbido pizzo, i suoi occhietti neri e vispi che si muovevano aprendosi e chiudendosi, mi fissavano fino a entrare nella mia anima riuscendo a capire quando ero triste, felice, quando avevo paura. Noi eravamo inseparabili ovunque andassi io lei era con me.
La mia bambola. Anche lei esiste ma non vive.
Sta così, come me in una parvenza di normalità, come se nulla fosse mai accaduto immobile in uno spazio bianco, un limbo, in attesa le venga restituita la propria libertà.
Ricordo quando i miei genitori me l’hanno regalata, era avvolta in una bellissima carta con lo sfondo rosa e tante farfalle colorate. L’ho abbracciata come se ci fossimo conosciute da sempre, come se per tutto quel tempo non avessi aspettato altro che incontrarla nuovamente.
Le cose accadono e quando e così smetti anche di avere paura lasci solo che il tempo scorra. Ma ieri c’ era il sole.
Splendeva alto e invitante al punto tale che con il consenso della sua luce, ho imboccato il vialetto del giardino e mi sono avviata sul tratto pedo collinare. Non da sola, con me c’era Margherita. E mentre salivo cercando di non perdere di vista la mia casa, una leggera brezza smuoveva le foglie sulle folte chiome degli alberi. Andavo spesso nel bosco con i miei genitori, ma quella era la prima volta che mi addentravo senza loro eppure non avevo paura. Dieci anni, la forza e la tenacia di una bimbetta curiosa e caparbia e la compagnia della mia bambola, niente poteva accadermi. Non ricordo quanto ho camminato, solo che a un certo punto ho smesso di vedere la mia casa e ho perso il senso dell’orientamento. Il cuore mi batteva forte mentre inginocchiata stringevo Margherita cercando nei suoi occhi il conforto che da sempre mi dava. Il bosco, sul calare del sole, non sembrava più tanto amico. Ho urlato pensando che mia madre potesse sentirmi e soccorrermi. Un respiro profondo, ho stretto forte al petto Margherita e ho iniziato una corsa sfrenata cercando invano la via del ritorno. E poi la radice. Quella dannata radice che mi ha fatto inciampare, perdere l’equilibrio. La sensazione del vuoto sotto i piedi e quel dolore mentre il mio corpo e quello di Margherita venivano sballottati lungo il pendio. Quando finalmente, ho smesso di rotolare mi sono ritrovata a pancia all’aria in uno spazio aperto. Non riuscivo a muovermi. Roteavo solo le pupille, per il resto ogni singola parte del mio corpo era completamente immobile, vedevo il sangue uscire copioso formare rivoli rossi tra i sassi.
Margherita era poco distante da me, nella caduta la testa si era staccata e il suo corpo decapitato e sporco giaceva inerme a pancia all’aria, proprio come me.
«Auguri Lucrezia!», dicono all’unisono i miei genitori mostrando la torta che hanno comprato. Oggi è il mio ventunesimo compleanno.
Undici anni.
Più di tremila giorni sempre qui, in questo letto, a pancia all’aria, immobile alla vita che scorre. Mia madre mi accarezza delicatamente la testa. Lei è convinta che la vita valga sempre la pena di essere vissuta. Lei crede che il mio corpo e il mio cervello trovino il giusto appiglio per uscire da questa circostanza senza luogo, senza tempo. Lei, con i suoi occhi colmi di amore, ricaccia le lacrime cercando di darmi una forza che entrambe non abbiamo più.
In quegli occhi leggo tutta la sua paura. Lei preferisce vedermi così piuttosto che non vedermi più e abbraccia il pensiero di una irrealizzabile guarigione, di un impossibile miracolo come un albero abbarbicato alla terra con le sue solide radici. Io però non posso più lottare perché questa vita non finisca. Ero una bambina felice. Provavo gioia per tutto ciò che facevo vivendo ogni giorno con l’ansia e l’attesa frenetica del giorno successivo.
Margherita ci osserva. Dopo pochi giorni dall’incidente mio padre ha ritrovato la sua testa e l’ha incollata mentre