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Non si maltrattano i bambini
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Non si maltrattano i bambini

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About this ebook

Una leggenda narra che Lucifero reo di aver sfidato Dio fu scaraventato nella Gola del Diavolo, sui monti Rodopi. Nel vicino paese bulgaro di Trigrad, a primavera, ritornano le cicogne provenienti dall’Africa a nidificare sui tetti di paglia. Tra di loro, c’è Yana che ha appena perso il proprio compagno, e soffre la solitudine. Unica cicogna ad avere un nome umano, matura il desiderio di divenire donna. Viene accontentata dall’enigmatico comandante Akhenaton, re del popolo degli alieni che preannunciandole la seconda venuta di Gesù sulla Terra le assegna una missione: recarsi a Venezia e salvare la vita a Luka, un bambino di dieci anni, maltrattato dal padre. Yana si chiede come potrà, da sola, impedire che un altro bambino venga maltrattato. Il comandante Akhenaton, allora, le spiega come esista un momento nel tempo di mezzo, nesso tra passato presente e futuro, in cui si può cambiare la propria vita. Yana, ormai trasformatasi in donna, ritorna a Trigrad, dove è soccorsa dall’attempato Kiril Domidoff. L’uomo si innamora perdutamente della dolce creatura, che ricambia i suoi sentimenti.
La loro felicità è però bruscamente interrotta dalla partenza di Yana per l’Italia. Molte avventure e nuove amicizie la attendono, il pensiero sempre rivolto all’uomo che ha lasciato e da cui spera di poter tornare.
Un romanzo magico, che pur appartenendo al genere fantasy, affonda le sue radici nella realtà e nelle sue disperate sfaccettature.
Vincitore del Premio Letterario Nazionale Streghe Vampiri & Co. 2017.
LanguageItaliano
Release dateOct 1, 2018
ISBN9788832922363
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    Non si maltrattano i bambini - Ornella Fiorentini

    peccato"

    Prefazione

    Fantasy, crudo realismo, magia, fantascienza, religiosità, fiaba, misticismo, attualità sono solo alcuni degli elementi di cui Ornella Fiorentini si è sapientemente servita, nel suo affascinante e atipico romanzo Non si maltrattano i bambini , per avvincere il lettore dalla prima all’ultima pagina. Presente anche nelle sue opere precedenti, il senso dell’insondabile mistero, che permea l’origine e il significato della vita nell’universo, pare calarsi come un manto incantato sulla trama. Nel suo dipanarsi, le vicende vissute dai personaggi s’intrecciano efficacemente per giungere a esiti talvolta sorprendenti e mai scontati in un arrestabile crescendo rossiniano.

    L’autrice affronta il tema del viaggio come ricerca di sé e tentativo di crescita interiore. Ci si sposta dai boschi e dirupi dei monti Rodopi, in cui è situata la terrificante Gola del Diavolo, al paese bulgaro di Trigrad, al Mar Nero, a Skopje per approdare, attraverso tortuose vie balcaniche, fino alla laguna di Venezia. Nella dolce Yana si attua l’incredibile metamorfosi da cicogna a donna. In volo nello spazio siderale, incontra il comandante Akhenaton, alieno illuminato dal messaggio d’amore cristico e Bellatrix, la splendente stella della Costellazione di Orione. Nell’eterna lotta tra il Bene e il Male, il romanzo si arricchisce con la figura di Luka e Irmhild, due bambini alle prese con una famiglia di origine inadeguata e carente da cui volontariamente si allontanano. Nella fuga intravedono l’unica via di salvezza e la possibilità di un futuro migliore che li affranchi dalla triste sorte di essere figli non desiderati. Compare anche la sventurata prostituta Agapi che anela a fare la badante pur di liberarsi dalla persecuzione dell’ex protettore. Insieme con Yana, atterrata sulla soglia di casa, il celibe sessantenne Kiril Domidoff vive un’incantevole storia di sesso e d’amore che però incontra la disapprovazione e la conseguente ostilità da parte dei compaesani bigotti. Sono il corrotto poliziotto Dimitar, il pope, sua moglie e Ivanka, la padrona dell’emporio a rendere la vita impossibile ai due amanti. Mentre Kiril parte alla ricerca della madre Zora, Yana decide di fare la badante in Italia.

    A Venezia, conosce il gondoliere Zaccaria che le offrirà il suo aiuto per sfuggire alla corte insidiosa di Marco Polo Tristan, figlio dell’anziana arcigna, che accudisce. Lo spaccato di vita reale si colora di situazioni grottesche, ironiche, impensabili che bene evidenziano delle condizioni di lavoro spesso ingrate.

    Nel folklore la cicogna felicemente porta i neonati a destinazione. Allo stesso modo, dopo molte peripezie, Yana dona a tutti coloro, che la circondano, serenità e benessere. In breve cambia la loro esistenza in meglio, forse perché la sua trasformazione da animale a essere umano è avvenuta per l’intercessione di Gesù. Personaggio soprannaturale, aleggia in modo subliminale in ogni capitolo del romanzo.

    Claudio Nanni

    1

    La Gola del Diavolo

    Nell’antica terra dei Traci, l’alba è fosca e fredda a marzo. Sui monti Rodopi, appena più a nord di Drama, l’ultima città greca che segna l’impervio confine con la Bulgaria, appare la Gola del Diavolo. Fende la roccia per addentrarsi nelle viscere di una montagna e ingoiare il fiume verde dall’acqua trasparente. L’entrata è un nero intrico di rami che nasconde cupe fauci spalancate. Il mito narra che sia l’adito dell’Ade. Solo Orfeo ebbe il coraggio di avventurarvisi per rivedere la diletta Euridice. Con l’incomparabile suono della sua cetra, incantò e commosse gli dei degli inferi. Proserpina gli permise di riportare l’amata sposa in vita a patto che non si voltasse a guardarla, ma timoroso che non fosse la sua ombra a seguirlo, Orfeo disubbidì e la perse per sempre.

    Nel villaggio bulgaro di Trigrad si mormora che risuoni ancora il suo pianto in quell’antro maledetto. Si dice pure che laggiù vi finirono gli angeli ribelli, rei di aver tradito la fiducia di Dio. Detronizzato dallo scranno d’oro, scaraventato dal cielo nel luogo più inospitale della Terra, Lucifero diventò il loro principe. Dannato per l’eternità, s’immerse nelle tenebre che si accesero di bagliori bluastri. L’aria arse di fuoco. Mefitiche esalazioni di zolfo uscirono dalla caverna. Stordivano e avvelenavano i pochi viandanti curiosi che avevano trovato il coraggio di professarsi ancora ortodossi, ricacciati finalmente i Turchi oltre il Bosforo nel 1878. Rischiavano la vita per amore del vero Dio, stregati dalla leggenda nera dei monti Rodopi. Sporgendosi dai massi scivolosi del greto per intravedere l’entrata della Gola del Diavolo, erano consapevoli di giocare a scacchi con la morte. Se fosse davvero comparso Lucifero, si ripromettevano di fuggire. Veloci come lepri, sarebbero corsi dal pope di Trigrad a farsi segnare la fronte con l’olio santo. Unti del Signore! Sì, unti del Signore e Kyrie Eleison… Con orgoglio avrebbero potuto proclamarsi paladini della fede ortodossa e della ritrovata unità nazionale dopo cinquecento anni di dominazione ottomana. Quei temerari non sembravano preoccuparsi della cattiva sorte che perseguitava chiunque osasse avventurarsi nella Gola del Diavolo. A Trigrad, ancora oggi si sostiene che solo due uomini, i fratelli Stefan e Gheorghi, sopravvissero alla vista di Lucifero. Si racconta che entrambi persero la ragione dopo aver scorto, oltre la nube dei vapori violacei, un uomo bellissimo. Bruno, alto, sopraccigli arcuati e incarnato lunare, era vestito di velluto nero e di damasco. Protese verso di loro le fini mani colme di monete d’oro e di perle, aveva sorriso mellifluo. E con voce flautata: Stefan, Gheorghi, miei bravi contadini di Trigrad, benvenuti! Non abbiate timore… Entrate, se volete diventare ricchi. Perché vi dannate l’anima lavorando come muli dall’alba al tramonto?

    Rassegnato, Stefan aveva balbettato che così era sempre stato. Tremava invece di rabbia Gheorghi poiché era stanco di fare la fame. La miseria lo stremava. Era stato subito tentato di avventurarsi nell’antro per vedere Lucifero da vicino. Dopo un nervoso cenno di saluto al fratello, aveva iniziato a scendere a balzi verso la riva del fiume. Combattuto sul da farsi, Stefan gli era corso dietro e lo aveva tirato per la giacca.

    Fermati, fratello! Chi è quell’uomo? Se è davvero un principe, come può avere a cuore la nostra sorte? Siamo così poveri, lo aveva redarguito preoccupato.

    Non ne posso più di contare i centesimi di lev che mi servono per comperare le sementi e il mangime delle galline! Voglio tentare la sorte. Lasciami andare! Devo avere quel ben di Dio, aveva ribattuto Gheorghi spavaldo.

    Credi davvero che Lucifero ti donerà monete d’oro e perle? Non fidarti! aveva insistito Stefan trattenendolo per la cintura.

    Tanti, tantissimi lev da spendere all’emporio del villaggio… E poi, la vostra tavola sarà sempre ricca e imbandita di leccornie. Mangerete a volontà pane bianco, carne di cinghiale, cacciagione, pesci del Mar Nero, uva e datteri, berrete vino bianco di Sofia, ma soprattutto nel vostro letto avrete donne procaci e sensuali pronte a soddisfare ogni vostro desiderio; potreste davvero avere il meglio dalla vita, se solo mi deste ascolto, aveva continuato suadente Lucifero.

    In cambio che cosa vuoi da noi? aveva tentennato Stefan, giunto ansimante davanti all’antro.

    A un tratto si era ricordato che l’asino era molto vecchio. Non era riuscito a mettere da parte neppure un lev per comperarne un altro. Se l’animale fosse morto stecchito dalla fatica, avrebbe dovuto muovere la pala della macina con la sola forza delle braccia. Ben presto una sorte simile sarebbe toccata anche a lui.

    Oh… una quisquilia: pesa qualche grammo, la vostra è ancora chiara. Non è di certo immacolata perché avrete senza dubbio commesso qualche peccatuccio... Il pope la chiama anima, aveva risposto Lucifero con finta noncuranza.

    Gheorghi si era divincolato dalla stretta. Intuita la disperazione del fratello, gli aveva chiesto: Come farai a far girare la pala del mulino se muore l’asino?

    Stefan si era preso la testa tra le mani.

    Non oso pensarci. Sarei rovinato, aveva risposto con un filo di voce.

    Ebbene? aveva incalzato raggiante il principe delle tenebre.

    Lentamente aveva iniziato a riporre le perle e le monete d’oro nel piccolo forziere nero che era posto al centro della tavola imbandita. Accanto agli scintillanti piatti di porcellana, vi erano posate d’argento e tovaglioli di pizzo bianco. Un servitore gobbo e di pelle scura, forse un turco sbucato dal nulla, aveva portato un vassoio ricolmo di invitante cibo speziato e cotto a puntino. Il profumo era irresistibile per chi era a digiuno da giorni. Lucifero aveva stappato la prima delle due bottiglie. Con eleganza misurata da ineccepibile padrone di casa, aveva versato il vino color del sangue nei calici di cristallo. Anche una polverina antracite, che pareva cenere spenta. Voltosi verso i due fratelli, aveva esclamato in tono di trionfo: Un buon brindisi è d’obbligo per festeggiare il vostro arrivo!

    Goffi, con passo incerto, Stefan e Gheorghi si erano fatti avanti per afferrare il calice e ne avevano bevuto il contenuto tutto d’un fiato. Sotto lo sguardo appagato di Lucifero, si erano seduti a tavola e avevano mangiato le vivande a quattro palmenti sebbene fossero colti da un progressivo, lento torpore che in breve era divenuto un sonno greve e popolato da strani personaggi. Portavano tutti quei giovani, dal corpo slanciato e dalle guance lisce, uniformi di vecchia data dell’impero austroungarico e di quello ottomano. Una smorfia crudele distorceva le loro labbra in un ghigno anche se, di primo acchito, apparivano belli come angeli. Attorno al capo, l’aureola fosca, trafitta da spine di lava incandescente, rivelava la loro vera identità. Non erano soldati di Dio, bensì sudditi di Lucifero. Ripuliti dalla barba e dai capelli incolti, in sogno, anche Stefan e Gheorghi si ammiravano vestiti con l’antica uniforme bulgara. Tra le mani serravano un coltello affilato. Sapevano che l’indomani, di ritorno alla realtà di Trigrad, avrebbero ucciso Ruzha, il padrone del loro fazzoletto di terra che, con urla e imprecazioni, esigeva un affitto esoso da anni. Nonostante si prostrassero in inchini e sorrisi servili al suo arrivo in sella a un ronzino nero, i due fratelli odiavano il padrone. Era un vecchio avaro che indossava ostinatamente ancora il caffetano turco come se ne fosse fiero. Convertitosi all’Islam in gioventù per avere sconti sul dazio delle merci importate da Istanbul, il grifagno Ruzha era malvisto in paese. L’oste dell’unica taverna di Trigrad lo serviva malvolentieri poiché quel prepotente latifondista tracannava boccali di vino rosso talvolta senza saldare il conto. Godeva forse dell’impunità davanti alla ripristinata legge bulgara?

    La campana aveva appena suonato il mezzogiorno. Stefan e Gheorghi si erano risvegliati di colpo dal pesante sonno che li aveva colti la notte prima nella Gola del Diavolo. Ritrovatisi nella piazza di Trigrad, con addosso degli inconsueti panni nuovi di zecca e le tasche piene di sonanti lev, si erano guardati attorno stupiti. Nel giorno della festa di Maria, il sagrato della chiesa candida, sovrastata da tre cupole dorate, era gremito di fedeli pronti a partire in processione. Avevano abbassato lo sguardo di brace sulla punta dei lucidi stivali di pelle nera che mai, prima di allora, si erano potuti permettere. In cuore sentivano odio, solo odio per Ruzha che, nonostante fosse diventato musulmano, seduto fuori dall’uscio di casa, non perdeva occasione di accendere una candela in chiesa per la salvezza dell’anima. Al buon figlio dei vicini, che invidiava per averlo messo al mondo sano e forte, consegnava l’obolo perché lo facesse al posto suo, restio a entrare in chiesa. La processione ortodossa fino all’argine del fiume lo rendeva nostalgico. Lo faceva sentire ancora prestante poiché coincideva a ogni primavera, con il ritorno delle cicogne che, dopo aver svernato in Africa, nidificavano sui tetti di paglia di Trigrad. Con un sussulto e una spina ancora conficcata nel cuore, ricordava la piccola Yana, l’unica figlioletta che Dio o Allah gli avesse mai concesso in tanti anni di matrimonio. Morta, esalato un sospiro di angelo, tra le braccia della madre, sebbene Ruzha non avesse badato a spese per il lieto evento. Quel ventun marzo nevicava forte. Aveva bruciato molta legna nel camino perché tutta la casa, ma soprattutto la stanza dove c’era la culla, fossero ben calde. Oltre la porta chiusa da ore, sentiva le voci della levatrice e della suocera, trambusto di sedie spostate, passi affrettati. Era in ansia, ma si rincuorava pensando alla cicogna che, per la prima volta, aveva fatto il nido sul suo tetto: vicino al comignolo per sentire il calore che saliva dalla casa. Si illudeva che fosse un buon presagio per il nascituro.

    Nell’ampia giubba Stefan e Gheorghi avevano nascosto il pugnale. Ritrovatisi di fronte al portale spalancato, udivano i canti e le lodi alla Vergine Addolorata dal cuore trafitto con sette spade, ma contrariamente a quanto avevano sempre fatto, non riuscivano a invocarne la benedizione. Provavano un profondo senso di disgusto a rimirarne il volto soave da lontano. Si sentivano inopportuni, fuori posto come se mai, in vita loro, avessero preso parte alla processione. Con il rimpianto di non essere più accanto ai bei giovani dal sorriso mefistofelico del sogno della notte precedente, si erano guardati l’un l’altro sbuffando d’impazienza.

    Demoni! Altro non siamo ormai che demoni. Diretti emissari di Lucifero… aveva bisbigliato Gheorghi.

    Stefan aveva fatto un cenno di assenso. Con passo deciso l’aveva seguito attraverso la piazza del villaggio. Quando furono giunti al ristorante di Atanas, che continuava a servire un ottimo caffè turco in barba alle proteste dei veri bulgari di Trigrad, si erano seduti a un tavolo con l’aria disinvolta dei ricchi. Ne avevano ordinati tre. Avevano sorriso a Ruzha, che li teneva d’occhio dall’altra parte del vicolo, accennando a una mezza riverenza.

    Un caffè turco anche per il nostro padrone… aveva spiegato Gheorghi allo stupito Atanas.

    Aveva pagato la consumazione in anticipo. Con un ampio gesto della mano sinistra, Stefan aveva mostrato una manciata di lev e invitato l’esterrefatto Ruzha, che fumava il narghilè, a unirsi a loro. Il vecchio non si era fatto pregare. Alzatosi di scatto dalla sedia, si era quasi messo a correre tanta era la curiosità di sapere come i due miseri fittavoli avessero fatto misteriosamente fortuna.

    Il baldacchino della Vergine, adorno di veli azzurri e di rose rosse, sorretto dagli uomini vestiti di bianco e preceduto dal severo pope, passava poco distante. Con i capelli intrecciati a fili di lana colorata, i bambini, tenuti per mano dalle madri, recitavano una litania che risuonava pura come l’aria che si respirava. Faceva ancora freddo, impertinente era il vento che tirava dal monte Sjutkia, ma la fede in Maria riscaldava quei cuori semplici. Stefan e Gheorghi non potevano sopportare le sembianze dolci e splendenti della statua. All’unisono avevano voltato le spalle al baldacchino.

    Mi dovete l’affitto, aveva esordito Ruzha, accostate le dita adunche al manico della tazzina.

    Abbiamo lasciato tutto il nostro danaro a casa… aveva mentito Stefan lisciandosi la manica della giubba fiammante.

    Verrò con voi a prenderlo!

    Sorbito il caffè bollente, Ruzha osservava gli stivali di ottima fattura dei fratelli con malcelata invidia.

    Siete davvero gentile a scomodarvi, padrone, aveva reiterato Gheorghi.

    Sì, siete davvero ben disposto verso di noi. Pagato l’affitto, vi accompagneremo a Trigrad con il calesse, si era affrettato ad aggiungere Stefan.

    Prima del tramonto?

    Certo, fidatevi di noi. Conviene mettersi in marcia di buon passo, avevano risposto a una voce sola.

    D’accordo. Andiamo, aveva abboccato Ruzha.

    Usciti dal villaggio, i tre uomini avevano preso la scorciatoia che, attraverso il bosco degli abeti rossi, costeggiando lo stagno gelido, portava al mulino sul fiume e alla fattoria. Ruzha non vi sarebbe mai giunto.

    2

    Il viaggio di Yana

    La fiamma degli abeti rossi, che sovrastano la Gola del Diavolo, spicca sui fianchi scoscesi e dilavati dalla pioggia. A inizio marzo, mista a neve, scende in rivoli che ingrossano il fiume su cui svetta l’imponente Sjutkia. Sale l’odore delle alghe verdastre che la corrente porta sulle rive. Arrivare a Trigrad dalla strada stretta e tortuosa, che s’inerpica tra i massi, non è facile. Di gente se ne incontra poca in inverno. Se non fosse per l’acqua rapida del fiume che, correndo verso l’antro, trascina i ciottoli levigati, il silenzio regnerebbe incontrastato. Sul picco del Sjutkia invece, fende l’aria come una lama il verso stridulo delle aquile. L’eco è un richiamo di morte. Ad ali spiegate, volteggiano in cielo prima di scendere sulle ignare prede. Ghermiti dai curvi artigli che non lasciano scampo, i ratti e le bisce non si divincolano. Rapiti dal greto, elevati in cielo per un istante che li riscatta da un’intera, infima esistenza, sembrano spogliarsi di ogni bruttezza prima di divenire cibo.

    Posatasi su una roccia sporgente, Yana si sentì stanca. Le ultime ore di migrazione dall’Africa avevano messo a dura prova la sua proverbiale resistenza. In balia del forte vento, aveva temuto di essere intrappolata in quel fatale mulinello di raffiche incrociate che le avrebbe fatto perdere quota; avrebbe rischiato di sfracellarsi contro la scogliera come era capitato poco prima ad Anton. Aveva appena perso il suo compagno e nessun dio le avrebbe permesso di rivederlo anche se fosse volata nella Gola del Diavolo. Gli animali non hanno né la cetra di Orfeo, né il dono della parola, né alcun talento se non l’istinto di sopravvivenza della loro specie. Solo con i sensi comunicano le intenzioni di un’indole semplice. Come ogni cicogna, Yana aveva sempre avuto la memoria corta, talvolta ovattata dal confuso ricordo delle tante esperienze vissute: quella immediata di una puerpera che stringe al seno il figlioletto appena nato. Brusco, Anton la becchettava sul petto per riportarla alla realtà quando si accorgeva che si preoccupava solo di dare amore, vermi e insetti ai loro piccoli. Procurava il cibo anche agli anziani genitori, che continuava a far volare adagiandoli sul dorso, invece di cercare sterpi e fieno per il nido. E poi, da maschio, Anton pretendeva la sua parte di attenzioni. Non vi avrebbe mai rinunciato perché Yana, in quanto femmina, gli doveva sottomissione. Le si avvicinava con il pretesto di capire se avesse freddo o fame. La becchettava sul collo e sulle ali. Continuava a farlo fino a quando la compagna non si lasciava prendere nella lenta danza dell’accoppiamento. Della sua dolcezza si nutriva come se fosse stato una succulenta cavalletta. Per Anton, il corpo di Yana era il cibo migliore. Possederla gli dava forza e vigore. Dopo ogni amplesso, si sentiva non un comune esemplare di cicogna, ma il re di tutte le cicogne sparse sul globo terracqueo. Dall’Africa all’Europa, le sue ali possenti e luminose, potevano forse rivaleggiare con quelle impareggiabili degli angeli, sfidare il vento più infido, affrontare la nube più minacciosa, il fulmine di fuoco, il tuono roboante senza timore alcuno poiché aveva Yana, la docile Yana al suo fianco. Mai vi avrebbe rinunciato, né se ne sarebbe separato. Ogni cicogna è fedele all’altra. Con un battito continuo del becco, simile al suono delle nacchere, le saliva sul dorso per afferrarle il collo. Dalla sua cloaca scendeva il seme in quella di Yana. A ogni primavera, giunti in volo a Trigrad, la fecondava mentre, con tenerezza, ricordava il giorno in cui le loro uova si erano dischiuse a distanza di qualche minuto l’una dall’altra al freddo sole del Sjutkia.

    Senza Anton, Yana si sentiva svuotata. Una femmina inutile. A nulla erano valsi i suoi disperati gracidii d’incoraggiamento durante la traversata dell’Egeo quando si era accorta che, nel cielo tempestoso, aveva ormai perso la rotta. A pochi metri, avrebbero dovuto seguire lo stormo che mai si ferma, ma, come era capitato ad Anton, anche altre cicogne avevano perso l’orientamento. Sbattevano le ali senza convinzione urtandosi a vicenda fino a cadere nel vortice del vento che le avrebbe risucchiate. Affranta, Yana aveva visto Anton precipitare sulle rocce, che si erano tinte di rosso. Non poteva scendere a dargli l’estremo saluto poiché il branco non l’avrebbe aspettata. La legge della sopravvivenza è inesorabile. Spesso aveva faticato ad adeguarvisi poiché, contrariamente alle altre cicogne, Yana sapeva amare il prossimo suo come se stessa. Anche se Anton era morto, non poteva fermarsi per non essere di cattivo esempio ai loro figli. Ormai adulti, volavano appaiati, fiduciosi di arrivare presto sui tetti di paglia del villaggio. Non si erano neppure accorti di aver perso il padre. Se Yana avesse loro raccontato che aveva sbagliato rotta, non le avrebbero di certo creduto.

    Gli occhi di una migrante, di una bianca cicogna in viaggio dall’Africa all’Europa, si seccano come fili di fieno tagliato. S’inaridiscono dato che non possono riversare, come quelli umani, lacrime di cristallo che sgorghino libere e cadano, a una a una, sul mondo. Yana si sentì impotente e il dolore le strinse le viscere in una morsa. Per sempre in cuor suo avrebbe conservato il ricordo di Anton, che le sarebbe bastato per vivere. Vacillò sulla roccia su cui si era fermata per riprendere le forze. Tremò di freddo e di fame. Capì che il suo ciclo vitale si era concluso. Nonostante volesse ancora essere fecondata, non avrebbe acconsentito ad accoppiarsi con un altro maschio del branco. Non avrebbe più deposto, né covato le uova e, trepidante, atteso che si dischiudessero. Volse il lungo becco verso la Gola del Diavolo, che, sinistra, si apriva in basso. La fissò. Udì il gorgoglio scrosciante del fiume che vi muore per un lungo tratto di sette chilometri prima di riemergere alla luce obliqua del Sjutkia. Decise che in autunno non se ne sarebbe andata dalla Bulgaria per migrare di nuovo in Africa. Sarebbe rimasta sul tetto di paglia del musulmano Ruzha, nel nido di fango suo e di Anton, che da tanti anni vi resisteva compatto, magicamente indenne alla clessidra lenta e inesorabile del tempo. Di quel paese amava le crude asprezze delle montagne, le verdi valli profumate di vivide rose, la timida gestualità della gente e l’azzurro trasparente del cielo. Vi si sentiva a suo agio come se, invece di essere una cicogna, fosse stata una donna. Preferiva Trigrad al villaggio di Izvor, prossima tappa del branco che aveva una rotta prefissata da secoli. Sì, il prossimo autunno, non sarebbe più volata via dalla Bulgaria. Sebbene Yana avesse la memoria labile, con gratitudine rammentava che era stato proprio un giovane e triste Ruzha ad affibbiarle quel dolce appellativo femminile quando la piccola bara bianca era uscita dalla sua casa. Insieme con il fedele servo Anton, rimasto ortodosso fin nel midollo che recitava una nenia funebre,

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