Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Il diavolo di Mergellina
Il diavolo di Mergellina
Il diavolo di Mergellina
Ebook411 pages

Il diavolo di Mergellina

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

La seconda indagine del Commissario Sasso

– Abbiamo riaperto le indagini.
– Dopo quarant’anni, chi ve lo fa fare?
– Fossero anche ottanta, andrò fino in fondo: ci sono un uomo assassinato in casa propria e una giovane donna incinta morta in circostanze che non esito a definire dubbie.
Un efferato omicidio aspetta il suo colpevole da decenni.
La riapertura del caso spinge chi lo vorrebbe irrisolto a mettere i bastoni tra le ruote della neonata Unità Delitti Insoluti.
Ma Sasso e Nardi non si fermeranno, seguiranno una pista ormai fredda, trovandone un’altra caldissima, al punto da correre il pericolo di bruciarsi. Sasso ha un disperato bisogno di soldi e accetta di dedicarsi a un caso apparentemente già risolto per provare l’innocenza dell’unico imputato. L’indagine non autorizzata lo costringe a complicati sotterfugi, ma alla fine avrà bisogno dell’aiuto dell’ispettore Nardi per concluderla. Ricatti, depistaggi, omicidi vecchi e nuovi: lavoro e vicende personali si confondono e si trasformano, ma la squadra porterà alla luce la verità e farà, forse, giustizia.
Dopo Morti e sepolti, numero uno Amazon, e il thriller storico La Donna dei Sigari, Alessandro Testa rimette in azione il commissario Sasso con Il diavolo di Mergellina.
LanguageItaliano
Release dateNov 30, 2018
ISBN9788894806601
Il diavolo di Mergellina

Read more from Alessandro Testa

Related to Il diavolo di Mergellina

Titles in the series (6)

View More

Police Procedural For You

View More

Related categories

Reviews for Il diavolo di Mergellina

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Il diavolo di Mergellina - Alessandro Testa

    ALESSANDRO TESTA

    IL DIAVOLO

    DI MERGELLINA

    Pagina di benvenuto

    Inizia a leggere

    Informazioni su questo libro

    Informazioni sull’autore

    Copyright

    Indice

    About this Book

    - Abbiamo riaperto le indagini.

    - Dopo quarant’anni, chi ve lo fa fare?

    - Fossero anche ottanta, andrò fino in fondo: ci sono un uomo assassinato in casa propria e una giovane donna incinta morta in circostanze che non esito a definire dubbie.

    Un efferato omicidio aspetta il suo colpevole da decenni. La riapertura del caso spinge chi lo vorrebbe irrisolto a mettere i bastoni tra le ruote della neonata Unità Delitti Insoluti. Ma Sasso e Nardi non si fermeranno, seguiranno una pista ormai fredda, trovandone un’altra caldissima, al punto da correre il pe-ricolo di bruciarsi. Sasso ha un disperato bisogno di soldi e accetta di dedicarsi a un caso apparentemente già risolto per provare l’innocenza dell’unico imputato. L’indagine non autorizzata lo costringe a complicati sotterfugi, ma alla fine avrà bisogno dell’aiuto dell’ispettore Nardi per concluderla. Ricatti, depistaggi, omicidi vecchi e nuovi: lavoro e vicende personali si confondono e si trasformano, ma la squadra porterà alla luce la verità e farà, forse, giustizia.

    Serie

    Limoni e Carboncini

    Dello stesso autore:

    Harara

    Morti e sepolti

    La Donna dei Sigari

    I segreti di Sandy Neck

    Maggio per sempre

    Questo libro è un'opera di finzione e, tranne che nel caso di fatti storici, qualsiasi somiglianza con persone reali, vive o morte, è puramente casuale. È stato fatto ogni sforzo per ottenere le autorizzazioni necessarie con riferimento a materiale protetto da copyright, sia illustrativo che citato. Ci scusiamo per eventuali omissioni al riguardo e saremo lieti di rendere i riconoscimenti appropriati in qualsiasi edizione futura.

    "Cosa è dritto?

    Una linea può esserlo, o una via,

    ma il cuore umano, oh no,

    ha curve come una strada di montagna."

    Tennessee Williams

    Un tram chiamato desiderio

    PROLOGO

    L’ombra

    Napoli, 15 aprile 1978

    Il citofono trillò per la seconda volta in cinque minuti. Pasquale Aletta imprecò, trascinandosi verso la porta. Credeva di essere stato abbastanza chiaro, evidentemente bisognava ripetere il concetto. Calciò via le ciabatte, che aveva infilato al contrario, lanciandole nel buio del corridoio.

    Che vuoi ancora? ruggì nella cornetta.

    Apri!

    La voce era diversa. Conosciuta e inaspettata nel sabato sera di pizza e birra da trascorrere guardando Raffaella Carrà.

    Non tengo tempo adesso, ripassa lunedì.

    Ma dieci carte da cinquantamila, le vuoi o no?

    La pizza era ormai fredda e la birra sfiatata. Vabbuo’ sali disse infine, aprendo il portone: almeno la serata sarebbe stata produttiva. Aprire la porta ai soldi non era mai un errore.

    Si sbagliava di grosso.

    Giravano intorno alla scrivania, con la Carrà a dimenarsi sullo schermo.

    Come è bello far l’amore da Trieste in giù…

    L’ombra spinse, stringendolo in un angolo. Rimase ferma a osservarlo, nell’irreale atmosfera del salotto che profumava di pizza.

    Com’è bello far l’amore io son pronta e tu?

    Ma che cazzo tieni in capa?

    L’ombra non rispose e spinse ancora. Aletta diede uno strappo, cercando di liberarsi.

    Tanti auguri a chi tanti amanti ha…

    Non era la prima volta che affrontava qualcuno in preda all’ira. Tutti agnellini, quando si trattava di chiedergli soldi; poi veniva il momento di pagare e se la pigliavano con lui, gli auguravano di spenderli tutti in medicine, di finire col cane e col bastone bianco, di morire tra atroci sofferenze.

    Però pagavano, alla fine, e pagavano tutti non per paura di rappresaglie cui non era mai ricorso ma per lo scuorno di essere riconosciuti e additati per strada.

    Lo scuorno, la vergogna, in un rione dove tutti conoscevano tutti era peggio di una mazziata.

    Capitava che qualcuno sbottasse e poteva anche capirli, quei poveri madonna. Non era vendicativo, cercava di immedesimarsi e quando alla fine si calmavano, perché poi si calmavano, non portava rancore.

    Ma dovevano pagare.

    A ben rifletterci, ora che i soldi gli venivano da persone con segreti da nascondere la situazione era diversa: senza cambiali da protestare, senza scuorno, l’unica arma era la minaccia di rivelare questo o quel terribile segreto.

    Anche in questo caso, però, pagavano tutti.

    L’ombra sollevò la scrivania e la spinse contro di lui. Lo spigolo lo colpì al basso ventre. Tu si’ pazzo, avrebbe voluto urlargli, ma il dolore gli aveva tolto il fiato costringendolo a piegarsi.

    Tanti auguri in campagna e in città…

    Sarebbe caduto a terra se non fosse stato bloccato in quella posizione da condannato sul ceppo del boia. Agitò le mani cercando un appiglio che gli consentisse di rialzarsi, di tornare a fronteggiare l’ombra, di lottare ancora, ché se ci fosse riuscito quella si sarebbe tranquillizzata, alla fine.

    E avrebbe pagato. Nessun rancore: capita a tutti di perdere il controllo. Pigliamoci un caffè, poi ve ne jate a casa e ne riparliamo lunedì.

    Questo avrebbe detto, una volta ripreso il controllo della situazione. Spinse la scrivania verso l’ombra e approfittò del momento per correre via dal salotto: si sarebbe chiuso in bagno dandogli il tempo di calmarsi, e se necessario avrebbe spalancato la finestra e avrebbe urlato. Non aveva bisogno della luce, sapeva dove girare e quanti passi fare, quattro, o tre se correva.

    Era al secondo quando il piede destro poggiò su una delle pantofole, facendogli perdere l’equilibrio e mandandolo a terra di schiena. Stava ancora cercando di rialzarsi quando la base di marmo di un soprammobile gli calò in testa, aprendogliela come fosse un’anguria matura.

    E Pasquale Aletta morì all’istante, in quella casa carica di odio, profumata di basilico e illuminata dagli strass del vestito della Carrà.

    Com’è bello far l’amore da Trieste in giù…

    L’ombra assestò un secondo colpo, più per inerzia che per effettiva necessità. Anche nella penombra distingueva le macchie scure sulla parete: sangue, materia grigia, schegge di osso e capelli.

    Era fatta, finita.

    Il contrasto tra l’odore di morte e l’aroma della margherita provocò dei conati di vomito. Corse in bagno a lavarsi le mani e a sciacquarsi la faccia. La luce inondò il corridoio, restituendogli lo spettacolo di un uomo senza quasi più la testa. Tornò in salotto, pulì il soprammobile e la manopola della porta di ingresso. A questo punto doveva solo trovare l’agenda. Perquisì ciò che restava di Aletta e la trovò nella tasca interna della giacca. Spense il televisore, troncando una barzelletta di Paolo Panelli, e lasciò l’appartamento al suo odore di morte e mozzarella cotta.

    La luce

    Mergellina, 18 ottobre 1978

    Il dipinto era enorme, immerso in una cornice ricca d’oro e intarsi. Ma non era quella ad attirare lo sguardo di Giulia Lojacono. Era il diavolo, il cui volto femminile e seducente pareva ammiccare all’osservatore mentre la lancia di San Michele gli trafiggeva il collo

    Viene ‘cca, fatte vede’ ca si bella e ‘nfame comme o riavolo ‘e Mergellina.

    Bella e infame come il diavolo di Mergellina.

    A Giulia lo aveva detto lui, la prima volta che avevano fatto l’amore in macchina al Virgiliano: le aveva preso il viso tra le mani calde per esporlo alla luce della luna piena. Un complimento, quel potere che a suo dire lo aveva irretito e spinto a cedere.

    E lei ci aveva creduto.

    L’ultima volta invece era stato al culmine di un litigio, l’ennesimo.

    Sei bella e infame, ma fai attenzione che finirai come il diavolo di Mergellina. Una variazione sul tema, dal complimento alla minaccia.

    Si fece il segno della croce e si avvicinò, osservando i particolari del dipinto: così insolito il contrasto tra la lancia e quel viso che sembrava invitare al piacere piuttosto che raffigurare l’estrema sofferenza. Gli occhi del diavolo erano liquidi, velati da qualcosa che lei conosceva fin troppo bene: il piacere di un incontro carnale, o la sua anticipazione.

    Ma che pensieri da fare in una chiesa! Si riscosse e per riflesso recitò l’Ave Maria. Si guardò intorno per assicurarsi che nessuno la vedesse, quindi infilò una mano dietro la cornice, nel ristretto spazio tra il dipinto e il muro. Le dita toccarono ciò che lei stessa aveva nascosto: era ancora lì, grazie a Dio.

    Forse avrebbe dovuto fidarsi di don Giorgio, che con la sua sfortunata famiglia aveva sempre avuto un rapporto stretto, ma non se l’era sentita. E così, il prezioso contenuto di quel pacchetto aveva trovato posto dietro il Diavolo di Mergellina. C’era una certa ironia in tutto ciò, ma a Giulia interessava solo che fosse al sicuro.

    E se anche qualcuno lo avesse trovato…

    Ma non sarebbe accaduto. Si allontanò verso la statua della Madonna del parto; si inginocchiò un po’ a fatica, ormai la pancia la costringeva a movimenti goffi. Pregare, affidare la propria gravidanza alla Madonna sorridente, col serpente del male schiacciato sotto i piedi, erano ormai l’unico motivo che la faceva uscire di casa. Non tanto per il peso e la goffaggine quanto per il timore.

    Il terrore, a essere precisi, perché l’eco di quella minaccia continuava a rimbombarle in testa e si era convinta che solo la sicurezza delle mura di casa potesse proteggerla.

    Quelle e la Madonna del parto che proteggeva le future madri.

    Giulia.

    Don Giorgio le bloccava il passaggio con la sua mole imponente. Resistendo all’impulso di scostarlo e correre via, lo salutò da buona fedele.

    Sia Lodato Gesù Cristo, padre.

    Sempre sia lodato. Come stai?

    Bene.

    Sicura?

    Il tono indagatore la mise a disagio. Sicura, sicura.

    Lui la scrutò, per nulla convinto. Sei così pallida. Mangi a sufficienza? Mangi per due?

    Anche per tre, padre. Ora devo andare altrimenti non trovo più pane.

    Oggi è mercoledì.

    Salumerie chiuse. Che stupida. Lo comprerò alla bancarella.

    Don Giorgio le mise una mano sulla spalla. Un tocco delicato, quello di un padre premuroso e preoccupato. "Giulia, lo sai che io sono qua sempre, vero? Non solo per confessare e comunicare; di qualsiasi cosa tu abbia bisogno, io posso e voglio, anzi devo aiutarti."

    E come potresti, pensò. Lo so, e vi prometto che sarete la prima persona cui chiederò consiglio se ne avrò bisogno.

    I loro sguardi si incrociarono: sapevano entrambi che era una bugia.

    Allora va’ pure ma fai attenzione.

    Il prete si fece da parte, lasciandola uscire. Il sole era basso, l’aria tersa e tutto profumava di mare. Un posto bellissimo, se solo avesse avuto la possibilità di goderselo.

    Doveva fare attenzione, don Giorgio non si sbagliava.

    Scendendo le scale, ripensò alle parole che il padre della sua creatura le aveva rovesciato addosso, in auto, qualche giorno prima: le aveva detto tante di quelle cose orrende che lei era scoppiata a piangere, sopraffatta dalle offese.

    Questo bastardo non nascerà, le aveva urlato dietro mentre usciva dall’auto e correva verso casa.

    Giulia si fermò al limite del marciapiede. I passanti correvano sulle strisce mentre il verde passava al giallo e i motori delle auto ferme al semaforo rombavano impazienti. Il giallo passò al rosso e un attimo dopo decine di veicoli e motociclette si lanciarono a tutta.

    Alzò lo sguardo verso il sole che stava tramontando dietro una coltre di nuvole rosa; la luce era piacevole. Rosso di sera, domani sarebbe stata un’altra bella giornata di ottobre.

    La forza la spinse e lei cadde in avanti proprio mentre le fredde luci dei fari di un camion le arrivavano addosso, accecandola. Non ebbe tempo per chiedersi cosa le fosse accaduto: ferma sull’asfalto col mezzo che arrivava a velocità piena e le urla dei passanti, capì di essere alla fine.

    Nell’ultimo istante prima dell’impatto, mentre la luce le entrava dentro come una lama affilata, pensò al bambino che non sarebbe mai nato e al diavolo di Mergellina.

    UNO

    Il passato non è un pacchetto

    che si può mettere da parte

    Emily Dickinson

    I

    Chiesa di Santa Maria del Parto, Mergellina

    Don Giorgio trattenne il respiro.

    Santa Maria Madre di Dio…

    Vai ordinò il capo squadra. Un attimo dopo, il complicato sistema di carrucole e cavi mosso da un motore elettrico si tese. La tensione raggiunse l’imbragatura e il dipinto si staccò dal muro al quale era rimasto appeso per secoli. Tre uomini lo tenevano, impedendogli di ondeggiare mentre un quarto manovrava i cavi affinché andasse a posizionarsi sulla piattaforma.

    Prega per noi peccatori...

    Aveva seguito ogni fase. Due giorni trascorsi tra la paura che qualcosa potesse andare storto e la certezza che gli sarebbe stata attribuita la responsabilità per qualsiasi danno. Non era stato semplice convincere il Cardinale che il San Michele che scaccia il demonio, una tela dipinta da Leonardo da Pistoia nel XVI secolo, doveva essere restaurata, prima che i danni diventassero irrimediabili. I soldi per il restauro erano arrivati grazie a una sottoscrizione e lui stesso aveva convinto l’impresa a effettuare il trasporto a Roma senza chiedere compensi esagerati. La tela era stata fotografata e riprodotta a grandezza naturale cosicché sarebbe stato possibile ammirarne una copia per tutto il tempo necessario al restauro.

    Adesso e nell’ora della nostra morte…

    Il dipinto si posò sulla base di legno, scorrendo senza intoppi lungo le guide imbottite che l’avrebbero tenuto fermo durante il trasporto. È messo davvero male commentò il funzionario della sovrintendenza alle belle arti.

    Amen.

    Alle sue spalle, un gruppo di donne col capo velato pregavano, sussurrando il rosario a suffragio dell’impresa. Gli operai montarono la copertura di legno, la inchiodarono e, per buona misura, le avvolserointorno altre corde. La piattaforma, spinta a mano, si avviò verso l’uscita dove il furgone attendeva il prezioso carico. Allora… Se sussurrando indietro al centro lame

    Ormai è fatta, si disse facendo il segno della croce e sorridendo alle fedeli.

    Sia lodato Gesù Cristo.

    Sempre sia lodato! fu la risposta in coro.

    Lo spazio di parete lasciato vuoto dal quadro era un pugno nell’occhio. Il tempo di ripulire e passare una mano di bianco e la riproduzione sarebbe stata attaccata. E sarebbe iniziata la lunga attesa.

    Cristina, dai una spazzata e togli tutte le ragnatele che oggi pomeriggio viene Gennaro a dare una mano di bianco.

    Io fa subito ma tu misura pressione e scrivi su foglio. La giovane rumena che gli faceva da perpetua, governante e infermiera prese secchio e stracci e si mise al lavoro. Ora poteva concedersi un po’ di riposo, che alla sua età tutto quello strapazzo poteva costargli caro.

    Qui qualcosa! esclamò Cristina, facendogli segno di avvicinarsi.

    Cosa c’è adesso?

    Qualcosa.

    Qualcosa. Don Giorgio rivolse alla statua della Madonna del Parto una muta invocazione di perdono per l’imprecazione rimastagli in bocca e tornò sui suoi passi. Cristina aveva raccolto quello che sembrava un plico avvolto in carta da giornale. Il tempo aveva ingiallito la carta e annerito il nastro adesivo.

    Forse caduto da quadro?

    Dammi qua.

    Non era pesante; a giudicare da come gli si piegava tra le mani doveva trattarsi di carta.

    Io pulito ieri e non c’è niente giuro.

    Ti credo, stai tranquilla. Ora continua o Gennaro troverà la scusa per non fare il suo lavoro. Se mi cercano sono nello studio.

    Ricorda pressione! Cristina tornò a spazzare il pavimento cosparso di polvere e calcina strappata al muro. Don Giorgio attraversò la sagrestia e salì al piano superiore, si sistemò alla scrivania e riprese fiato: a oltre settant’anni, avrebbe dovuto essere in pensione ma la crisi delle vocazioni era grave e non se l’era sentita di lasciare. Con tutta probabilità lo avrebbe sostituito un parroco polacco o senegalese, ché di italiani se n’era persa traccia. Le poche scale appena fatte gli procuravano inquietanti fitte al torace e un affanno che ci metteva ogni volta più tempo a passare.

    Signore dammi la forza di resistere. O trovami subito un sostituto.

    Misurò la pressione e annotò i valori sul piccolo registro che il cardiologo gli aveva dato: le medicine la tenevano sotto controllo e questo era un bene. Rinfrancato, tornò a osservare il vecchio plico.

    Doveva chiamare la Curia? La polizia? Poteva trattarsi di qualcosa di pericoloso?

    Esagerato, si disse, scartando l’idea mentre cercava le forbici in un cassetto. Tagliò il nastro adesivo badando a non strappare la carta: la prima pagina del Il Mattino del 6 settembre 1978.

    La Roulette di Camp David: Carter rischia più di Begin e Sadat

    Il maltempo sconvolge la provincia di Napoli

    Muore di infarto davanti al papa il metropolita ortodosso

    Bomba esplode sui binari della Firenze Bologna: per caso non si è ripetuta la strage dell’Italicus

    Altri trafiletti approfondivano i titoli principali e la sua memoria tornò per un attimo al 1978, quando aveva 46 anni e da due era parroco di Santa Maria del parto. Conservava una memoria nitida di quel periodo turbolento: certo era più giovane e in ottima salute. Ricordò le passeggiate sul lungomare e il sole di Mergellina. Il sole c’era ancora ma il medico gli aveva proibito di esporvisi e le passeggiate si erano ormai ridotte a dolorose processioni di poche centinaia di metri; quanto bastava per ricordargli che le sue ossa fragili non potevano più assecondare il desiderio di respirare l’aria salmastra.

    Ogni scarpa diventa scarpone mormorò ripiegando il foglio di giornale; ora sapeva che chiunque avesse nascosto il plico dietro il dipinto non poteva averlo fatto prima del 6 settembre 1978. Si congratulò per la brillante deduzione, prese in mano i fogli di carta e lesse la prima pagina.

    Era scritta mano, con grafia rotonda e regolare.

    A chiunque venga in possesso di queste pagine.

    Qui ci sono le prove che un delitto è rimasto senza colpevole grazie alle manovre di persone influenti che hanno agito per mano di gente priva di scrupoli. Io stessa temo per la mia vita ma confido nella Madonna del Parto affinché protegga me e la creatura che porto in grembo. Confido che ci protegga entrambe da chi sta cercando di chiudermi la bocca. Queste pagine fanno paura a molti che non esiterebbero a uccidere ancora.

    Giulia Lojacono

    Don Giorgio lasciò cadere il foglio, e tremando raggiunse la cucina per bere dell’acqua fresca. Sentiva il cuore in gola e un sudore freddo bagnargli la schiena mentre cercava inutilmente di convincersi che non poteva trattarsi di lei.

    Non lei, non Giulia, Signore Iddio!

    Tornato alla scrivania, attese che le palpitazioni si fossero calmate prima di riprendere la lettura. Le pagine erano in realtà fotocopie: cifre in colonna, nomi cancellati e altri abbreviati, alcuni sottolineati e molti scritti in stampatello. Nomi che accesero infinite lampadine nella sua memoria.

    Ma le cifre?

    Cristina! urlò affacciandosi nelle scale. Alcuni istanti più tardi, il viso corrucciato della ragazza fece capolino dalla sagrestia.

    Lascia tutto e prendi l’auto, devi portarmi urgentemente in un posto.

    Cristina impallidì. Tu senti male?

    Sì, cioè no. Ho fretta, è importante.

    Ma io non finito di pulire. E Gennaro poi non pitta.

    E Gennaro pitta domani!

    Cristina si strinse nelle spalle. Tu capo di chiesa. Prendo macchina, tu scendi scale e aspetta davanti a ristorante.

    Don Giorgio raccolse i fogli e li infilò in una cartellina di pelle, indossò il cappotto e scese le scale, attraversando la sacrestia. In chiesa, si fermò brevemente davanti all’altare e per la seconda volta implorò la Madonna di perdonarlo per ciò che stava per fare.

    Dove? chiese Cristina quando fu salito sulla vecchia Punto che usava solo per spostamenti urgenti.

    All’Istituto Pascale.

    Lei sgranò gli occhi. Tu ha tumore e non dici?

    "Benedetta ragazza, avvia questa caffettiera e portami dove ti ho detto senza fare più domande!

    II

    Istituto dei Tumori G. Pascale di Napoli,

    Nelle settimane precedenti aveva visitato molte volte quel reparto. Don Giorgio conosceva la famiglia Lojacono da sempre, era coetaneo del defunto signor Lanfranco e con lui aveva condiviso una difficile infanzia per le strade del rione Mercato, la guerra, la ricostruzione e infine la ripresa. Le loro strade si erano separate quando lui era entrato in seminario e Lanfranco era stato assunto alla Redaelli come operaio specializzato. Aveva celebrato il suo matrimonio, naturalmente.

    E il suo funerale.

    Lanfranco Lojacono era morto nel 1972 per un incidente in fabbrica.

    Sua moglie nel 2000, dopo una lunga malattia.

    E nel mezzo la tragedia della povera Giulia, morta nel ‘78.

    Una famiglia senza pace, le cui vicende lo avevano posto lungo il pericoloso crinale della crisi di fede: come poteva il Signore ignorare il dramma di gente semplice, onesta, timorata di Dio?

    Don Giorgio.

    Strinse distrattamente la mano del caposala, mormorò un paio di frasi di circostanza e infine si avviò lungo il corridoio del reparto che conosceva bene. Stanza 407, letto b.

    Ciro Lojacono sedeva nel letto, intento a leggere qualcosa su un tablet. Quando lo vide, tolse gli spessi occhiali, sorpreso. Don Giorgio, come mai qui?

    E come mai.

    Ti trovo bene mentì, ignorando di proposito la domanda. Ciro Lojacono era il fantasma del ragazzone che era stato prima di ammalarsi; magrissimo, il viso terreo e gli occhi che gli parevano sul punto di schizzargli via dalle orbite. Aveva perso quasi del tutto i capelli e i denti erano scuri, macchiati come se avesse appena mangiato della cioccolata.

    La chemioterapia, i due interventi chirurgici. Don Giorgio si sforzò di mantenere un’espressione neutra.

    Mi trovate bene? Allora siete voi che avete bisogno di questi occhiali, padre.

    Insomma, rispetto a quando sei uscito dalla sala operatoria.

    Ciro Lojacono posò il tablet. C’è qualcosa che dovete dirmi? Che è successo?

    Don Giorgio prese la sedia e ci si accomodò. Aprì la cartellina e tirò fuori il foglio dattiloscritto, porgendoglielo. L’ho trovato stamattina, dietro al Diavolo di Mergellina; lo devono restaurare, è caduto quando lo hanno staccato dal muro.

    Lojacono lesse, rilesse, girò il foglio e infine lo lasciò cadere in grembo. Gesù riuscì a dire in un sussurro.

    Deve averlo nascosto dietro il quadro quando veniva in chiesa per pregare, durante la gravidanza.

    E queste pagine di cui parla?

    Il plico passò di mano, e di nuovo Lojacono si prese il suo tempo per esaminare le fotocopie.

    È una contabilità disse infine.

    Io non ci ho capito nulla, ma conosco molti di quei nomi e una cosa è sicura, Ciro: Giulia temeva per la sua vita, altrimenti non li avrebbe nascosti. Mi chiedo perché non me li abbia affidati, piuttosto.

    Entrambi rimasero in silenzio per un po’, ricordando Giulia com’era nel ‘78. Quando aveva scoperto di essere incinta era corsa da lui per confessarsi e ricevere un supporto. Pensavo fosse solo spaventata dalla gravidanza, se solo avessi sospettato.

    E io ero a Los Angeles; sarei dovuto restare qui a proteggerla invece di sognare la gloria.

    Ciro Lojacono era un programmatore ed esperto di software per la sicurezza; il suo lavoro consisteva nel progettare sistemi di difesa per computer e reti aziendali capaci di resistere alla maggior parte degli hacker in circolazione. Non aveva raggiunto la gloria ma di sicuro una posizione molto agiata.

    Tu eri alla ricerca del tuo posto nel mondo, guaglio’; non addossarti colpe che non hai. Sono sicuro che, se anche fossi stato qua a Napoli, lei non ti avrebbe detto niente. Manco della gravidanza avresti saputo.

    E adesso questo Lojacono indicò le fotocopie.

    Si guardarono per alcuni istanti. Gli occhi di Ciro erano velati dalla stanchezza e, Don Giorgio ne era certo, dal dolore per quelle inaspettate memorie.

    Se Giulia le ha nascoste, le userò per onorare la sua memoria.

    E come?

    Ciro Lojacono si adagiò sul letto, gli occhi chiusi e il respiro pesante. Non lo so ancora, don Giorgio, ma so che devo fare presto perché il cancro mi sta mangiando.

    III

    Istituto dei Tumori, alcuni giorni dopo

    Avete bisogno? chiese l’infermiera alla coppia di anziani ferma davanti al bancone della medicheria.

    Il signor Lojacono spiegò l’uomo.

    Siete suoi familiari?

    No, rispose la donna, e l’infermiera provò un’immediata antipatia per quella sua aria da padrona, a disagio per il solo fatto di doversi abbassare a chiedere qualcosa invece di pretenderla.

    O forse la sua era invidia per la spilla con rubini che trafiggeva la preziosa stoffa di un tailleur che non avrebbe potuto permettersi neanche con la liquidazione.

    Siamo attesi precisò lui.

    Posso avere i vostri nomi per favore?

    Insomma, questo è un ospedale o la questura?

    Un ospedale, signora. E come in tutti gli ospedali vengono rispettate precise regole sulla privacy dei pazienti.

    L’uomo posò sul bancone una mano curata, le unghie lucide di manicure e il polso sottile fasciato da un orologio d’oro; quando la ritrasse, l’infermiera vide tre banconote piegate.

    Nessuno intende violare le regole; vorremmo solo che di questa nostra visita non restassero tracce. Noi non siamo mai stati qui, lei non ci ha mai visto.

    L’infermiera infilò i tre biglietti da cento euro nella tasca del camice. Stanza 23 disse, tornando a sfogliare la rivista.

    Un medico era intento a regolare qualcosa sulla console del monitor alla testa del letto.

    Le sue condizioni peggiorano a vista d’occhio. Era prevedibile.

    L’uomo fissò lo schermo, cercando invano un significato tra le cifre che cambiavano di continuo. È in coma?

    Lo hanno sedato, ma in maniera leggera. Se gli parlate vi ascolterà e dovrebbe essere in grado di rispondervi.

    Il medico lasciò la stanza. La donna si assicurò che la porta fosse ben chiusa e si avvicinò al letto.

    Siamo qui.

    Ciro Lojacono aprì gli occhi. Speravo di potervi accogliere in condizioni migliori ma come vedete sono a mala pena in grado di parlare; è per questo che ho scritto una lettera, così potrete leggerla con calma e io non dovrò affaticarmi inutilmente. È in un file, l’unico nel desktop del mio tablet che troverete nel cassetto.

    L’uomo estrasse il tablet e aprì il file mentre la donna gli si appoggiava alla spalla per leggere con lui.

    Napoli, 15 aprile 2016

    Da qualche parte, in un posto che non trovereste nemmeno in mille anni, sono custodite due cose: la prima è il diario di mia sorella, scritto tra il 1977 e il 1978. La sorte volle che fossi io a venirne in possesso e l’ho custodito come una reliquia; dopo averne letto il contenuto decisi di non rivelarlo perché sapevo che da solo quel diario non costituisce una prova.

    E questo ci porta alla seconda cosa: una serie di fotocopie molto ben conservate.

    Non perderò tempo a descriverne il contenuto, sappiate solo che si tratta di contabilità: cifre e nomi, e non aggiungo altro. Queste fotocopie sono spuntate fuori solo ora, per un puro caso, e costituiscono la prova che mancava.

    Non vi chiedo una confessione, perché non voglio rischiare che altro fango sporchi la sua memoria. Siete ricchi, potenti, avete mezzi e allora perché non utilizzarli per fare del bene? Così, per ristabilire l’equilibrio rovinato da ciò che accadde quasi quarant’anni fa. Ed ecco la mia richiesta.

    Attivare una borsa di studio per studenti meritevoli ma privi di mezzi, diciamo quattro ogni anno, affinché possano sostenere le spese universitarie e frequentare i migliori studi legali del paese o pagarsi la costosa preparazione privata ai concorsi per magistrato o notaio. Lascio a voi scegliere tempi e modi; l’unica condizione è che queste borse di studio siano intitolate e dedicate a mia sorella.

    Questo atto, che a voi costerà al massimo del tempo e una infinitesima frazione del vostro patrimonio, vi comprerà il mio silenzio e la definitiva scomparsa dell’agenda.

    Do per scontato che accettiate, perché in caso contrario la suddetta ritornerà alla luce e sarà pubblicata. Se state pensando a un bluff, in fondo a questa lettera troverete alcune foto scattate alle pagine del diario e un paio di quelle fotocopie.

    Ho fatto una copia di tutto e l’ho consegnata in mani sicure che la spediranno alla stampa se le cose non dovessero andare come da me previsto.

    E se state pensando che queste siano solo le parole di un moribondo e che morto il sottoscritto tutto resterà così com’è stato dal 78, sappiate che ho predisposto la spedizione di una mail destinata alla redazione cronaca de Il Mattino, in cui un anonimo cittadino chiede di far luce su un vecchio caso irrisolto.

    Sapete come funziona: ci saranno clamore, pressione della stampa e una probabilità non piccola che qualcuno riesca a collegare questo omicidio con

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1