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Il canto del cigno: La saga dei Forsyte VI
Il canto del cigno: La saga dei Forsyte VI
Il canto del cigno: La saga dei Forsyte VI
Ebook452 pages6 hours

Il canto del cigno: La saga dei Forsyte VI

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About this ebook

Londra. Dopo l’auto esilio in America, Jon Forsyte decide di tornare in patria, con sua moglie Anne.
Nonostante i sette anni trascorsi, un matrimonio e un figlio, Fleur non ha mai dimenticato il suo primo amore, e per lui non esita a mettere a repentaglio la felicità di due famiglie e tutto ciò che possiede.
L’inesorabile passione della figlia di Soames innesca una catena di eventi che portano al tragico epilogo di una storia iniziata quasi cinquant’anni prima, con il matrimonio di Soames e Irene, la madre del giovane Jon.
La toccante conclusione del secondo ciclo di romanzi dedicati alla famiglia Forsyte, e il congedo di un personaggio indimenticabile.
Contiene l’interludio Incontro.
LanguageItaliano
Release dateNov 12, 2018
ISBN9788899403638
Il canto del cigno: La saga dei Forsyte VI
Author

John Galsworthy

John Galsworthy was a Nobel-Prize (1932) winning English dramatist, novelist, and poet born to an upper-middle class family in Surrey, England. He attended Harrow and trained as a barrister at New College, Oxford. Although called to the bar in 1890, rather than practise law, Galsworthy travelled extensively and began to write. It was as a playwright Galsworthy had his first success. His plays—like his most famous work, the series of novels comprising The Forsyte Saga—dealt primarily with class and the social issues of the day, and he was especially harsh on the class from which he himself came.

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    Il canto del cigno - John Galsworthy

    34

    Dello stesso autore nella collana Aurora:

    Il possidente. La saga dei Forsyte vol. I

    In tribunale. La saga dei Forsyte vol. II

    In affitto. La saga dei Forsyte vol. III

    La scimmia bianca. La saga dei Forsyte vol. IV

    Il cucchiaio d'argento. La saga dei Forsyte vol. V

    I racconti di Casa Forsyte

    John Galsworthy, Il canto del cigno (La saga dei Forsyte, vol. VI)

    1a edizione Landscape Books, novembre 2018

    Collana Aurora n° 34

    © Landscape Books 2018

    Titolo originale: Swan Song. A Modern Comedy III

    Traduzione di Guido Del Duca (per "Passers By", Incontro) e Maria Martone Napolitano e Olga Gogala (per Il canto del cigno,

    riveduta e corretta dall'edizione Corbaccio 1932)

    www.landscape-books.com

    ISBN 978-88-99403-63-8

    In copertina: Silver Moonlight di John Atkinson Grimshaw

    Realizzazione editoriale a cura di WAY TO ePUB

    www.waytoepub.com

    John Galsworthy

    La saga dei Forsyte vi

    Il canto del cigno

    INTERLUDIO

    INCONTRO

    I.

    A Washington, D.C., splendeva il sole autunnale, e tutto ciò che non era sempreverde o di pietra riluceva nel cimitero di Rock Creek.

    Davanti alla statua di Saint-Gaudens, Soames Forsyte sedeva, in soprabito, con la schiena contro la spalliera di marmo, godendosi la solitudine e un raggio di sole che filtrava tra i cipressi.

    Era già stato in quel posto il pomeriggio precedente con la figlia e il genero, e se n’era innamorato. A parte l’attrazione in genere del cimitero, quella statua risvegliava il suo gusto d’intenditore. Anche se non era cosa che si potesse acquistare, indubbiamente era un’opera d’arte e faceva un effetto notevole. Egli non ricordava di aver mai visto una statua così in grado di farlo sentire a casa.

    La grande bronzea figura verdastra di donna seduta e avvolta nelle pieghe dell’ampio mantello gli smuoveva l’animo nel profondo. Il giorno prima, con Fleur, Michael e altra gente, tutti estasiati al pari di lui, egli non aveva tanto notato lo spirito dell’opera quanto l’eccellenza della fattura, ma ora che era solo poteva abbandonarsi pienamente alle proprie sensazioni.

    Alcuni la chiamavano Dolore, altri Memoriale Adams. Lui non sapeva come chiamarla, ma sapeva che era la cosa più bella che avesse visto in America malgrado tutta l’acqua del Niagara e i grattacieli di New York.

    Già tre volte aveva cambiato posizione sul sedile di marmo a semicerchio, e ogni volta aveva cambiato sentimento. Dal posto attuale la donna gli appariva al di là del dolore. Sedeva in gelida rassegnazione più profonda della morte, davvero straordinaria! C’era qualcosa nella morte! Si ricordò di suo padre, James, un quarto d’ora dopo il trapasso, come se… come se finalmente sapesse tutto!

    Una foglia di quercia rossa gli cadde sul bavero, un’altra sul ginocchio; Soames non le scrollò via. Era così facile, restare immobili dinanzi a quella cosa!

    Avrebbero dovuto obbligare tutti gli americani a sedersi lì una volta la settimana.

    Si alzò, si avvicinò alla statua e delicatamente toccò una delle pieghe di bronzo verde, come a interrogare le possibilità del nulla senza fine.

    «Ho una sorella a Dallas... Sposata con un ferroviere. Ah! Il Texas è meraviglioso... Mia sorella si mette a ridere quando le dicono che il clima del Texas non è salutare».

    Soames ritrasse la mano dal bronzo e tornò a sedersi. Due alte e magre figure di anziani stavano entrando nel cimitero. Andarono dritte al centro e rimasero in silenzio. Poi una disse: «Bene!» e tutte e due mossero via dall’altra parte.

    Un leggero alito di vento agitò alcune foglie cadute intorno alla base della statua. Soames si spostò sul sedile sino all’estremità sinistra. Di là, la statua tornava donna – nobilissima! Ed egli si tenne immobile in attitudine di pensatore, la parte inferiore della faccia nascosta nella mano.

    Piuttosto abbronzato ed evidentemente in ottime condizioni di salute, egli si era abituato a considerarsi esausto per il lungo viaggio che, compiuto il giro del mondo, sarebbe terminato tra due giorni con l’imbarco sull’Adelphic. Quella gita di tre giorni a Washington era l’ultimo sforzo, ed egli lo sopportava benissimo. La città era ridente, con begli edifici e una profusione di alberi variopinti dall’autunno; non era febbrile come New York, e pareva che nelle sue case si potesse vivere. Naturalmente era gremita di americani, ma questo era inevitabile.

    Soames si sentiva contento anche per Fleur; aveva praticamente dimenticato l’increscioso affare Ferrar, mostrava di essere in ottimi rapporti con Michael, e non vedeva l’ora di tornare a casa dal suo bambino. C’era così in Soames un’impressione di adempimento e di pace – un senso di virtù che era la sua ricompensa e, soprattutto, il pensiero di poter tra breve annusare di nuovo l’erba inglese e veder scorrere il fiume davanti alle sue mucche. Anche Annette sarebbe stata contenta di riaverlo... le aveva comprato un braccialetto di smeraldi veramente bello, a New York. A questo stato di soddisfazione generale quella monumentale immagine del Dolore dava il tocco definitivo.

    «Ci siamo, Anne».

    Una voce inglese, e due giovani all’altra estremità... lì per chiacchierare, supponeva. E Soames già si preparava ad alzarsi ed andarsene quando sentì la ragazza, con voce americana stavolta, ma dolce e stranamente intima, dire:

    «Ah, è, grandiosa, John! Mi scava dentro, qui...»

    Dal gesto della mano Soames vide che quel qui era lo stesso posto dove si sentiva scavare lui.

    «Che immobile eternità! Mi rende triste, John!»

    Il giovane infilò il suo braccio in quello della ragazza, e mostrò il viso. Con la rapidità del pensiero, metà della faccia di Soames riaffondò allora nella mano. John? Era piuttosto Jon che quella ragazza aveva inteso chiamarlo. Poiché si trattava del giovane Jon Forsyte... senza alcun dubbio! E la ragazza era sua moglie, sorella di quel giovane americano, Francis Wilmot, che aveva conosciuto a Londra.

    Che disdetta! Riconosceva perfettamente il ragazzo, per quanto non lo avesse veduto che tre volte, una nella galleria dietro a Cork Street, una dal pasticciere, lo stesso giorno, e una quel brutto pomeriggio ch’era andato a Robin Hill per pregare la sua divorziata prima moglie di lasciare che i loro figlioli si sposassero... Mai egli aveva gioito tanto di un rifiuto: mai l’opportunità degli eventi aveva avuto miglior conferma; eppure l’angoscia sofferta nel riferire a Fleur di quel rifiuto gli restava nella memoria come una rossa brace ancora accesa sotto le ceneri del tempo.

    Soames volle assicurarsi, riparato dalla falda del cappello e dalla mano. Il giovane teneva la testa scoperta come per riverenza verso la statua. Si vedeva ch’era un Forsyte, malgrado quella folta chioma. Poeta... aveva sentito dire! Il viso non era male; aveva quello che chiamano fascino; gli occhi, come suo nonno, il vecchio Jolyon, profondamente infossati e del medesimo colore, grigio scuro; i lineamenti fini della testa gli venivano per lo più dalla madre, ma il mento era il mento dei Forsyte.

    Soames passò a esaminare la ragazza. Piuttosto alta, colorito abbronzato pallido, capelli castani, occhi neri; grazioso il modo di muovere il collo, e grazioso il portamento; e diritta, una persona attraente! Ma come poteva averla scelta un giovane che era stato innamorato di Fleur?... Per essere americana, a ogni modo, aveva della naturalezza, con qualche cosa di ninfa, con una specie di riservatezza...

    Nulla in America aveva tanto colpito Soames quanto la mancanza di riservatezza. Se uno sentiva il bisogno di un po’ d’intimità doveva staccare il ricevitore del telefono e cacciarsi nel bagno... Altrimenti chiamavano proprio mentre si andava a letto per domandarvi se eravate Mr. e Mrs. Newberg. Le case non erano divise l’una dall’altra, neppure dalle strade. In albergo le stanze erano tutte intercomunicanti, come se non ci fossero stati tutti quei banchieri nella sala...

    E anche i pasti non avevano nulla di intimo. E anche se andavate a mangiare fuori era sempre la stessa cosa: aragosta, orata, tacchino, asparagi, insalata e gelato; ottimi piatti, senza dubbio, che facevano crescere di peso, ma senza nulla di riservato.

    Ora quei due laggiù chiacchieravano. Riconobbe la voce del giovane.

    «È la più grande cosa che sia stata fatta da mano umana in America... Noi non abbiamo una cosa altrettanto bella in Inghilterra. Mi fa venir voglia di... Bisognerà andare in Egitto».

    «Oh, tua madre ne sarebbe felice, Jon... E anche io».

    «Andiamo a vederla dall’altro lato».

    Qui subito Soames si alzò e usci dalla nicchia. Per quanto fosse sicuro di non essere stato riconosciuto, era in preda a una viva agitazione. Un incontro ridicolo e persino pericoloso! Egli aveva viaggiato sei mesi perché Fleur ritrovasse la tranquillità, e ora ch’essa era tranquilla non voleva per nulla al mondo che venisse sconvolta dalla vista del suo primo amore! Ricordava fin troppo bene come la vista di Irene lo avesse sempre sconvolto! Sì... e con tutta probabilità c’era anche Irene con quei due!

    Washington, a ogni modo, era una grande città. Non si correva molto pericolo. Quel pomeriggio sarebbero andati a Mount Vernon, poi sarebbero partiti, l’indomani mattina di buon’ora.

    Fuori, in fondo al cimitero, il suo taxi lo aspettava. Una di quelle altre vetture doveva appartenere a quei due, e Soames lanciò un’occhiata in tralice alla fila delle auto. Una paura mista di speranza sorse in lui di vedere dentro a una di esse colei che, in un’altra vita, aveva visto ogni giorno e ogni notte aspettare... aspettare, pareva, quello che lui non poteva darle. Ma no! Non c’erano che gli autisti e le loro voci, i loro Yeah! i loro Yep! In America non si diceva più Yes!.

    E montando nel suo taxi, fece:

    «Hotel Pótomac».

    «Hotel Potómac?»

    «Come meglio vi piace».

    L’autista sogghignò e chiuse lo sportello.

    La casa dei Veterani! Dicevano che di veterani non ce n’erano più. Eppure dovevano essercene un mucchio di quell’ultima guerra... Del resto cos’erano lo spazio e il denaro in America? Ne avevano tanto da non saperne che fare. Beh, non gliene importava più, ora che stava per partire. Non gli importava più di nulla. In realtà, aveva invitato diversi americani a venire a vedere i suoi quadri se capitavano in Inghilterra. Erano stati tutti molto gentili, molto ospitali, gli avevano fatto vedere un mucchio di belle pitture, anche cinesi... E quanti alti edifici c’erano in America! E che aria buona! Certo alla lunga non gli sarebbe affatto piaciuto vivere in America, ma era tutto molto vivo, e anche tonico, per un po’...

    Non so immaginarmela lei, a vivere qui, pensò d’improvviso. Non c’ è mai stata al mondo una persona più riservata di lei.

    Le auto ora gli passavano accanto, o stavano parcheggiate in fila. L’America era tutta automobili e giornali! E qui, un rapido pensiero lo turbò. Mettevano tutto sui giornali; se avessero messo anche il suo nome tra quelli dei forestieri in arrivo?

    Raggiunto l’albergo andò subito al chiosco, nella hall, dove si potevano comprare giornali, dentifrici, candy per perdere i denti – e, forse anche, denti di ricambio, non ne sarebbe stato sorpreso. La lista degli arrivi? Eccola... «Hotel Potomac : Mr. e mrs. Cyrus K. McGunn; Misses Errick; Mr. H. Yellam Roof; Mr. Semmes Forsyth; Mr. e Mrs. Munt... »

    C’erano dunque, e in caratteri cubitali ma, per fortuna, coi nomi sbagliati. Forsyth! Munt! Non l’azzeccavano mai sui giornali. Semmes! Impossibile riconoscerlo, sperava bene. E andato al bureau consultò il registro.

    Sì! Lui i nomi li aveva scritti chiaramente. Ed era una fortuna... Poiché forse se non li avesse scritti chiaramente li avrebbero decifrati giusti, per sbaglio... Ma ecco che voltando pagina lesse: Mr. e Mrs. Jolyon Forsyte.

    Oh! erano nel loro stesso albergo, quei due! E da un giorno prima di loro... Sì, e in cima alla pagina, datato di qualche giorno ancora prima: Mrs. Irene Forsyte!

    Subito la testa prese a viaggiare a incredibile velocità. Bisognava ch’egli corresse subito ai ripari. Dove erano Fleur e Michael? Avevano già visto con lui, il giorno prima, la Freer Gallery, una piccola galleria veramente bella, e il Lincoln Memorial, e quella grande torre in cima alla quale si era rifiutato di salire. Quella mattina dovevano essere andati alla Corcoran Gallery dove c’era la mostra del Centenario... Sapeva di cosa si trattava. Aveva visto esposizioni simili in Inghilterra. Tutti i pittori alla moda del loro tempo – e con risultati terribilmente malinconici!

    Si rivolse all’impiegato, gli chiese:

    «C’è un ristorante dove mangiare in questa città ?»

    «Naturalmente... Da Filler cucinano benissimo».

    «Allora ecco, se vedete tornare mia figlia e suo marito, informateli per piacere che li aspetto all’una da Filler».

    E tornato al chiosco, comprò dei biglietti per il teatro d’opera per restar fuori la sera sino a tardi. Dieci minuti dopo era in cammino verso la Corcoran Gallery.

    Da Filler sarebbero andati direttamente a Mount Vernon; prima dell’opera avrebbero mangiato di nuovo fuori e l’indomani sarebbero partiti col primo treno... Non voleva correre dei rischi! Ma ora quello che importava era trovare Fleur e Michael alla Corcoran Gallery!

    Appena arrivato comprò un catalogo e salì le scale. Le sale si aprivano tutte sulla galleria ed egli cominciò la sua visita da quella in fondo. Ah, eccoli davanti a quel quadro di un tramonto! Era sicuro, adesso, di loro; ma non di se stesso! Fleur era così acuta!...

    Si mise a esaminare i quadri. Tutta roba moderna, sul solco delle stravaganze francesi che Dumetrius gli aveva fatto vedere a Londra sei mesi prima: roba, come giusto si era immaginato, che avrebbe potuto esser dipinta tutta da una stessa mano. Vide Fleur che toccava il braccio di Michael e rideva. Ah, come era graziosa! Sarebbe stata una bella disdetta se avesse perso la pace di nuovo! Andò loro vicino da dietro. Che diamine? Quello che gli era parso un tramonto era un volto umano! Non si poteva mai esser sicuri di nulla al giorno d’oggi.

    E disse:

    «Ho pensato di venire a vedere anch’io. Andiamo a pranzare da Filler... Sembra sia molto meglio dell’albergo. Poi di là potremo andare direttamente a Mount Vernon. Ho prenotato dei posti all’Opera, per stasera».

    Consapevole di essere osservato da Fleur portò la propria attenzione tutta sui quadri. Non si sentiva troppo a suo agio.

    «Sono meglio quelli vecchi?» chiese.

    «Mah!... Fleur stava giusto chiedendosi come si possa continuare a dipingere...»

    «Che vuol dire?»

    «Fate un giro per le sale e lo penserete anche voi. Ce ne sono di tutto un secolo».

    «Le cose migliori non vengono mai esposte in queste mostre», disse Soames. «Prendono quello che trovano a portata di mano. Ryder, Innes, Whistler, Sargent... Non ci sono mai stati grandi pittori in America».

    «Giusto», fece Fleur. «Ma hai proprio voglia di vederli papà? Ho una fame terribile, io».

    «No», rispose Soames. «Dopo quella statua non me la sento... Andiamo a mangiare!»

    II.

    Mount Vernon! Lo spettacolo era magnifico! Con tutti quei colori sugli alberi, il pendio erboso, e sotto il grande azzurro del Potomac che, persino Soames lo ammetteva, era più imponente del Tamigi. E lassù la bassa casa bianca, dignitosa e intima, a parte i turisti, quasi inglese, gli dava una sensazione non più provata da quando aveva lasciato la patria. Ah, doveva esserne innamorato, quel George Washington! Chiunque avrebbe voluto abitare lì. Faceva venire in mente la vecchia casa di lord John Russel sulla collina di Richmond... Ma là il fiume non era così grande, e non si aveva l’impressione che sempre si aveva in America e in Canada, l’impressione che si fosse cercato di riempire la campagna e non ci si fosse riusciti... Era una paurosa immensità e pareva senza tempo!

    Fleur era in estasi e il giovane Michael aveva subito notato che era assolutamente fantastico. Il sole scaldò la guancia di Soames mentre lui dava, dal vasto portico, un’ultima occhiata al panorama prima di entrare nella casa. Se ne sarebbe ricordato... L’America non era stata fatta tutta il giorno prima! Entrò e girò curiosando per le stanze del pianterreno. Ah, com’era tutto fatto bene! Tutto originale, tutto di un secolo e mezzo fa. Tutta roba che ricordava a Soames i bei momenti passati nei negozi di antiquari a Taunton e a Tunbridge Wells. Troppo George Washington, naturalmente! La brocca di George Washington, la bagnarola di George Washington, e la lettera di George Washington al tal dei tali, e la trina del colletto di George Washington, e la spada di George Washington, lo schioppo di George Washington, e via di seguito ogni minima cosa che aveva avuto a che fare con George Washington! Ma era inevitabile!

    Staccato dalla calca, staccato persino dalla figlia, Soames andava avvolto, come da un mantello, dalla sua abitudine di collezionista ad apprezzare in silenzio; non poteva soffrire di essere disturbato nei propri giudizi dalle stolte imbecillità. Era arrivato al piano superiore nella camera da letto dove George Washington era morto, e stava osservando attraverso la griglia, quando sentì un suono di voci che gli gelò il sangue; le stesse voci che aveva sentito quella mattina davanti alla statua di Saint-Gaudens, e insieme a esse la voce di Michael.

    C’era anche Fleur? Un’occhiata indietro bastò a rassicurarlo. No, Fleur non c’era! I tre si trovavano sul pianerottolo dello scalone e si andavano scambiando le solite frasi che è uso scambiarsi tra estranei occasionalmente interessati al medesimo soggetto.

    Sentì Michael dire:

    «Ne avevano di gusto, a quei tempi!»

    E il giovane Jon Forsyte rispondere:

    «Tutto fatto a mano, vedete!»

    Soames si precipitò per le scale di servizio, urtò in una grande e grossa signora, si tirò indietro, balbettò qualcosa, e tornò a precipitarsi. Giacché non era con Michael, Fleur doveva essere col curatore... Bisognava la portasse via mentre quei tre si trovavano di sopra! Questo era il pensiero che lo occupava tutto.

    Molto probabilmente Michael e Jon non si sarebbero presentati... Altrimenti avrebbe dovuto impadronirsi alla svelta anche di Michael. Ma in che modo intanto portar via Fleur? Eccola là che giusto parlava col curatore davanti al flauto di George Washington posato sul clavicembalo di George Washington nella sala di musica! Soames strinse i denti. Era disgustoso che uno si sentisse male, ancora più che uno lo fingesse... Ma d’altra parte, che fare? Mica poteva dirle: Ne ho avuto abbastanza, andiamo! E inghiottendo con violenza, si portò una mano al capo e si diresse verso il clavicembalo.

    «Fleur!» disse. E senza lasciarle il tempo di guardarlo, continuò: «Non mi sento molto bene. Bisogna che me ne torni in vettura».

    Erano parole senza dubbio da allarmare, venendo da uno avverso come lui alla teatralità.

    «Oh, papà! Che hai?»

    «Non so», rispose Soames. «Mi gira un po’ la testa. Dammi il braccio».

    Era terribile, fingere una cosa simile... E nel camminare verso la vettura, ferma all’ingresso, fu quasi per farla finita, tanto la premura della figlia lo imbarazzava. Ma riuscì a mormorare:

    «Mi sono stancato troppo, credo... O forse è questa cucina americana... Ma basterà che mi metta a sedere...»

    Con suo grande sollievo essa gli si sedette accanto, tirò fuori la boccetta dei sali, e mandò l’autista a cercare Michael. Soames rimase commosso, per quanto l’annusare quei sali, che erano piuttosto forti, lo disturbasse non poco.

    «Troppo chiasso per nulla», mormorò.

    «Faremo meglio a rincasare subito, caro; così potrai sdraiarti», disse la figlia.

    Un minuto dopo arrivava Michael di corsa. Anche lui si mostrò, parve a Soames, pieno di premura, e l’automobile partì. Rovesciato sullo schienale, con la mano nelle mani di Fleur, Soames teneva la bocca e gli occhi ermeticamente chiusi, e si sentiva forse meglio di quanto non si fosse mai sentito in vita sua. Prima di arrivare ad Alexandria schiuse le labbra per dire che aveva loro guastato la gita, ma che ora dovevano passare per Arlington e andar giù a dare un’occhiata mentre lui avrebbe aspettato in macchina. Fleur voleva tirare dritto, ma lui insistette. E come, a ogni modo, raggiunsero l’altra casa bianca in magnifica posizione anch’essa sul pendio che portava al fiume, egli aspettò in preda a una viva angoscia che visitassero il posto. Dio, se la stessa idea fosse venuta a quel Jon Forsyte! Se d’improvviso fosse arrivato anche lui con la sua macchina! Fu perciò grande il suo sollievo nel vedere Fleur e Michael uscire sani e salvi, e dire che il posto era bello, ma niente in confronto a Mount Vernon: il portico aveva le colonne troppo massicce.

    Quando l’automobile si trovò di nuovo a passare per le luminose foreste Soames aprì definitivamente gli occhi.

    «Mi sento di nuovo bene, adesso... Credo sia stato il fegato».

    «Dovresti bere un po’ di brandy, papà... Se chiamiamo il medico, te lo può prescrivere...»

    «Il medico? Assurdo chiamare il medico. Piuttosto possiamo pranzare in camera e persuadere il cameriere a portarcene un po’... Devono pur averne nella casa».

    Pranzare in camera! Ecco una buona idea!

    Si sdraiò sul sofà nel loro salottino, e fu commosso e grato che Fleur gli accomodasse i cuscini, schermasse la luce, e poi, leggendo, guardasse ogni momento di sopra al libro per vedere come si sentiva. Egli non ricordava di aver altre volte avuto tanta precisa sicurezza dell’amore di sua figlia. E persino pensò:

    Bisognerebbe che mi ammalassi ogni tanto! Ma a casa, se mai gli capitava di lamentarsi della propria salute, c’era subito Annette che si lamentava più di lui.

    Vicinissimo, nel piccolo salone là di fronte sul pianerottolo, qualcuno suonava il pianoforte.

    «Ti dà noia questa musica, caro?» chiese Fleur.

    Un pensiero balenò alla mente di Soames: Irene! Se davvero era Irene, e Fleur andava a pregarla di smettere, sarebbe stato cascare dalla padella nella brace!

    «No, anzi mi piace», si affrettò a dire.

    «Sembra che suoni bene...»

    Eh già! Suonava bene, Irene! Egli ricordava come June ne era entusiasta; e come una volta aveva sorpreso Bosinney ad ascoltarla, nel piccolo salotto di Montpellier Square, con quella sua faccia da gatto selvatico che aveva. E ricordava come lei usasse smettere appena entrava lui, per riguardo o perché sentiva ch’era sprecato per lui… chissà? Non lo aveva mai saputo. Non aveva mai saputo nulla, lui! Bene, era stata un’altra vita!

    Chiuse gli occhi, e subito vide Irene nel suo vestito da sera verde-smeraldo, la prima volta che erano andati a pranzo in Park Lane, dopo la luna di miele! Perché gli venivano in mente simili cose? Non c’era ragione... Ed ecco Irene che si pettinava i capelli! Doveva avergli grigi, ora, naturalmente... Aveva settant’anni lui, e lei doveva bene averne sessantadue. Come passava il tempo! I suoi capelli color feuille morte – come era solita chiamarli la zia Juley con una certa vanità per aver trovato quel termine – e gli occhi di velluto scuro!... Ah! Ma la bellezza era in quello che si faceva! eppure… chi poteva dirlo!... Forse, se egli avesse saputo esprimere quello che sentiva! Se egli avesse capito la musica! E se lei non avesse eccitato così tanto i suoi sensi! Forse! Oh, al diavolo i forse! Non si risolveva nulla coi forse! E poi, perché pensarci? In America! Ah, era buffo! Non si poteva mai dimenticare?

    Fleur si ritirò a fare le valigie e a cambiarsi.

    Quindi venne servita la cena. E Michael raccontò di aver conosciuto una simpatica coppia di giovani sposi a Mount Vernon.

    «Lui, è un inglese, e diceva che Mount Vernon gli dava una terribile nostalgia della patria!»

    «Come si chiama, Michael?»

    «Come si chiama? Non gliel’ho chiesto. Perché?»

    «Così! Credevo che glielo avessi chiesto».

    Soames tornò a respirare. Aveva visto le orecchie di lei rizzarsi. Il sentimento che covava in lei per quel ragazzo, il figlio d’Irene, sarebbe divampato di nuovo alla minima occasione. Non per nulla era sua figlia!

    «Bright Markland ha speculato sull’avvenire dell’America», disse Michael, «e ne è contento perché vi sono ancora tanti agricoltori in America... Ma ha speculato anche sull’avvenire dell’Inghilterra e ne è non meno contento... Eppure non vi sono più agricoltori in Inghilterra».

    «Chi è Bright Markland?» borbottò Soames.

    «Il direttore dello Scrutator... Non si è mai visto sulla terra un miglior campione di ottimismo, o di arrivismo che dir si voglia».

    «Speravo», osservò Soames gravemente, «che la conoscenza diretta di questi nuovi paesi vi portasse a sentire che c’è qualcosa di buono nei vecchi, dopotutto».

    Michael rise.

    «Non occorre che mi si convinca, di questo... Ma vedete, io appartengo a quella che chiamano la classe privilegiata. E anche voi, credo».

    Soames spalancò tanto d’occhi. Quel ragazzo diventava sarcastico!

    «Bene», disse, «sarò contento di ritrovarmi a casa. Avete fatto già le valigie?»

    Sì, Fleur e Michael avevano fatto già le loro valige. E cosi egli telefonò per mandare a prendere un taxi che li portasse al teatro d’opera. Bisognava impedir loro che indugiassero nella hall e scese ad accompagnarli. La partenza avvenne senza incidenti, e con un profondo sospiro di sollievo egli ritornò in ascensore e di là nella sua camera.

    III.

    Si mise alla finestra e guardò le alte case, le luci, le automobili che correvano di sotto e il chiaro cielo stellato. Ora si sentiva stanco davvero. Un’altra giornata come quella e non gli sarebbe più occorso di simulare l’indisposizione. Una vittoria per un pelo, e in serie!...

    Desiderava essere in salvo a casa.

    Trovarsi sotto lo stesso tetto, con quella donna… che strano! Non aveva più passato una notte sotto lo stesso tetto con lei da quel terribile giorno del novembre ’87, che in preda a una mortale angoscia aveva girato e girato per Montpellier Square, e poi aveva trovato il giovane Jolyon sulla soglia della porta. Un amante appena morto e l’altro già sulla soglia! E lei era fuggita quella stessa notte, e mai più dopo quella notte egli era stato sotto lo stesso tetto con lei!

    Di nuovo quella musica! Dolce e stuzzicante! Era lei che suonava? Per scacciare quel pensiero, si recò nella sua camera da letto, e si mise a fare le valigie. Ma non gli ci volle molto tempo... Non ne aveva che una, di valigia. Doveva andare a letto? A che serviva andare a letto se non si aveva sonno? Era agitato. Gli sarebbe piaciuto vedere che aspetto aveva, se davvero era lei che, a pochi passi di là, suonava il pianoforte. Dopo quella lontana notte di novembre non l’aveva vista che sette volte... cioè otto... Due volte in quell’appartamentino di Chelsea; una vicino a quella fontana del Bois de Boulogne; una a Robin Hill quando aveva dato loro, a lei e a Jolyon, il suo ultimatum; una ai funerali dalla regina Vittoria; una sul campo da cricket dei Lord; un’altra volta a Robin Hill quando era andato a pregare per Fleur; e un’ultima volta, infine, alla Goupenor Gallery, poco prima della partenza di lei per l’America. Di ogni volta ricordava i più piccoli particolari – dell’ultima volta persino l’alzarsi della sua mano guantata, il lieve sorriso delle sue labbra...

    E Soames rabbrividì. Troppo riscaldate, quelle camere americane!

    Tornò in salotto. Avevano sparecchiato e portato il giornale della sera. Ma non giovava a nulla il giornale. Non si trovava mai nulla che interessasse in quei giornali. A tanta distanza dal passato, tanta distanza di spazio e di tempo, che aveva egli nel cuore per lei? Odio? No, la parola era troppo forte. Non si odiano mica le persone che non ci vivono accanto. E poi, lui non l’aveva mai odiata. Nemmeno quando s’era accorto della sua infedeltà. Disprezzo, allora? No... Lo aveva fatto soffrire perché potesse disprezzarla. No, egli non sapeva che cosa sentisse per lei.

    E cominciò a camminare su e giù, una o due volte fermandosi alla porta per origliare, come un prigioniero nella sua cella. Non era dignitoso! Andò al sofà e vi si lasciò cadere lungo disteso. Avrebbe riflettuto sui suoi viaggi... Si era divertito? Oh, era stato un gran turbinio di cose, e... e acqua. Eppure tutto si era svolto secondo il programma, salvo per la Cina, da cui si erano tenuti, date le condizioni nelle quali versava, il più lontano possibile. La Sfinge e il Taj Mahal, il porto di Vancouver e le Montagne Rocciose, ora giocavano a nascondino dentro di lui... Ed ecco quello strimpellio di pianoforte... Era lei che suonava?

    Strano! Sembrava non si avesse che una sola stagione di vero calore. Ogni altra cosa che vi accadeva era tiepida, e forse era provvidenziale, altrimenti la caldaia sarebbe scoppiata. Avrebbe egli voluto rivivere le emozioni degli anni in cui era stato con quella donna? Per nulla al mondo... Eppure!

    Qui Soames si alzò. La musica continuava, non si fermava... Ma quando si fosse fermata, non sarebbe stato più possibile vedere se la persona che suonava fosse lei o no... Perché non attraversare quel salotto, nient’altro che attraversarlo, e dare un’occhiata? E se si fosse trattato di lei... Bene, probabilmente non aveva più il fascino di una volta, quella bellezza che gli era stata fatale! Egli aveva notato la posizione del pianoforte – chi suonava si sarebbe trovato di profilo rispetto a lui. Aprì l’uscio e la musica gli giunse più forte... Avanzò furtivo.

    Soltanto la larghezza della camera di Fleur lo separava ora dal salotto. Non c’era nessuno nel corridoio, nemmeno un fattorino. Ma probabilmente si trattava di qualche americana, forse quella ragazza... la moglie di Jon! Eppure no, c’era qualcosa... qualcosa in quel suono! E tenendo spiegato dinanzi a sé il giornale della sera continuò ad avanzare...

    Tre colonne a larghi intervalli dividevano il salotto, al posto di quel che Soames rimpiangeva tanto in America: la quarta parete. Raggiunta la prima colonna egli si fermò. Una grande lampada dal paralume arancione era posata vicino alla tastiera e illuminava la musica, i tasti, la guancia e i capelli di colei che suonava. Era lei! Per quanto avesse immaginato che doveva essere grigia, ora, vedere che quei capelli non avevano più un filo dell’oro di una volta lo commosse stranamente. Ondulati, morbidi, lucenti erano come un casco d’argento... E poiché lei si trovava in abito da sera egli poté vedere che aveva le spalle, il collo e le braccia ancora torniti e belli. Dalla vita in su tutto il corpo si muoveva leggermente al ritmo della musica. L’abito era di un lilla quasi grigio.

    Soames rimase a guardare dietro la colonna, con la mano sulla faccia nel caso che si voltasse. Non sapeva esattamente come si sentisse – troppo rapida si svolgeva in lui la pellicola dei ricordi. Dalla prima volta che l’aveva vista in un salotto di Bournemouth all’ultima nella Goupenor Gallery, la lunga successione delle immagini di lei gli sfilava davanti con tutto il calore, tutto il gelo, e tutta l’amarezza propri di ognuna: la lunga lotta dei sensi, la lunga disfatta dello spirito, la lunga passione di dolore, e il lungo allenamento per il torpore e l’indifferenza. L’ultima cosa che desiderava, mentre era lì, sarebbe stato di parlarle, eppure non poteva toglierle gli occhi di dosso.

    D’improvviso smise di suonare, si piegò in avanti a chiudere la musica e allungò il braccio per spegnere la lampada. La sua faccia venne allora in piena luce e Soames, che si tirò indietro per ripararsi, la vide, ancora bella, forse più bella sebbene un po’ sciupata, con gli occhi che sembravano più neri, più grandi e dolci che in passato sotto le sopracciglia pur sempre scure. E ancora una volta provò quella sensazione: «Ecco una donna che non ho mai conosciuto».

    Con una specie di ira continuò a tirarsi indietro sinché non vide più nulla. Ah! lei aveva molte colpe verso di lui, ma la peggiore tra tutte era quel suo infernale mistero! E camminando come un gatto egli ritornò nella sua camera.

    Si sentiva mortalmente stanco adesso e subito si spogliò, si mise a letto. Desiderava con tutta l’anima di essere già a bordo, sotto la protezione della bandiera britannica.

    Sono vecchio, pensò a un tratto, vecchio!

    L’America era troppo giovane per lui, così piena di energia, cosi affannata a raggiungere mete che non gli riusciva di vedere. I paesi dell’Oriente erano diversi... Eppure non aveva che settant’anni, dopotutto. E suo padre era vissuto sino ai novanta, il vecchio Jolyon sino agli ottantacinque, Timothy sino a cento, e così via tutti i vecchi Forsyte... A settant’anni loro non avevano certo giocato al golf, pure erano stati più giovani, sì, più giovani di quanto lui non si sentisse quella sera. La vista di quella donna lo aveva... lo aveva... Ah, vecchio!

    Non voglio sentirmi vecchio, pensò. Se mi sento di nuovo così consulterò qualcuno!

    Adesso iniettavano quelle cose

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