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Monstrorum
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Monstrorum

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La sua unica speranza di vita è vincere il Monstrorum, ma non potrà farlo senza la più potente delle armi: l’amicizia.
Siamo nell’anno 2065, in Italia. La Basilicata, provata da un bombardamento chimico avvenuto trent’anni prima, fatica a risollevarsi, e la popolazione versa in uno stato di povertà assoluta. Quando la madre di Christian perde il lavoro, il ragazzo decide di iscriversi al Mostrorum, una manifestazione famosa in tutto il mondo, in cui i partecipanti devono cacciare e abbattere creature mostruose, create appositamente in laboratorio. Al campo d’addestramento, Christian incontra Serena, con la quale decide di allearsi. Nel corso della competizione, i ragazzi si aiuteranno ad affrontare bestie pericolose, come il Cerbero e l’Ippogallo, rischiando la vita e salvandosela a vicenda più volte. Entrambi desiderano la vittoria, che porterà ricchezze e vantaggi al campione e alla sua regione di provenienza, ma il loro obiettivo cambia allorché si rendono conto che dietro l’organizzazione del Mostrorum si nasconde un piano segreto. Christian e Serena collaboreranno per sventarlo, dimostrando grande coraggio e fiducia in un sentimento troppo spesso sottovalutato: l’amicizia.
LanguageItaliano
Release dateNov 2, 2018
ISBN9788833281803
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    Book preview

    Monstrorum - Antonio Venezia

    Cover

    Capitolo 1

    «È ora di alzarsi, dormiglione!» dice mia madre entrando in camera mia, anche se definirla camera forse è un po’ troppo. In fondo si tratta di un materasso spesso appena cinque centimetri, posato a terra di fianco a un comò malconcio. Dopo il Grande Disastro, comunque, è già tanto che io e mia madre abbiamo ancora un tetto sulla testa. Non tutti sono stati così fortunati in città.

    «Mamma! Ma che ore sono?» chiedo stropicciandomi gli occhi.

    «Sono le sette in punto e oggi è giornata di provviste. Ricordi?» continua lei in tono gioviale, raccogliendo da terra i vestiti che avevo indosso ieri sera.

    Mi stiracchio e sento le membra scricchiolare: un’altra nuova ed eccitante giornata a Melfi, anno 2065. Annuso l’aria sperando di avvertire profumo di colazione, ma quello che colgo è solo un ricordo sbiadito come la tenda della mia camera. Mia madre se ne accorge e mi sorride dolcemente, quasi scusandosi.

    «Cris, amore, mi dispiace. Abbiamo finito tutte le nostre razioni con la cena di ieri sera. Siamo di nuovo a secco», confessa, piena di vergogna.

    Mi alzo dal mio giaciglio e le stampo un bacio sulla guancia.

    «Beh, allora è proprio la giornata giusta per fare provviste!» esclamo con falso entusiasmo.

    Mia madre si accorge anche di questo e le sfugge una risata. Ho sempre ammirato la sua forza: sin da quando ero piccolo svolge due lavori per racimolare abbastanza crediti da poterci permettere qualcosa da mangiare durante la settimana. La mattina ha sempre lavorato duramente nei campi che circondano la città, dissodando la terra con la zappa. Da mezzogiorno fino alle cinque per un lungo periodo ha lavorato come cameriera in uno squallido locale in periferia, chiamato il Mangiatutto. Dalle cinque in poi, ovviamente, doveva sbrigare le faccende di casa e provvedere ai bisogni del suo bambino, ovvero io, Christian Sebbi, per gli amici Cris. Mio padre ci ha abbandonato quando avevo appena due anni e da quel momento in poi tutto il peso della casa e di crescere un marmocchio è ricaduto sulle spalle di Stefania Mari, mia madre.

    «Credo proprio che ti tocchi, Cris. D’altronde sei tu l’uomo di casa, vero?»

    Mi avvicino al catino dove ha già vuotato un secchio d’acqua fredda depurata. Mi sciacquo velocemente la faccia, le mani, i denti e il resto del corpo.

    «I vestiti puliti sono sul comò. Sbrigati: Spike è impaziente stamattina. Ho avuto un bel da fare per evitare che ti svegliasse all’alba!»

    Ritorna in cucina e io indosso il mio completo da caccia: pantaloni color cachi antistrappo, maglietta termica sintetica e giacca dello stesso colore stinto dei pantaloni.

    Questi indumenti sono la cosa più preziosa che posseggo. Sono costati così tanto che li tratto sempre con molta cura, come se fossero una reliquia sacra. La mamma me li regalò il giorno del mio sedicesimo compleanno. Tornato a casa dopo la caccia, mi ero arrabbiato vedendo che non aveva neanche tentato di prepararmi una torta: pensavo che avrebbe potuto almeno procurarsi la farina sintetica, più a buon mercato rispetto a quella organica. Lei però mi sorrise e mi porse il completo da caccia in una busta di cellophane sigillata.

    «La taglia dovrebbe essere giusta. Se per caso è troppo grande o troppo piccolo, puoi sempre riportarlo indietro da Donato e fartelo cambiare.»

    Aprii il pacco con le mani tremanti, sentendo dentro di me un misto di vergogna e pentimento per la sfuriata che avevo appena fatto a mia madre. Non aveva speso i pochi crediti guadagnati quel giorno per regalarmi una stupida torta con le candeline, bensì una cosa molto più preziosa: l’abbigliamento ideale per andare a caccia, che mi avrebbe permesso di procurare il nostro cibo e diventare indipendenti. Mi gettai fra le sue braccia piangendo come un bambino, dispiaciuto per averle urlato in faccia cose stupide, dettate dalla rabbia e dalla fame che ogni giorno dovevamo affrontare. Il suo profumo di arance, quello che la sua pelle diffondeva giorno e notte a causa del lavoro nei campi e nei frutteti, mi rassicurava sempre. Mi cullò per un po’ nel suo abbraccio tenero e caldo, come solo quello di una mamma può essere. Mi asciugò le lacrime con un lembo del grembiule da cucina e mi sorrise, stampandomi un bacio in fronte.

    «È tutto a posto. So che non volevi dirmi quelle cose. Sei il mio ometto, sempre.»

    A quelle parole, le lacrime ritornarono a scendere senza freni. Mia madre aveva avuto una vita difficile. A malapena aveva assaporato gli anni floridi, quelli dal 2020 al 2034, prima di veder esplodere tutto il suo mondo e tutte le sue sicurezze sotto la pioggia di bombe, convenzionali e chimiche, che distrusse quasi per intero la Basilicata e i suoi abitanti.

    Prima che la mia regione venisse bombardata, la Basilicata era al massimo del proprio splendore: ricchi giacimenti petroliferi; turisti sempre più numerosi che affollavano i boschi, le città storiche; spiagge paragonabili alle più note Costa Smeralda in Sardegna e Costa Azzurra in Francia. Grazie ai prodotti vinicoli e agricoli, la mia regione teneva testa alle altre regioni d’Italia, e anche i locali notturni, una volta popolati solo da contadini e lavoratori in cerca di una birra fredda dopo una lunga giornata di lavoro, divennero ritrovi d’élite.

    Tutto volgeva per il meglio e anche a casa dei miei il benessere era finalmente arrivato. Un giorno, però, il Governo Centrale decise che la nostra regione stava alzando troppo la cresta, abbandonando lo stereotipo di zona agricola e storica: stava diventando pericolosa per tutto il resto della nazione, facendo affluire troppi turisti dall’estero e facendo perdere terreno alle più importanti città d’arte come Roma, Firenze, Bologna. Il Governatore della Basilicata aveva battuto i pugni sul tavolo, all’assemblea delle RUI¹, e aveva detto che, dopo anni di maltrattamenti e povertà, anche la Basilicata aveva diritto ad avere il suo posto nel mondo, a essere riconosciuta come eccellenza culturale, culinaria e di tendenza. Nessun altro governatore aveva aperto bocca, ma, sotto sotto, pensavano già a come ridurre notevolmente gli introiti di quella che era diventata una regione scomoda per tutti. Così accadde: nel maggio del 2035 forze ignote bombardarono a tappeto la Basilicata, in modo da ridurre in macerie gran parte del territorio e delle città: il monte Vulture fu dimezzato in altezza, tanta era la potenza degli esplosivi che ci piovvero in testa. La gente correva disperata fuori dalle proprie case, cercando rifugio e accoglienza nei bunker costruiti dalla Regione per far fronte a eventuali guerre atomiche. La già scarsa popolazione della Basilicata si ridusse di due terzi. Le città divennero invivibili a causa delle sostanze chimiche che avvelenarono l’aria, i fiumi, i laghi e la terra.

    Le regioni limitrofe si erano preoccupate di erigere una barriera che fermasse le particelle velenose poco prima che le bombe venissero sganciate, assicurandosi che i loro territori e le materie prime rimanessero incontaminati. Il Governo Centrale, l’organo che presiedeva su tutte le regioni, tentò goffamente di indagare sull’accaduto. Senza alcuna sorpresa, tutti si resero conto che era una messinscena, un atto che serviva solo per prevenire un’improbabile rivolta dei cittadini lucani, che erano stati presi in giro ancora una volta. Il caso venne archiviato in un paio d’anni e, da allora, il mio popolo è rimasto solo e indifeso a leccarsi le ferite e a cercare di non perire di inedia.

    Gli scambi commerciali con le altre regioni, infatti, erano praticamente scomparsi: nessuno beveva più l’Aglianico del Vulture, nessuno voleva più mangiare le castagne della nostra regione, divenute letali nonostante tutti gli sforzi per cercare di risanare i terreni. La Basilicata, dopo pochi anni di lustro, era nuovamente in ginocchio.

    Ogni volta che mia madre mi racconta questa storia, le vengono gli occhi lucidi e trattiene a stento le lacrime. In cuor suo, so che si chiede il motivo di tale ingiustizia nei suoi confronti, nei confronti di noi tutti. Domande che rimarranno per sempre senza risposta, così come non si conoscono, dopo trent’anni esatti dal bombardamento, né i mandanti, né gli esecutori di quell’atrocità.

    Dopo il Grande Disastro, il Governatore dispose la bonifica totale delle aree ad alto rischio chimico e le famiglie tornarono lentamente alle loro abitazioni, almeno chi era così fortunato da averne ancora una. I locali, divenuti per breve tempo ritrovi d’élite, tornarono a essere semplici bar per zotici e ubriaconi, e le bellezze culturali che avevano richiamato milioni di turisti da ogni parte del mondo non erano ormai che cumuli di macerie.

    Quando ci trasferimmo nella nostra attuale casa avevo poco più di cinque anni: mia madre era stata inserita in lista prioritaria, in quanto donna sola con un figlio a carico. Per un paio d’anni, il Governo della Basilicata riuscì persino a fornirci delle razioni giornaliere di cibo, finché non avevano potuto più provvedere per mancanza di fondi.

    Così eccoci qui: io che mi vesto per andare a caccia nei boschi con Spike, il mio fidato labrador dal pelo fulvo, e mia mamma che si prepara per andare nei campi a lavorare.

    Indosso il mio zaino color nocciola chiaro e la saluto con un bacio sulla guancia. La giornata è davvero radiosa: il sole è già alto in un cielo terso, dall’azzurro brillante. Il cinguettio degli uccelli mi rincuora e fa sembrare la mia vita meno dura e grigia di quanto sia.

    Attraverso la strada e guardo una camionetta di lavoratori che si ferma proprio davanti all’uscio di casa mia: Giuseppe, l’autista del mezzo, mi saluta allegramente rivolgendomi un sorriso. Ricambio il saluto e continuo per la mia strada: guardare un minuto di più quella camionetta mi fa pensare a come mia madre si spezzi la schiena nei campi per pochi crediti, trattata come una prigioniera che deve scontare una pena pur di dar da mangiare alla sua famiglia. Mi mordo il labbro così forte da farlo sanguinare e prometto a me stesso che, se un domani ne avrò la possibilità, la porterò via da questo posto diventato spettrale, spento, che trasuda povertà e miseria.

    Presto il mio stomaco comincia a farsi sentire. D’altronde non ha tutti i torti: la misera zuppa di cereali che abbiamo mangiato ieri sera non ha affatto calmato la voracità dei nostri stomaci.

    «Allora Spike, che ne dici di muoverci e trovare qualcosa di davvero gustoso per la cena? Vorresti un bel budino al cioccolato con sopra un po’ di panna montata?» Spike mi guarda inclinando la testa, con aria interrogativa. «Ho sempre detto

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