Lu scantu
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Lu scantu - Letizia Tomasino
Uno
«Chi fu, mastru Turiddu? Picchì è accussì scantatu? Pari ca vitti a morti cu l’uocchi!»
«Facitimi assittari e datimi n’anticchia r’acqua, ancora un criu a chiddu chi vittiru li me occhi!»
Mastru Turiddu era entrato di corsa dal barbiere, si era accasciato su una sedia e stava ansimando rumorosamente per il forte spavento.
Quel giorno il salone di Peppe era stracolmo di gente, situazione che si verificava ogni volta che in paese c’era in programma un avvenimento importante. Di solito, gli uomini ci tenevano a presentarsi ai matrimoni beddi puliti e con i capelli e la barba a posto. La cosa riguardava anche le donne che prendevano d’assalto negozi d’alta moda, botteghe di scarpe, ma anche parrucchieri e centri estetici. Il matrimonio in questione era quello fra Santina Musumeci e Antonio Damiani, rispettivamente figli del sindaco e del farmacista del paese. Le nozze si sarebbero celebrate nella chiesa madre nel pomeriggio, e già di prima mattina la gente era uscita da casa pi cunzarisi.
«Ma chi vitti?»
Ormai la curiosità degli astanti era tale che alcuni clienti, con la mantellina addosso e con la schiuma ancora sulla faccia, si alzarono per avvicinarsi all’anziano signore che aveva la faccia più bianca di un cadavere.
Il barbiere gli porse un bicchiere d’acqua e aspettò che mastru Turiddu si calmasse, poi incalzò con le domande.
«Amunì, mastru Turiddu, cuntassi chiddu ca vitti, semu tutt’aricchi!»
I presenti si erano messi in cerchio e in mezzo c’era il vecchietto scantatu mortu, che di mestiere faceva lu campusantaru. Per spaventarsi lui che lavorava con i morti, allora quello che aveva visto doveva essere qualcosa di veramente tremendo.
Dopo aver bevuto l’acqua, mastru Turiddu si asciugò la bocca con il gomito e iniziò a raccontare alla sua maniera.
«Stamatina, mentri aspittava la sarma di don Calogero pi vurricarlu, mi scavai lu fazzulettu di terra ca avia ospitare ’u cristianieddu. Cavuru c’era cavuru e lu suduri ca mi scinnia ’nta la frunti mi fici firmari cincu minuti pi biviri n’anticchia d’acqua. Mentri m’asciucava la frunti, taliavu ’na fiuredda di fimmina ca stava vinennu da me parti. Un ci putia cridiri! Dda picciridduzza l’avia vurricata iu stissu tri anni prima: era la soru di Santina Musumeci, chidda ca si marita oggi. Lu sangu mi siccò, vitti la morti cu l’occhi mei. Arristai fermu dunni mi truvava picchì li jammi m’avianu ammuddatu.»
«Mastru Turiddu, pò essiri ca ’u troppu cavudu ci fici aviri l’allucinazioni?»
La domanda di Peppe era stata più che pertinente, ma fece arrabbiare il vecchietto che diventò paonazzo e stava per alzarsi e andare via. Qualcuno lo bloccò, pregandolo di continuare il racconto, e anche gli altri lo esortarono a finire la storia.
«Io unni cuntu fissarii! Vitti dda picciridda ca sapiti bonu comu fu truvata tri anni fa… Chi pena ca mi fici!»
Due
In effetti, tre anni prima, quel delitto aveva occupato le prime pagine delle testate siciliane, ma anche di quelle nazionali. La bimba, di soli undici anni, era stata trovata da un cacciatore, anzi dal suo cane. Rosalia era nascosta dietro una siepe nel bosco e solo il fiuto fine di un segugio poteva trovarla.
Il cacciatore aveva dato subito l’allarme, avendo riconosciuto nella bimba la figlia minore del sindaco. Rosalia era nuda e circondata da una pozza di sangue: era stata violentata, accoltellata e poi buttata dietro quella siepe come una bambola di pezza. Non si trovò mai il colpevole dell’atroce delitto. Il padre e i familiari non si davano pace.
Adesso, dopo tre anni, la sorella di Rosalia, Santina, era a casa circondata da una miriade di persone fra parrucchieri, estetiste, sarte, truccatrici, tutti occupati nel loro lavoro per renderla una sposa bellissima.
Santina ancora non credeva al sogno che stava vivendo. Da quando Rosalia non c’era più, casa sua era diventata un mortorio. Anche se prima del lutto improvviso erano stati avviati i preparativi delle nozze, erano passati altri due anni senza che si riparlasse del matrimonio con Antonio. Certe volte lei pensava che il fidanzato si fosse stufato di aspettare.
Un giorno, per forza di cose e preso il giusto coraggio, esternò le sue perplessità riguardo all’interruzione dei preparativi al padre, il quale si convinse che la vita doveva continuare, nonostante la disgrazia toccata in sorte alla loro famiglia. Si decise così una data e qualcosa cambiò all’interno dell’ambiente famigliare: sembrava essersi creato un clima di festa, ma in effetti si era solo momentaneamente accantonato il pensiero di Rosalia e della sua morte orrenda.
Tre
Mastru Turiddu era un vecchietto pacifico e solitario. Non era nato a Roccabusambra e i ricordi del paese natio erano svaniti nel nulla, dato che la sua famiglia si era trasferita quando lui aveva solo cinque anni. Il padre era stato un minatore, ma aveva perso la vita dopo un crollo all’interno della cava dove lavorava. La madre, essendo rimasta vedova e con tre bocche da sfamare, si era trasferita a Roccabusambra, dove abitava la sorella che si era sposata con un contadino del luogo. Il piccolo Salvatore, Turiddu per tutti, non frequentava la scuola perché andava nei campi ad aiutare lo zio Carmelo, che lo ricompensava con qualche ortaggio da portare alla madre. Crescendo, si era conquistato la fiducia dei paesani ed era considerato un bravo figliolo, onesto e lavoratore. Poi si era innamorato di Rita Dolcemascolo e, insieme allo zio, era andato a parlare con il padre della ragazza pi spiari lu matrimoniu. L’uomo non aveva acconsentito perché Turiddu non aveva un posto fisso e fu così che i paesani si fecero in quattro per trovargli un lavoro che gli permettesse di coronare il suo sogno d’amore. Non fu facile perché il ragazzo non aveva titoli di studio, anzi era proprio ignorante. L’unico posto di lavoro che poteva fare al caso suo era il becchino. Il precedente campusantaru era morto da alcuni giorni e nessuno si era ancora presentato per prendere il suo posto. Per Turiddu quel lavoro fu una manna dal cielo. Il padre di Rita, quando seppe che tipo di mestiere avesse intrapreso il pretendente di sua figlia, storse il naso ma poi acconsentì al matrimonio poiché era un uomo che aveva una sola parola: aveva detto posto fisso ed era stato accontentato. Dopo il matrimonio i due sposini andarono ad abitare nella casetta annessa al cimitero. Per tutti gli anni che vissero insieme non ci fu mai una lite tra i due coniugi, anche se ogni tanto Turiddu si rammaricava di non aver avuto dei figli dalla sua Rita, che morì a soli 45 anni a causa di un tumore all’utero. Dopo la perdita della moglie, il pover’uomo invecchiò di colpo diventando sempre più solitario.
Quattro
«Iu vu cuntu ’nzoccu mi rissi a picciridda. Vuatri forsi un mi cririti, ma iu aiu nu pisu ’nto cori!»
«Cuntassi, cuntassi, vossia!»
Silenzio assoluto. Ormai all’interno del salone si era creata la giusta suspense, aspettando rivelazioni sorprendenti. Si attendeva solo che il vecchietto si decidesse a parlare.
«A picciridda, Rosalia, s’avvicinò a mia e iu un rinisceva a parrari; allura mi parrò idda e mi rissi ’sti paroli: "Mia sorella Santina