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Seconda possiblità
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Seconda possiblità

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About this ebook

Eroe sportivo o perfido traditore del proprio popolo? Chi è Rudolph, il nonno che Richard non ha mai conosciuto? Per scoprirlo dovrà scavare in un passato sepolto da bugie, interessi, omissioni. Tra Stati Uniti, Canada e Germania, Richard ricostruirà la storia del nonno e scoprirà da dove deriva la sua dirompente passione per l’ hockey su ghiaccio.
Richard Bower è un ragazzo ventiquattrenne nella Boston del 2009. Appartiene a una famiglia ebraica che vanta le sue antiche radici bostoniane. Giocatore di hockey, a fine college viene scartato dalle grandi squadre ed entra in crisi. Nel tentativo di uscirne, scopre per caso che suo nonno Rudolph in realtà era tedesco, campione di hockey ai tempi della Germania di Hitler. Richard investiga sulle vere radici della sua famiglia, in un viaggio che lo porta in Canada e in Germania. Qui viene a contatto con persone che lo aiutano a ricostruire la storia di nonno Rudolf e far emergere con fatica, tra mille bugie, la verità nascosta da tutti per settant’anni.
Il romanzo si ispira alla vera storia di Rudi Ball, giocatore di hockey tedesco, l’unico ebreo ad aver giocato per la Germania nelle Olimpiadi invernali del 1936, grazie alla solidarietà dei suoi compagni di squadra.
LanguageItaliano
Release dateNov 8, 2018
ISBN9788833281841
Seconda possiblità

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    Seconda possiblità - Renato Ghezzi

    fantasia.

    Capitolo 1

    Boston, 8 marzo 2009

    I

    «Cambio!»

    L’urlo fermò Richard mentre puntava il difensore avversario, che si era rifugiato col disco dietro alla porta. Si voltò verso la propria panchina e vide Baxter che si sbracciava per richiamarli. Pattinò veloce verso la balaustra insieme ai compagni d’attacco. Saltò il muretto e si lasciò andare sulla panca. Con il bastone tra le gambe, osservò il coach: il rosso acceso del viso ampio spiccava tra il grigio chiaro dei capelli e quello più scuro dell’abito di sartoria. Perché tanta tensione, si chiese, se ormai avevano in pugno la partita?

    Alzò la borraccia e, per bere, sollevò il capo verso il tabellone luminoso. Il cronometro - bloccato per una chiamata di fuori gioco - segnava due minuti e dodici alla fine. Boston Terriers: 3 – Harvard Crimson: 2. Bene, era fatta, no?

    Staccò la borraccia dalla bocca e la appoggiò di fianco a sé, mentre sotto la visiera di plexiglas gli si allargava un sorriso. Non ricordava di aver mai visto l’Agganis Arena così gremita. Il rosso delle felpe della Boston University si confondeva con l’amaranto di quelle di Harvard.

    Un fischio richiamò l’attenzione di Richard. L’arbitro lanciò il disco sul cerchio blu dell’ingaggio. I due centri se lo contesero a spallate e colpi secchi di bastone.

    L’ala destra di Harvard, un biondino smilzo e veloce, puntò deciso su Derek, più grosso e più lento. L’ala mandò il disco da una parte e fuggì dall’altra. Richard sapeva che Derek avrebbe avuto un attimo di indecisione, che l’ala lo avrebbe superato riprendendo il disco e che avrebbe puntato diritta alla porta. E poi…

    Gridò: «No!»

    Aveva visto giusto, nel dettaglio. Infatti Derek allungò il bastone, colpì la caviglia dell’attaccante e lo fece volare. L’arbitro alzò un braccio e fischiò. Il suo gesto verso la giuria fu chiaro, ovvio: penalità, aggancio con bastone. Mentre Derek masticava amaro in panca puniti, Rick si girò per vedere che cosa avrebbe fatto il coach. Baxter si sporse dalla panchina, guardò verso il collega e si trattenne. Lasciò che fosse l’altro allenatore a chiedere il time out. A uno e ventuno dal termine, la partita si riapriva.

    I giocatori delle due squadre si separarono per raggiungere i rispettivi coach.

    Baxter disse: «Ragazzi, loro hanno chiamato time out, faranno uscire il portiere. Saremo quattro contro sei. Voglio dentro la prima linea, più Hart in difesa. Lo so che siete appena usciti, ma mi servite voi. Dobbiamo vincere l’ingaggio e tenere il disco il più possibile. Se il disco va a loro facciamo il quadrato, poi il rombo, con l’uomo fisso davanti alla porta.» Fece una pausa. «Toglietevi dalla testa di andare in attacco, difendete e basta. Spazzate il terzo. A meno trenta secondi, se posso, chiamo il cambio. Tutto chiaro? Adesso dentro!»

    I Terriers si schierarono, piegati sui bastoni. Quattro, contro i cinque di Harvard che sarebbero diventati sei di lì a poco. Sei e una porta vuota.

    Alan, il centro, perse l’ingaggio e il disco viaggiò verso i terzini di Harvard.

    Richard avanzò per infastidire i difensori avversari e vide, sullo sfondo, il portiere degli Harvard Crimson uscire dal ghiaccio. Dalla panchina entrò come una furia Beaumont il Gigante, il miglior tiratore di Harvard: un armadio di due metri con un viso da bimbo, capace di colpi precisi e potenti. Iniziò il tiro al bersaglio degli Harvard Crimson.

    Richard e Alan erano davanti, George Miller e Terry Hart dietro a fare quadrato davanti alla porta di Brixton. Dovevano fermare più dischi che potevano e si spostavano in sincrono da destra a sinistra e poi di nuovo a destra, mantenendo la formazione come un corpo di ballo. Danza classica in zona di guerra.

    Beaumont si mise a tirare da tutte le posizioni e Brixton, cupo nel suo elmo da battaglia, gli si oppose ogni volta. Tiro da fuori: respinto dal gambale. Rimbalzo: respinto. Altro tiro: bloccato con la pinza.

    Non si usciva dal terzo, il fiato cominciava a mancare, il cambio non arrivava.

    Richard capì che non potevano resistere ancora a lungo: occorreva un guizzo, un’invenzione. Mentre si spostava per rientrare sul terzino col disco, seppe, in un lampo, quale fosse la sua missione. Colse il momento del passaggio, spinse sui pattini, allungò la stecca. Intercettò il disco e scattò tra i due difensori sorpresi. Si ritrovò da solo, davanti alla porta vuota, alla distanza di quaranta metri. Superò la linea rossa di centro: lassù le urla del pubblico, alle spalle lo stridio delle lame dei difensori avversari. Giunto alla blu, caricò il tiro. Che fu secco, veloce, preciso.

    Nel momento in cui i terzini di Harvard lo stendevano a pancia in giù sul ghiaccio, a malapena vide il nero del dischetto infilarsi nella porta indifesa. Il suono della sirena che confermava il gol fu risucchiato dal boato della folla. Bower si liberò dal peso dei terzini e cercò di rialzarsi, senza però riuscirci. Per la seconda volta in pochi secondi si ritrovava sepolto, ma stavolta dai compagni di squadra esultanti.

    Era felice.

    Quando gli consentirono di riemergere, scattò in piedi sui pattini e percorse l’intero giro di pista agitando in alto la stecca; sulle gradinate scandivano il suo nome. Mentre si avvicinava alla panchina, abbracciato dai colleghi della sua linea, sorrise beffardo al portiere avversario, che arrancava verso la porta. Pattinò lungo la balaustra, davanti allo schieramento dei compagni che, dalla panca, gli offrivano il pugno, poi saltò il muretto e si sedette con le gambe distese e la schiena appoggiata al plexiglas. Anche con l’uomo in meno, gli ultimi secondi diventavano nient’altro che una formalità.

    Era dunque stato lui a decidere la partita, a portare i Terriers in finale; Richard Bower buttava fuori quei bastardi.

    Si voltò e mise a fuoco suo fratello Bob, in piedi sugli spalti, che si spellava le mani.

    Bob.

    Come sempre vestiva in maniera impeccabile: soprabito scuro, cravatta cremisi di Harvard. Richard gli fece segno di togliersela. Bob fece di no col dito, ridendo.

    A sinistra di Bob, Katrine gli sembrò più bella che mai, con i capelli sciolti sul maglione rosso. Saltava come una cheerleader. La vide stringere le labbra per mimare un bacio; le rispose alzando il pugno e facendole segno che si sarebbero visti dopo. Lei annuì.

    Richard spostò lo sguardo alla sinistra di Katrine; lì, dove avrebbe voluto vedere i suoi genitori, c’erano due sedili vuoti. Pensò a suo padre, fermo nel rifiutarsi di assistere alle partite. Poi ci fu l’urlo della sirena. Richard si buttò in pista con gli altri per il giro d’onore e il saluto agli avversari. Quando sentì lo speaker annunciare il suo nome come miglior giocatore della partita si sentì fiero, ma di certo non sorpreso.

    II

    I giocatori delle due squadre si avviarono verso il cancelletto di uscita dalla pista e Baxter gridò: «Ragazzi, tenete i caschi!» Un consiglio superfluo, visto che sapevano già a cosa andavano incontro. Quando imboccarono il passaggio verso gli spogliatoi, barcollando sui pattini, i tifosi si sporsero oltre le barriere e si misero a colpirli con manate fraterne sul capo e sulle spalle. Benedetti i caschi! Solo quando furono al coperto i giocatori ebbero la possibilità di togliersi elmetto e guanti e tirare un sospiro di sollievo.

    I Terriers irruppero urlando nello spogliatoio, uno stanzone rettangolare con panchine e ganci ovunque, invaso da borsoni, indumenti e scarpe gettati alla rinfusa, e appoggiarono i bastoni contro la parete vicina all’ingresso.

    Parker si voltò verso Hart e gli urlò: «Siamo in finale, bastardo!»

    Estrasse i guanti dal casco e li tirò sulla faccia del compagno, che li raccolse e tentò di renderglieli sul muso.

    «Sì, ma tieniti la tua puzza, animale!»

    Sbagliò mira e colpì Miller, che rispose lanciando la sua borraccia contro il primo che gli capitò a tiro. Un attimo dopo guanti, borracce e maglie sudate volavano ovunque.

    Al culmine del caos, entrò Baxter. Le urla si spensero in un mormorio appena udibile; il tonfo dell’ultima borraccia scagliata rimbombò nel silenzio. I ragazzi più vicini alle panche si sedettero, gli altri si immobilizzarono stringendo in mano l’oggetto che stavano per tirare. Con la mascella contratta, Baxter fece scorrere lo sguardo su ciascuno di loro e infine lo abbassò su Bower, seduto alla sua destra.

    Ci siamo, pensò Richard, sentiamo il rimprovero del giorno.

    Baxter aprì la bocca, ma esitò un momento prima di parlare, come per gustare la tensione. Poi disse: «Ragazzi, siete stati grandi! E tu, bastardo d’un Bower, sei stato magnifico! Ti avevo detto di non uscire dal terzo, ma questa volta hai fatto bene a non darmi retta.» Dopo una pausa, aggiunse: «Non farlo più, ragazzo, o ti spezzo le braccia all’altezza del gomito.» Risate. «Comunque siete stati bravi. Le solite bestie, me l’avete fatta fare sotto, ma alla fine bravi!» Ululati e applausi dalla truppa. Baxter scosse il capo. «Ok, Ok, piano con l’entusiasmo. Ricordatevi delle finali. Non ubriacatevi, non fate cazzate, non svuotate troppo spesso i testicoli e non sprecate energie inutilmente. Vi serviranno già dopodomani.»

    Parker chiese: «Coach, sai con chi siamo?»

    «Minnesota. Ha battuto Carolina cinque a uno.»

    «I Black Bears! Li facciamo fuori alla quarta!» esultò Hart, che era l’entusiasta della squadra.

    «La storia dice che in stagione li abbiamo sempre battuti, ma se li sottovalutate dovrete vedervela con me dopo. Mi spiego? I bookmaker li davano in finale venti a uno e invece eccoli qui. Le previsioni e gli ottimismi facili sono da dementi.»

    Bower si ribellò: «Ma dai, coach! Sempre a vedere il bicchiere mezzo vuoto. Dove vuoi che vadano gli Orsi Fiacchi? La coppa è nostra!»

    «Ci conto, Bower, ci conto, ma tenetelo a mente, fin qui non avete fatto niente! Il mondo è crudele e l’hockey di più: o si è primi o non si è nessuno! Forza, basta chiacchiere. Cambiatevi alla svelta o vi butto fuori io a calci nel culo; e mettete a posto questo casino, animali! Quando torno voglio vedere tutto in ordine. Chiaro?» E uscì dallo spogliatoio.

    Richard attese che Baxter si fosse allontanato, poi sbuffò: «Siete stati grandi? Ma che partita ha visto quello?»

    «Cosa vuoi dire?» gli chiese Derek, stupito. «Siamo in finale o no?»

    «Sta’ zitto, tu! Hai rischiato di farci perdere, con quel fallo all’ultimo minuto.»

    «Cosa dovevo fare, lasciarlo andare in porta?»

    Richard si alzò. «E tu, Ross, quante volte hai lasciato scappare la tua ala? Terry, quando ti decidi a mettere più grinta nelle cariche? L’anno prossimo?»

    Terry lo guardò allibito.

    «Non ci ha fatto il culo Baxter e ce lo fai tu? Fantastico!»

    «Qualcuno vi deve prendere a steccate sui denti, Terriers, per il vostro bene. Sentiamo, Alan, quanti ingaggi hai vinto oggi?»

    «Senti tu, piantala! Ne ho persi solo due!»

    «Peccato che fossero quelli decisivi. Per fortuna ho risolto io.»

    «Bravo. Proprio bravo. Sei sempre il più bravo.»

    Queste parole, accompagnate da un accenno d’applauso irridente, provenivano da sotto un neon spento in un angolo dello spogliatoio. Rick sapeva chi aveva parlato. Oscillando sulle lame fece spostare chi gli intralciava il passaggio e si fermò davanti a un ragazzo che, seduto chino in avanti per slacciarsi i pattini, mostrava solo i capelli biondo paglia.

    «Se hai qualcosa da dire, Grabowski...»

    Il biondino alzò il capo e puntò i suoi occhi celesti, acquosi, in quelli di Bower.

    «Ho qualcosa da dire, sì.» Un sorriso sarcastico gli affiorò sulle labbra. «Anch’io ho fatto due gol, per esempio. Gli altri due gol. Solo che i miei erano cinque contro cinque, mentre i tuoi erano gol merdosi: uno in power play e uno a porta vuota.»

    Richard lo sovrastò e le punte dei pattini si toccarono. «Complimenti, Grabowski! Perché non dici che l’assist del tuo primo gol te l’ho servito io dritto sul cucchiaio?»

    Mike si alzò di scatto, senza più sorridere, e Rick dovette indietreggiare.

    «Dritto sul cucchiaio? Era uno schifo», sibilò. «Sono dovuto tornare io a riprendere il disco e poi ho fatto un numero con il dorso della stecca che tu nemmeno te lo sogni!»

    «Ricordati che io sono il capitano e tu una seconda linea. E non sei solo una seconda linea, Grabowski, sei da seconda linea. Scommetto che te ne starai lì finché campi.»

    «Questo lo vedremo, inutile sacco di merda.»

    «Ehi, testa di cazzo, la pianti?» Richard alzò le mani verso la maglia di Grabowski, ma si sentì afferrare per una spalla da qualcuno. Era Derek.

    «Basta, Rick!»

    «Ma l’hai sentito? Questo incapace…»

    «Ok, smettiamola tutti. Non ho parole, cazzo! Possibile che riusciamo ad azzannarci anche quando vinciamo?»

    Grabowski indossò di nuovo il suo mezzo sorriso e si sedette come se nulla fosse successo.

    «Ma sì, è una buona idea quella di Derek. Festeggiamo, che è meglio! Viva i Terriers», disse, e tornò ad armeggiare intorno ai lacci.

    Bower si lasciò condurre fino al suo posto.

    «Lascialo perdere. Sei il capitano, non scendere al suo livello», gli sussurrò l’amico sedendosi al suo fianco.

    «Bene, Derek, bene, se non accettate consigli me ne sto zitto; basta che vinciamo questa dannatissima finale e prendiamo il volo per la NHL! Il resto è zero.»

    «Andiamo in NHL, Rick? Hai già delle offerte?»

    «Ancora no, ma arriveranno, tranquillo, arriveranno.»

    «Bower!» L’urlo veniva dal corridoio e penetrò nello spogliatoio nonostante la porta chiusa. Quando Baxter decideva di farsi sentire, ci riusciva benissimo. Ancora con i pattini, Rick si alzò e uscì per scoprire il motivo di quel richiamo.

    Trovò Charlie Baxter a stretto contatto con un omino magro, stempiato, in gessato grigio. Parlavano fitto e a voce bassissima.

    «Salve», disse, per farsi notare.

    «Ah, Bower.»

    Come, coach? Prima mi chiami e adesso fingi di stupirti? Rick rimase in silenzio e attese.

    «Questo signore», continuò Baxter, indicando l’omino elegante, «è George Franklin, dei Washington Capitals.»

    «Bower, la stiamo osservando già dalla regular season e le staremo sotto per tutte le finali», disse Franklin. «Se, come sono certo, tutto andrà bene, ci sentiremo quando avrete in mano la coppa. Un posticino nei Capitals potrebbe esserci, magari in quarta linea.»

    «Purché sia NHL…cioè», si corresse Rick, «sarei onorato di entrare nei Caps.»

    Franklin stirò le labbra, mise la destra nella tasca della giacca e ne estrasse un cartoncino. «Tieni, Rick. Questo è il mio biglietto da visita. Sentiamoci tra due settimane.» E se ne andò senza salutare.

    Prima di rientrare nello spogliatoio, Richard infilò il biglietto nel calzettone. Non voleva che i compagni sapessero, non ancora. Ne avrebbe parlato solo a Derek. Più tardi.

    III

    Richard e Derek uscirono fianco a fianco dall’Agganis Arena. Bob e Katrine erano lì, nel parcheggio, li aspettavano chiacchierando, appoggiati alla Ford blu di Bob. Richard li vide da lontano e sventolò i bastoni per salutarli. Ancora distante, sentì Bob esclamare: «Eccoli, i gemelli!»

    I due compagni di squadra si guardarono e sorrisero, come sempre quando qualcuno notava la loro somiglianza fisica. Richard lasciò cadere il borsone, ci buttò sopra le stecche, diede un rapido abbraccio a Bob e poi un lungo bacio a Katrine.

    Derek strinse con vigore la mano di Bob.

    «Allora, come l’hai presa la sconfitta?»

    «Mi dispiace per Harvard, lo sai, ma Richard è in finale, quindi va bene così. Abbiamo perso, ma non è importante.»

    A quelle parole, Richard si scostò da Kate.

    «Come sarebbe a dire che non è importante?»

    «Ma sì, dai, Rick, in fondo è solo una partita di hockey», replicò Bob.

    Richard fece un passo avanti, puntò il dito contro il fratello quasi fosse un’arma carica e sparò: «Solo una partita di hockey? Sentiamo, cosa c’è di più importante, secondo te?»

    Stupito da quella reazione, Bob rispose in tono incerto: «Un lavoro, per esempio. La laurea.»

    Richard s’infilò le mani in tasca, accennò un sorriso sarcastico e scosse la testa.

    «E piantala! Mi sembra di sentir parlare nostro padre», sbottò. Tornò a voltarsi verso Kate, ma lei fece un passo indietro e si avvicinò a Derek. Entrambi se ne stavano fermi, rigidi, in attesa che quella discussione terminasse.

    Bob replicò secco: «Non paragonarmi mai più a lui, mai più.»

    «E perché no?» ribatté di slancio Richard, con tono di voce alterato. «Tu la pensi come lui, pensi che io sia un bamboccio pieno di muscoli ma senza futuro, soprattutto nello sport. Invece vi dimostrerò che cosa vuol dire fare strada nell’hockey, una strada che almeno io mi sono scelto da solo!»

    Kate gli afferrò la manica del giubbotto ma Rick diede uno strattone, liberandosi dalla sua presa.

    Bob non lo fece quasi finire di parlare: «Piantala tu, ora. Ho scelto Legge perché lo volevo, non perché me l’ha chiesto papà.»

    Derek tentò un debole: «Dai ragazzi, non è la serata…», ma venne ignorato. Rick riprese, in tono canzonatorio e sempre rivolto a Bob: «Ah, che coincidenza! Papà ha sempre avuto un debole per gli avvocati. E anche tu, in un certo senso, hai un debole per i giovani avvocati, non è vero?» Ridacchiò, cercando con lo sguardo la complicità degli altri, ma trovò solo un’occhiata furibonda da parte di Kate.

    Robert impallidì. Aprì la bocca, la richiuse. Guardò altrove e replicò: «Richard, basta così.»

    Il silenzio calò sul quartetto. L’aria sembrò farsi gelida. Kate si strinse nel piumino, Derek alzò la cerniera del giubbotto fino al mento. La tensione era palpabile, ma nessuno dei due osava intromettersi.

    Richard comprese. Abbassò lo sguardo e mormorò: «Scusami, Bob, sono un coglione.»

    «Rick, proprio da te... tu, che mi hai sempre coperto. Che cosa ti è preso questa sera, cos’hai?»

    «Ti ho chiesto scusa. Lo sai benissimo che Frank è simpatico anche a me, è in gamba, mi piace, ma anche tu, dannazione, non darmi contro. Lo sai quanto tengo all’hockey, perché sminuirlo? Già devo lottare tutti i giorni con papà, non mettertici pure tu», rispose Richard abbassando le spalle.

    «Se proprio te lo devo dire, non ho mai capito l’avversione di papà per questo sport, ma lui non si spiega mai. Cerca sempre e solo di far fare alle persone quello che vuole, figli compresi.»

    Bob prese i guanti dalla tasca e se li infilò lentamente, come a suggellare quell’amara verità.

    Kate fece un paio di passi, posando questa volta una mano sulla spalla di Richard. A quel contatto lui si voltò di scatto, quasi si fosse dimenticato della sua presenza. Eppure lei era lì, come Derek, entrambi imbarazzati e irrigiditi.

    «Mi sono lasciato trascinare. Mi dispiace. È che sono ancora carico», tentò di giustificarsi.

    «Sì, ce ne siamo accorti. Adesso però andiamo a casa», lo supplicò Kate.

    «Veramente io...» rispose Richard titubante.

    «Veramente cosa?» domandò Kate con stizza.

    Derek a quel punto si intromise tra i due: «Kate, è colpa mia. I ragazzi vanno da Foley’s e io ho tirato dentro Rick senza neanche chiederglielo.»

    Katrine lo guardò torva.

    «No!» rispose. «Non sei tu che devi chiedere a lui. È lui che deve chiedere a me!»

    Richard accennò un abbraccio. «Kate, perché dovrei chiedertelo? Sono il capitano, è ovvio che devo andare!»

    «Ah, chiaro! Quindi in realtà hai deciso tu, non Derek, ma mi avevi promesso ben altro prima della partita! E guardami!» Katrine si divincolò da Rick con un gesto brusco. «Doveva essere la nostra serata, l’hai detto tu! Invece come sempre viene prima la squadra, giusto?»

    «Cerca di capire, è un momento cruciale!»

    «È un momento che dura da quattro anni, Rick. Io ad aspettarti e tu in giro. E fosse solo la squadra. Mary lavora sempre da Foley’s

    «Ancora quella storia?»

    Kate fissò Richard con durezza. «Ce ne sono altre?»

    Lui strinse le labbra. «No, e non c’è nemmeno quella. Se non mi credi vieni con noi. Ci facciamo giusto una pinta, salutiamo e andiamo.»

    «Scordatelo! Non ho la minima intenzione di essere l’unica donna in mezzo al vostro branco.»

    Richard abbassò lo sguardo. Poi lo risollevò, dritto negli occhi di lei.

    «Kate, che capitano sarei se non restassi con i miei compagni alla vigilia della finale? Vado da Foley’s solo perché me l’ha chiesto la squadra, te lo giuro. Una pinta, faccio il mio discorsetto e vengo via.»

    La ragazza fissò quegli occhi scuri, profondi, imploranti. Capì che non poteva privarlo del suo momento, della celebrazione. Quella sera Kate doveva fare squadra, giocare nel suo ruolo e lasciare a lui il centro della scena. Gli si avvicinò e gli accarezzò la barba ispida.

    «Va bene, vai con Derek. Sei il capitano, non puoi abbandonare la nave. Fai come hai detto, però. Una pinta e via. Ti aspetto su da te.» Prese Robert sotto braccio. «Andiamo.»

    Salirono in macchina e partirono, una mano di lei fuori dal finestrino in un morbido gesto di saluto.

    IV

    Derek e Richard entrarono da J.J. Foley’s accolti dall’applauso eccitato della ventina di ragazzi che li attendeva vicino al bancone.

    Si ritrovarono subito circondati. «Bower, grande partita!» e giù una pacca sulla spalla. «Gran gol l’ultimo!» e Richard rispose al cinque offerto da un ragazzino. Una brunetta mai vista prima stampò loro un bacio sulle guance.

    Presto Richard ne ebbe abbastanza e si guardò intorno alla ricerca di un varco. Inutilmente. Per sua fortuna gli assedianti furono allontanati da una ragazza dai capelli color rame in minigonna e shirt nere, la divisa dei camerieri del locale.

    «Via, via! Lasciateli respirare!»

    Richard la salutò: «Ciao, Mary. Sempre la più carina!»

    «Naturale, tesoro, dovresti ricordartelo più spesso», rispose lei con uno sguardo malizioso. «Gli altri sono già arrivati tutti. Vi abbiamo tenuto la sala in fondo, come al solito. Venite!» E si avviò, facendo loro strada tra i tifosi ululanti.

    La seguirono nel corridoio tappezzato con il rosso degli stendardi e delle sciarpe dei Terriers sopra il verde dei manifesti per la festa di San Patrizio. Rick riconobbe, al di sotto del vociare, qualche nota del celtic-punk targato Dropkick Murphy’s. Un posto che sarebbe piaciuto a mamma, pensò. Non poteva non piacere a una donna dai capelli così rossi che tutti la scambiavano per irlandese! Chissà se a Derry i pub erano così.

    Derry o Londonderry, non l’aveva mai capito.

    Raggiunsero una sala appartata, lontana dal caos del resto del locale. I compagni di squadra, seduti ai lati di un lungo tavolo di legno, interruppero il loro vociare per lanciare fischi e insulti verso i due ritardatari.

    «Finalmente!» urlò Brixton. «Quanto ci avete messo?» Il gigante biondo picchiò una manata sul tavolo. «Abbiamo sete!»

    «Adesso ci penso io!» disse Rick. Lasciò passare Derek e si prese la prima sedia della fila, quella riservata al capitano. «Mary, una pinta di scura per tutti! Segna a mio nome. Come capitano e miglior giocatore di oggi il primo giro è mio!»

    «Ok, vado», concluse Mary, e si voltò per tornare al banco. Richard ne approfittò per risalirle con lo sguardo le gambe fin oltre l’orlo della cortissima gonna.

    «Ti piace ancora la ragazzina, eh?»

    Richard guardò davanti a sé e si accorse di avere di fronte il viso smorto di Grabowski. Si chiese se quello si fosse seduto lì per caso o per scelta, ma sorvolò. Non voleva rovinarsi la serata.

    «Ciao, Mike. Godiamoci la festa, ok?»

    «Va bene. Ci sarà tempo per…»

    «Per?» lo incalzò Richard.

    «Niente, lasciamo stare. Qua la mano, capitano!» Grabowski, alzandosi, tese la destra a Bower sopra il tavolo. Lentamente, Rick allungò la propria e glie la porse. Mike strinse con forza, sfoggiando il suo sorriso sghembo. Richard finse di non accorgersi di quella morsa e sorrise a sua volta. Infine Mike lasciò e i due si sedettero, sempre fissandosi. Vennero distratti dai camerieri che finalmente portavano le pinte.

    Brindisi, risate, grida e battutacce. La serata andava secondo copione e Rick iniziò a rilassarsi. Anche Grabowski sembrava tranquillo, dedito alla Guinness e a qualche ironia di cattivo gusto.

    Terry Hart tornò sull’argomento clou: «Allora, Rick, li vedi così facili questi Bears?»

    Richard rise. «Tranquillo. Quattro partite a zero, vedrai. Vinciamo a mani basse. Che hai da ghignare, Grabowski?»

    Il biondino lo fissò. «Ho visto dove abbasseresti le mani, tu.»

    Richard si sporse verso il rivale. «Su di te, se non la pianti. Pensa piuttosto a imparare a giocare, fallito», sibilò.

    Anche Grabowski si piegò in avanti, il viso vicinissimo a quello di Richard. «Gioco comunque meglio di te, ma non è questo. È che tu le mani le abbasseresti sul culo di Mary. Pensa se lo sapesse Kate!»

    Richard scattò all’indietro. «Che cazzo dici?»

    Grabowski ghignò e proseguì: «Pensa se qualcuno le raccontasse che, dopo la partita con Providence…»

    Giunsero risolini da più parti. Brixton diede una pacca a Richard. «Sempre il migliore, eh, Rick? Sul ghiaccio e fuori!»

    «Lasciami perdere, Gordon. E anche tu, Mike.» Rick tornò a sedersi pesantemente.

    «Che hai, capitano? Non sei più fiero dei tuoi successi?» Grabowski quasi urlava. «Ah, ho capito. Sei in calo sia come giocatore sia come stallone!»

    «Io non sono in calo!» Anche Rick alzò il volume.

    Per contrasto, Mike lo abbassò. «D’accordo, come vuoi. Allora facciamo così: tu ti pigli la cameriera e la seconda linea. Io prendo il tuo posto in squadra e nel letto di Katrine.»

    Richard si lanciò come una furia sopra il tavolo, le braccia in avanti, facendo cadere due bicchieri. «Non ti azzardare a toccare Katrine!» gridò, rosso in volto. Cercò di afferrare Mike per la maglia, ma quello si alzò e, con un movimento agile, fece un passo indietro, mettendosi fuori portata. «Ehi, calma! Pensa a tenertela, allora. Prima o poi saprà cosa fai con le altre.»

    Derek e Gordon afferrarono Richard per le spalle e lo rimisero seduto. Rick abbassò gli occhi fingendo di interessarsi alla sua felpa, che aveva assorbito la Guinness versata. «Vaffanculo, Mike. Una parola, una sola parola con Kate e ti uccido.»

    Mike scosse la testa. «No, Rick. Non dirò niente. Sarai tu a impiccarti da solo, basta darti corda.»

    Bower si alzò di nuovo, questa volta lentamente.

    «Derek, ne ho abbastanza di questo posto. Andiamo.» E uscì dalla sala senza salutare, trascinandosi dietro l’amico.

    V

    Sdraiata sul letto di Richard, Kate sollevò la schiena dal cuscino e tese l’orecchio ai rumori esterni. Sentì un’auto percorrere la via senza fermarsi. Un’altra, poi il silenzio. Non era abituata al silenzio. Sotto le finestre del suo residence, più centrale di quello dove alloggiava Rick, gli studenti passavano a qualsiasi ora, li sentiva parlare a voce alta. Lì, in Bay State Road, invece non passeggiava nessuno e le auto, a quell’ora, erano rare. Si rimise comoda anche se, quasi nuda com’era, iniziava ad avere freddo. Si tirò addosso il lenzuolo leggero e cercò di concentrarsi sul libro che stava leggendo per far passare il tempo. Il pensiero di Richard, tuttavia, era più forte. Due settimane che non facevano l’amore. Colpa della semifinale, e prima della finale avevano solo quella notte, poi basta, almeno per un’altra settimana. Lei era lì, ad aspettarlo, in reggiseno e slip, e lui? Al pub con la squadra. Non poteva fargliene una colpa, era il capitano, non poteva tirarsi indietro, però...

    Kate richiuse il libro tenendo il segno con il dito e, con la mano libera, prese il cellulare dal comodino. Mezzanotte e venti. Iniziava a essere davvero tardi; che si fosse dimenticato la sua promessa? No, non Richard, il suo Richard l’amava e non vedeva l’ora di stare con lei. Riprese a leggere e riuscì a finire la pagina, ma non era la serata adatta a Roth.

    Quando il motore di un’auto si spense proprio lì fuori, Kate chiuse definitivamente il libro, senza tenere il segno. Guardò verso la finestra. L’unica luce nell’appartamento era quella della piccola lampada sul comodino. Richard l’avrebbe vista dalla strada, pensò, e sarebbe stato contento di saperla ancora sveglia ad aspettarlo.

    Un rumore che lei conosceva bene, quello delle rotelle dei trolley, le giunse dalla via. A Kate sembrò di vederli, Richard e Derek che si salutavano, Derek che entrava nel suo appartamento al piano di sotto e Rick che riprendeva a salire. E infatti, ecco il rimbombo del trolley di fronte alla porta d’ingresso; troppo stanco per

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