Il mistero della torre
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Il mistero della torre - Salvatore Paci
Paci.
Nicu
Montesalso, 1968
Quella sera, a farmi accorrere alla finestra non fu lo stridio di un’auto che ripartiva sgommando, ma un guaire disperato che mi raschiò l’anima. Aveva piovuto per tutto il pomeriggio e mentre il buio stava cancellando ogni colore l’acqua continuava a precipitare senza tregua sulla città assonnata. Passai una mano sul vetro appannato e vi appoggiai la fronte. Al di là di quel cristallo rigato dalla pioggia non riuscii a scorgere nulla, a parte le fronde più alte di un tiglio e una lampada che dondolando tingeva di giallo il basolato luccicante di Corso Vittorio Emanuele.
Seduto ai piedi del letto tolsi le pantofole, mi aiutai con l’indice per calzare le scarpe ancora allacciate e mi alzai. Mi infilai dentro il cappotto soltanto quando ero già per le scale, con l’ombrello che passava da una mano all’altra e i pantaloni del pigiama che faticavano a rimanere cinti alla vita. Scesi i gradini due per volta fino a quando i miei tacchi atterrarono sul triste lastrico dell’androne. Quando tirai a me il pesante portone in legno l’umidità notturna accolse le mie caviglie ancora calde con un abbraccio algido. Uscii, aprii l’ombrello e mi guardai intorno. Non c’era nessuno.
Stringendomi il bavero intorno al collo feci qualche passo verso destra, girai l’angolo e vidi Zio Cono, incurante della pioggia, che si avvicinava a un cagnolino che giaceva a terra. Gli arrivai accanto quando lo aveva già tra le braccia, così li riparai entrambi.
«Mettiamoci sotto quel balcone» gli dissi prendendolo per il gomito. Poi attraversammo la strada con i piedi che già sguazzavano dentro le scarpe mentre il cucciolotto, protetto dalla giacca del mio amico, cercava di leccargli il mento.
«Come può esistere gente simile?» esclamai. «Ho sentito passare una macchina, poi il suo pianto. Lo avranno lanciato dal finestrino, mischino!»
Zio Cono fece una smorfia e lo sollevò prendendolo delicatamente dalle ascelle. «Attraverso le asperità alle stelle disse al cucciolo, come se potesse capirlo.
Era un batuffolo bianco dagli occhi tristi. Teneva le orecchie abbassate e agitava timidamente la coda. Fortunatamente non sembrava essersi fatto molto male, e a parte il mantello sporco non riportava ferite visibili. Zio Cono sorrise seraficamente. Le rughe che fino a un momento prima gli avevano corrucciato la fronte si spostarono agli angoli della bocca.
«Ehi, marmocchio» gli disse. «Ti avverto che se vieni con me ti attende una bella insaponata. Noi siamo gente povera ma pulita. Chiaro?»
«Be’, prendiamo la parte buona di questa storia: adesso è al sicuro e sembra soltanto spaventato.»
Il piccolo mi guardò e io sorrisi. Gli grattai la testa con la mano libera e lui chiuse gli occhi estasiato.
«E forse non più. Comunque, se ne occupa lei?» gli chiesi.
Il cucciolo aprì la bocca e tirò fuori la lingua alla ricerca del viso del vecchio.
«Se per te non è un problema.»
«Vedo che il piccolo ha già fatto la sua scelta, e sono sicuro che ha scelto bene.»
«Diciamo che la ruffianeria non gli manca. Si tratta di una caratteristica ancestrale di questi pelosetti dalla coda in eterno movimento. E va bene, affare fatto. Ma comportati bene, eh!»
Ci salutammo con due baci sulle guance.
Ero molto contento per Zio Cono. Quel cane avrebbe riempito la sua piccola casa, troppo vuota da quando la signora Margherita era volata in Cielo diversi anni prima. Una polmonite mal curata, mesi di speranza e sofferenza e alla fine il mio amico si era ritrovato da solo, con il ricordo della moglie ancora in giro per le due stanzette del suo appartamento. A distanza di tutti questi anni teneva ancora le sue foto sul comodino e una parte di armadio ancora piena dei suoi vestiti nei quali affondava il naso quando la malinconia lo prendeva a randellate.
Zio Cono aveva il cuore sanguinante e le unghie dei ricordi non finivano mai di artigliare quell’organo pulsante. Eppure, prima di uscire appendeva la sua maschera di tristezza dietro la porta di casa e addolciva il suo viso con un sorriso e le nostre bocche con una di quelle caramelle che non mancavano mai nelle sue tasche.
Quanto è strana la vita! Quell’uomo mi aveva visto crescere, rincorrere per anni un pallone con gli altri bambini, giocare con le automobiline di plastica su piste disegnate a terra con il gesso e adesso... Cono Puglisi, il mito della mia fanciullezza, si stava incurvando sempre di più. Quasi a ricordami che anche io, un giorno, avrei vissuto quella fase discendente che la vita non risparmia a nessun essere vivente.
Che tristezza!
Ancora oggi, quando penso a lui lo ricordo mentre passeggia lungo Corso Vittorio Emanuele oppure mentre siede sul muretto della Villa Mulè a chiacchierare di cose semplici con gli amici, con il suo umile bastone da passeggio tra le mani e un giornale sotto il sedere per non sporcarsi i pantaloni. Ricordo anche il profumo di saponetta che la sua pelle emanava, in netto contrasto con l’odore acre e piccante degli abiti dei suoi coetanei.
Zio Cono era lo zio di tutti. Un ex professore di latino che faticava ad arrivare a fine mese, ma che riusciva a far felici tanti ragazzini, tra i quali io. Non si contavano le volte in cui mi aveva offerto una gassosa al Caffè Centrale dopo avermi visto sudato e affannato per aver giocato per ore sotto il sole cocente della nostra Trinacria. Ma la vita è una ruota che gira e così, prima o poi, arriva il momento in cui i ruoli si invertono e tocca al protetto il compito di proteggere. Ed è quello che ho sempre fatto a sua insaputa tutte le volte in cui ho sbagliato i conti a mio sfavore al momento di pagare la spesa nel mio negozio di generi alimentari.
In quell’inverno senza svaghi, pieno di fatica e di solitudine, quel cane regalatoci dalla provvidenza divenne il nostro passatempo preferito. Ogni mattina si ripeteva la stessa amabile scena: li incrociavo lungo il tragitto casa-negozio; l’anziano avanti con il suo bastone che ormai aveva perso parte del suo colore originale e con la coppola in testa, e Nicu un po’ più indietro a odorare ogni angolo della strada come se in quegli effluvi riuscisse a leggere una sfida o un messaggio d’amore incomprensibile per noi bipedi.
«Guarda chi c’è» gli sussurrava sempre abbassandosi un po’. Lui rizzava le orecchie e, guardandosi in giro, mi individuava e mi correva incontro con la bocca aperta e la lingua penzoloni.
Cominciai a non buttar più via la merce appena scaduta. La offrivo a Nicu durante i nostri incontri o la mettevo in un sacchetto che poi consegnavo allo Zio. Gli incontri pseudo casuali si ripetevano anche di sera quando chiudevo bottega. Sapevo che lui passeggiava apposta dalle mie parti e per me era una sensazione meravigliosa. Si trattava di un rituale al quale non avrei mai potuto rinunciare. La verità era che Zio Cono sentiva che quel cane era in parte anche mio e faceva di tutto per condividere con me la gioia della sua gioiosa compagnia. Di volta in volta mi raccontava di come Nicu fosse entrato in sintonia col suo padrone, riuscendo a interpretarne sia i comandi che i rimproveri. Gli manca soltanto la parola, mi ripeteva spesso.
«Seneca diceva che l’amore per un cane dona grande forza all’uomo. E a distanza di quasi due millenni, devo ammettere che aveva ragione. Ci sono volte che mi andrebbe di stare sotto le coperte a finire di contare le pecore, che alla mia età sembrano essere milioni, ma questo piccolo dispensatore quotidiano di escrementi canini mi costringe ad alzarmi e a uscire. Tutto ciò a vantaggio della mia sfolgorante forma fisica, però. Si vede, vero?» mi disse una volta facendo una giravolta in punta di piedi e ridendo come un matto.
Con il trascorrere dei giorni Nicu crebbe a vista d’occhio, passando dall’aspetto di un batuffolo peloso a quello di un cane che presto sarebbe diventato molto grande. Tre mesi dopo averlo trovato aveva già delle zampe enormi, una testa importante e il muso sempre sorridente. Era molto buono con le persone, ma non lo era affatto con gli altri cani, con i quali si azzuffava per difendere il territorio. A quel tempo le prendeva sempre, ma si capiva che crescendo non avrebbe permesso a nessun altro suo simile di scorrazzare impunemente tra Corso Umberto e Corso Vittorio Emanuele senza un padrone all’altro capo del guinzaglio.
Dopo un primo periodo di gestione domestica, visto che il cane era diventato troppo grande per muoversi agevolmente nella sua piccola casa senza rischiare di rompere qualche vetrinetta scodinzolando, zio Cono cominciò a dargli un po’ più di libertà permettendogli di andare e venire quando voleva e di dormire in un garage a piano terra che teneva di proposito con la saracinesca non del tutto abbassata.
Finalmente, dopo un lungo inverno grigio e piovoso nel quale la noia ci straziò più dei geloni che avevano martoriato i nostri piedi, la primavera esplose con tutti i suoi colori. Nelle aiuole spuntarono le prime margherite e attorno ai cespugli di lavanda cominciarono a volteggiare le prime farfalle bianche. Anche l’aria sembrava diversa: più frizzante, più ricca di fragranze profumate. Il cielo era quasi sempre terso e le poche nuvole che si trovavano ad attraversarlo sembravano fragili batuffoli di cotone che si sfilacciavano lungo il cammino. Le mattine si animavano del chiacchiericcio degli uccelli e le sere del discorrere di quegli anziani che passeggiavano per strada con le loro scarpe scricchiolanti perché non riuscivano a prendere sonno.
Tutto sembrava avviarsi verso i ritmi di sempre: casa, lavoro e qualche passeggiata per la città in compagnia del mio amico peloso e del suo distinto padrone.
Sembrava.
Perché il destino aveva deciso diversamente.
Teresa
Tutto ebbe inizio alle tredici di una tiepida e piacevole domenica, mentre leggevo un libro seduto su una panchina della Villa Cappuccini. Da qualche tempo, grazie ai consigli di una suora minuta e gentile che lavorava presso le Edizioni Paoline, avevo scoperto Jules Verne e, uno alla volta, stavo divorando tutti i suoi libri. Quel giorno avevo tra le mani Viaggio al centro della Terra e stavo vivendo le peripezie di Arne Saknussemm. Mentre i miei concittadini si apprestavano a tornare a casa dalle loro mogli per il pranzo, io, ventitreenne, orfano e ancora scapolo, non avendo nessuno ad attendermi tra le mura domestiche, mi stavo attardando sulla mia solita panchina con il sole che filtrava tra le foglie degli alberi e mi riscaldava il viso.
Quando finii la pagina che descrive la lotta di un ittiosauro contro un plesiosauro mi venne voglia di andare a trovare Cocò, il primate che viveva nella gabbia posta nel sottoscala della villa. Infilai il libro nella tasca della giacca e andai. Quando Cocò mi vide gridò per la gioia. Infilai la mano in tasca, pescai una caramella al limone, la scartai e gliela porsi. Lui allungò due dita pelose attraverso le sbarre, la prese dalla mia mano e se la ficcò in bocca. Subito dopo averla masticata mostrandomi affettuosamente i denti, le sue grida di gioia si trasformarono in qualcosa di diverso. Si era innervosito, e la cosa mi parve alquanto strana perché non lo aveva mai fatto prima di allora. Qualche secondo dopo ne compresi il motivo: in lontananza sentii dei latrati e qualcuno che strillava e piangeva. Guardai verso Viale Cappuccini. Da lì vedevo soltanto il muro di contenimento in pietra di Sabucina e alcuni cespugli di cocomero asinino alla sua base. Mi spostai per avere una visuale migliore. A poche decine di metri da me vidi una donna con le spalle appoggiate a un muro e tre cani che le si avvicinavano ringhiando. Raccolsi un grosso legno da terra e, correndo verso di lei, cominciai a gridare.
«Passiccà! Andate via!»
Uno di loro si voltò alzando ancor di più la coda e venne verso di me con l’atteggiamento di chi vuole farti del male. Aveva il mantello grigio chiaro con qualche macchiolina nera, il muso rovinato da qualche precedente lotta e un occhio troppo opaco per essere funzionante. Avanzando mi guardava fisso negli occhi con un piglio arrogante, convinto che con il suo incedere sicuro mi avrebbe intimorito. Non ci pensai due volte: roteai l’improvvisata arma e la battei con forza a pochi centimetri dalle sue zampe. Lui fece uno scarto indietro. Ebbe un attimo di stordimento, segno indiscutibile che non era abituato a un capobranco più testardo di lui. Il suo sguardo monoculare si svuotò della sua fierezza e così il cane si allontanò con la coda abbassata. Gli altri due, in preda alla confusione, smisero di ringhiare. Feci finta di raccogliere un sasso da terra e loro scapparono come razzi. A quel punto la donna, che fino a quel momento aveva assistito con apprensione alla scena come se fosse il finale di un film di Alfred Hitchcock, crollò sul marciapiede piangendo e asciugandosi le lacrime con il dorso delle mani.
«Signora, è tutto finito. Stia tranquilla! L’aiuto a rialzarsi.»
Mi pulii i palmi strofinandoli sui pantaloni, le presi le mani e la tirai a me. Quando fummo a pochi centimetri l’uno dall’altra fui investito dal profumo della sua pelle e, spinto da un desiderio mai provato prima, lo inspirai sperando che lei non se ne accorgesse.
Un istante dopo essere riuscito a metterla in piedi mi svenne tra le braccia. L’adagiai delicatamente a terra facendola scivolare lentamente attraverso il mio corpo. Per poco non svenni anch’io per il contatto. Poi, dopo avere appoggiato le sue spalle al muro, le diedi degli schiaffetti per ridestarla. La sua pelle era liscia come la seta, chiara come la luna. Rinvenne mentre le passavo il dorso delle dita sulla guancia. Quando riaprì gli occhi e mi guardò con quell’aria di donna indifesa mi accorsi di quanto fosse straordinariamente bella. Capelli e occhi neri, la fede all’anulare sinistro. Cercai di ritornare in me.
«Come va, signora? Sta bene?»
Le sue guance si colorarono di rosso, il che le diede quel tocco di bambina che il vestito elegante e la fede al dito avevano nascosto.
«Sì, grazie. Ma che stupida che sono stata!» disse abbassando lo sguardo.
Le sorrisi e l’aiutai a tirarsi su.
Aveva un corpo esile ma ben fatto, castigato in maniera eccessiva da un vestito molto elegante che non riusciva però a nasconderne le forme. Al primo passo in avanti zoppicò e si appoggiò a un albero.
«Oddio che dolore! Devo aver preso una storta.» Piegò la gamba indietro e si tastò la caviglia. «Va be’, non dovrebbe essere niente di grave.»
«Come posso esserle di aiuto?» le chiesi soffermandomi con lo sguardo sul suo esile piede.
«Vorrei contattare mio marito. Ma come?» chiese mettendo nuovamente il piede a terra e ruotando la caviglia.
«Pensa di poterlo raggiungere con una telefonata?»
«Sì, a quest’ora è a casa e, poverino, mi starà già aspettando.»
Mi guardai intorno e avvertii il suo sguardo su di me.
«Ho un amico che abita qui vicino. Se mi dà il numero di casa e mi aspetta un momento lo faccio chiamare.»
«No, la prego! Non mi lasci qui! Mi aiuti e vengo con lei.»
Non volli contraddirla e le offrii il braccio.
Camminammo lentamente verso il portone.
Fu una sensazione strana. Era la prima volta che una donna mi teneva il braccio. Il contatto con il suo corpo mi imbarazzava persino nei movimenti. Un paio di volte sentii la pressione del suo seno sul mio braccio. Per un istante pensai a quanto sarebbe stato bello toccarlo nudo, soprattutto per uno come me che fino a quel momento non ne aveva mai visto uno se non nei calendarietti del barbiere. Giunti davanti al portone citofonai al mio amico e gli spiegai la situazione, fornendogli il numero che la signora intanto mi suggeriva all’orecchio. Dopo un paio di minuti di attesa durante i quali tutti i condomini del palazzo si affacciarono chiedendo notizie sull’accaduto, questi tornò al citofono e mi disse che il marito della signora stava arrivando. Lo ringraziai, tra il vocio delle donne che