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Al di là dello specchio
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Al di là dello specchio

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About this ebook

Jasse Briant è una ragazza di circa 20 anni. È una sportiva, un appassionata di Muay Thai, che si sta preparando per concorrere nei mondiali. Ma la realizzazione del suo sogno non è l'unica preoccupazione. Dovrà aiutare sua sorella Juliet, e poi suo padre. Durante il sonno una strana sensazione comincia ad avvolgerla. Al di là dello specchio Jasse troverà le risposte, combattendo contro le cose assurde da credere, che le capitano quando dovrebbe dormire.
LanguageItaliano
PublisherLUPIEDITORE
Release dateNov 10, 2018
ISBN9788829547593
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    Al di là dello specchio - CLAUDIA MASCIA

    © 2018 Lupi Editore

    Via Roma 12, 67039 Sulmona (AQ) 

    Tutti i diritti riservati 

    www.yndy.it

    ISBN 978-88-99663-47-6

    Finito di stampare nel mese di maggio 2018 presso Universal Book srl - Rende (CS)

    per conto della casa editrice Lupi Editore

    AL DI LÀ DELLO SPECCHIO

    di 

    Claudia Mascia

    Ai miei.

    A me.

    A mia nonna, che mi osserva da lassù.

    Infine, a chiunque dedichi anche solo cinque minuti del suo tempo, per soffermarsi a leggere ciò che io ho scritto.

    CAPITOLO 1

    Cosa sono queste luci... Cosa sono queste voci. Un buio fitto mi avvolge, mentre cerco di guardarmi attorno senza riuscirci. Le posso toccare quelle luci? No, sono troppo lontane. Sono stelle... E allora che qualcuno spenga le stelle perché ho solo voglia di starmene da sola, nel buio.

    I miei occhi si aprirono nel semibuio accogliente della mia camera. Il mio cuore palpitava e la salivazione era pressoché azzerata. Che cos’era quella strana sensazione? Mi ero sentita stranissima, pochi attimi prima di svegliarmi, avevo provato delle sensazioni impressionanti, mai provate neanche nei peggiori degli incubi. Strizzai gli occhi un paio di volte, faticando a tenerli bene aperti e mulinai la lingua all’interno della bocca, assaggiando la pastosità tipica del primo mattino. Trovai la coscienza per passarmi una mano sul viso e cercare di tirarmi su. Che buffo, quella sensazione non era stata che un attimo, prima di riuscire a svegliarmi, eppure era stata fortissima e ancora mi influenzava, me ne sentivo avvolta... Mi sedetti sul letto, posando le mani a lato del corpo, e stringendo sensibilmente le dita sul materasso. Scossi forte la testa rabbrividendo, un po’ per il freddo, un po’ per scacciare quel brutto ‘sogno’. Insomma mi ero sentita come se non fossi più io, come se fossi stata nel corpo di un’altra persona... Era abbastanza usuale sognare se stessi, ma sognarsi in un’altra persona, cosa o animale... Beh era meno solito. Decisi di non auto indagarmi oltre, in fondo era stato solo un brutto sogno. Mi stavo per alzare quando la porta della mia camera scricchiolò, aprendosi. Sollevai lo sguardo dal tappetino bianco ai piedi del mio letto su cui era puntato e lo posai sulla persona alla porta. Una ragazzina, sui 16 anni, dai lunghi capelli castani e lisci e i grandi occhi marroni, mi guardava, con una mano posata ancora alla porta di legno chiaro dipinta di bianco. «Jesse, la mamma dice che la colazione è pronta, che fai, scendi?» domandò, tranquillamente. Anche lei aveva le chiare tracce del cuscino sul viso. Con un movimento secco e agile balzai giù dal letto, provocandomi in realtà uno svarione, che, tuttavia, riuscii a nascondere bene. Dunque mi indirizzai verso mia sorella. «Sicuro, scendiamo!» feci, chiudendomi alle spalle la porta, e cominciando a incamminarmi per le scale che portavano di sotto. «Ma prima fai tappa in bagno, hai un solco in faccia lasciato dal cuscino non indifferente!» la presi per il braccio e la spintonai delicatamente verso la porta del bagno che era situata subito prima delle scale, mentre io giravo a sinistra imboccando queste ultime. «Senti chi parla, hai un bel dire! Ti sei vista allo specchio stamattina? Sembri uno zombie!» le parole di Juliet mi giunsero urlate, mentre scendevo le scale a balzelli disinteressati, ridendo flebilmente. Entrai in cucina.

    «Buongiorno mamma» feci, automaticamente, entrando e dirigendomi verso il tavolo. Mia madre, una donna alta e piuttosto slanciata, si voltò verso di me, staccando gli occhi dallo schermo TV e incamminandosi immediatamente verso la mia figura, che nel frattempo si sbucciava in tutta calma un’arancia.

    «Buongiorno tesoro». Mi posò un flebile bacio sulla guancia, quelli sulla fronte spettavano ormai a mia sorella; poi si soffermò a guardarmi in faccia «hai dormito bene? Hai l’aria stravolta» domandò, accigliandosi. Mi chiesi sinceramente che diamine avessi in faccia per fare a tutti quell’impressione. «Benissimo grazie, ma si può sapere che ho in faccia? Me lo ha detto anche Juliet» risposi, contrariata, mentre giravo nello spremi agrumi quel succosissimo frutto. «Oh, non dar retta a tua sorella, state sempre lì a punzecchiarvi» mi rispose mamma, con un gesto di noncuranza. Risi in maniera leggera. «Juliet mi ha detto anche che era pronta la colazione, mentiva anche su quello?» domandai, rimanendo allo scherzo, mentre versavo il succo d’arancia in un bicchiere, lo zuccheravo e giravo il cucchiaino al suo interno.

    «No che non ho mentito, e io non mento mai», Juliet entrò in cucina, mi prese il bicchiere di mano e bevve il primo sorso al posto mio, per poi riabbandonarlo fra le mie mani, «uhm, buono». Inarcai un sopracciglio.

    «Bene, fattelo!» le risposi. Si voltò a guardarmi, quasi incerta se stessi scherzando o no, ma accompagnai il mio sopracciglio inarcato con un mezzo sorriso divertito, al quale rispose. Diedi un’altra girata al succo e poi estrassi il cucchiaino, lanciando un’occhiatina al mio riflesso deformato sul metallo. Effettivamente i miei occhi color ghiaccio erano più offuscati e spenti del solito ed erano contornati da occhiaie paurose. Eppure avevo dormito tutta la notte. «La colazione è là sul ripiano: pane e Nutella, se vi va». Sia io che Juliet sollevammo di scatto lo sguardo su nostra madre, e poi, contemporaneamente, ci guardammo. «Tu prova a fregarmelo tutto e ti faccio dimenticare come ti chiami, ragazzina» feci, ironica, indicando col cucchiaino mia sorella, con fare ammonitore e minaccioso.

    «Prova a fermarmi, tardona!» ridemmo entrambe, non ci saremmo messe a fare le stupide, ma Juliet si avvicinò velocemente al ripiano, facendo per prendere tutto il piatto. Ma prima ancora che avesse allungato le mani, io avevo già posato il bicchiere, fatto il giro del tavolo, e avvolto le braccia attorno alla vita di mia sorella. La sollevai e la spostai come se fosse una scatola completamente vuota, leggera come un fuscello. Dunque mi misi davanti al piatto. Presi una fetta e cominciai a degustare rumorosamente, facendo versi di apprezzamento e soffocando le risate, mentre Juliet strepitava alle mie spalle, cercando di oltrepassare la mia figura. Ma era un’operazione veramente complessa per lei. Ero più alta di due spanne buone e le mie spalle erano decisamente larghe per le sue braccine esili. Ne mangiai due fette e mezzo e mi ritenni soddisfatta, mi ritrassi mentre finivo l’ultima metà della mia fetta, lasciando il piatto a Juliet e tornando al tavolo. Mia sorella osservò il vassoio: «ne hai mangiati tre pezzi!» si lamentò, senza staccare gli occhi dal piatto con il pane e Nutella restante, «e quindi? Erano sei, pari e patta» risposi, non vista dall’altra, «sì, ma di sicuro ti sei presa le più grandi e...» arrivai alle sue spalle e le misi davanti alle mani un bicchiere di succo appena spremuto. Con l’altra mano ingurgitai l’ultimo pezzo di pane, «...E, datti una mossa: qua tutti abbiamo da fare!» completai. Juliet prese il bicchiere e guardò sorridendo la mia figura che si incamminava di nuovo su per le scale. Ero una sorella piuttosto premurosa, tutto sommato, solo che non amavo darlo a vedere ed ero sempre e comunque contraddistinta dalla durezza nell’atteggiamento. Pochi minuti dopo ero di nuovo giù, con un borsone sportivo su una spalla, un paio di calzoncini larghi, leggermente spaccati ai lati e un top aderente, nascosto momentaneamente da una maglia nera a maniche corte, con uno stemma piccolo sul davanti e un altro uguale ma più grande sul retro. Entrai nuovamente in cucina, mia madre era già affaccendata a sistemare casa e Juliet doveva essere scesa poco prima di me, dopo essersi cambiata, giacché a rinfrescarsi in bagno ce l’avevo mandata io, quando mi aveva svegliata.

    «Mamma, faccio un salto in palestra, tiro due colpi, ma ci sono per pranzo» dissi, rilassata. Mia madre annuì, tranquillamente, «buon allenamento, cara». Gli appellativi che nostra madre ci dava potevano essere davvero svariati, quando era in vena; per quella mattina si era limitata a tesoro e cara, ma avevamo tutta la giornata davanti. Mi strappò un sorriso. Poi mi rivolsi a mia sorella, buttata sul divano, con l’aria comoda e lo sguardo perso nel cellulare. «Ehi tu, non devi andare a quei brevi corsi estivi scolastici?» domandai. Juliet sollevò lo sguardo: un’espressione rilassata sul volto, anche se, per una frazione di secondo, le lessi sul viso una strana ombra, mentre i suoi occhi scorrevano quello che doveva essere un messaggio. «Già, ma è presto per l’autobus» mi rispose, semplicemente. Spostai lo sguardo e le feci con due dita segno di alzarsi. «Alzati, ti accompagno io» feci e girai le spalle. Attraversai il breve salotto e presi le chiavi della macchina dalla credenza, situata subito prima della porta che dava fuori. I passi di mia sorella mi trottarono affrettati dietro, raggiungendomi. Guardò quello che facevo «Ah, non prendi la moto?» mi chiese, fingendo di lagnarsi. Sorrisi, aprendo la porta e uscendo fuori «no, niente moto per oggi, ho il borsone troppo pesante e anche la tua borsa pesa. Se perdessi qualcosa in viaggio sarebbe una seccatura». Juliet si occupò di chiudere la porta. Io arrivai alla macchina, aprii il cofano e ci buttai dentro la borsa della palestra, per poi sedermi al posto guida. Mia sorella mi seguì subito dopo, buttò la borsa sui sedili posteriori, tenendosi fra le mani solo una cartella grossa e gialla e il solito cellulare in tasca. La osservai bene per la prima volta da quella mattina, portava una semplice camicetta bianca a maniche corte, appena più corta del normale, e dei jeans scuri e aderenti, con delle comode scarpe da ginnastica, sul viso un filo di trucco, i capelli castani, piastrati e sistemati, parevano assumere una tonalità appena più chiara, soprattutto esposti alla luce del sole. Juliet si voltò.

    «Che fai, controlli come sono vestita?» chiese, stizzita. «Se vuoi la verità, sì» risposi, divertita.

    «Tu non sei una sorella, tu sei un fratello diamine!» Ridemmo entrambe. Ingranai la marcia e partii.

    Me la presi in tutta calma e arrivai alla scuola di Juliet comunque con un lieve margine di anticipo. Accostai al marciapiede dal lato del passeggero e sbirciai fuori dal finestrino opposto al mio. C’era già qualcuno.

    «Che fai, scendi di già? Ti sei sentita con le tue amiche?» domandai, continuando a studiare la gente circostante. «Sì, e ci sono già. Se le vuoi chiamare amiche! Quella è una giungla, cosa credi!»

    Juliet ebbe un moto di stizza mentre diceva queste parole e quella che mi sembrò una piccola nota di amarezza. «Come la fai tragica: è solo un liceo, e tu sei anche alla fine» commentai, guardandola con un sorriso, cercando di ironizzare. «Non vedo l’ora di essere al college, così stacco da tutto e da tutti», fece, mentre si girava a recuperare la borsa. Mi accigliai «bisogno di una chiacchierata, sorellina?» le domandai, sospettosa. Lei sollevò d’improvviso i suoi occhioni su di me. «Che? Oh no, no! Credevo stessimo solo giocando. Non c’è nulla che non vada alla fine in quel liceo. Ma sai, prima finisce e meglio è, no?! Vorrà dire che son stata promossa sempre». Aggiunse una scrollata di spalle e si infilò un chewing-gum in bocca. Io sorrisi appena, più rilassata, posandomi di nuovo al sedile, «sicuro. Buon lavoro allora, sorellina». Le scompigliai leggermente i capelli, il tanto che bastasse per farli tornare esattamente al loro posto. Mia sorella scese dalla macchina. «Buona palestra, Jesse, ci sei anche al ritorno?» domandò, fingendo indifferenza, ma la sua voce tradì una buona dose di speranza.

    «A che ore esci?» Misi in moto.

    «Le sei di stasera... Yuppie!»

    Altra stizza ironica. Sorrisi.

    «Ci sarò!» risposi.

    «Grazie, sorellona, a dopo!»

    Ci scambiammo un breve sorriso, poi lei mi girò le spalle e andò verso un capannello di ragazze pressoché della sua età. La osservai per un secondo, mentre salutava tutte con una stretta di mano o un gesto, tranne una che guardò invece per un istante in più, esitando, per poi salutare anche lei e mettersi al suo fianco. Beh era giunto il momento di farmi gli affari miei e di andare a sudare.

    Avevo mentito: in realtà il mio allenamento, visto lo stacco del pranzo, sarebbe dovuto durare almeno fino alle 19 circa. Avrei dovuto fare qualche salto mortale per riuscire ad abbreviarlo di un’ora. Poco importava, mi sarei spremuta un po’ di più nel tempo prima delle 18.

    Arrivai con una velocità completamente differente alla Saint Benjamin s.p.a, palestra di boxe, kick boxing, judo, Tae-kwon-do e chi più ne ha più ne metta. La mia disciplina, però, era altro.

    C’era chi mi diceva che tra tutte mi ero dovuta scegliere proprio la peggiore, forse era la più violenta, ma per me nulla era stato meglio, ero portata e mi scaricava come nessun’altra cosa al mondo. Senza la Muay Thai probabilmente sarei già diventata pazza da tempo.

    Scesi, sbirciando l’orario, erano appena le 10 e 30, era estate e gli orari erano comunque comodi, sia per me in palestra che per mia sorella a scuola.

    Mentre aprivo il cofano, una macchina parcheggiò accanto a me e io sorrisi, riconoscendola. Borsa in spalla, chiusi il cofano, mentre i due fratelli Cooper scendevano quasi all’unisono dall’auto. Kayline scese dal posto passeggero che stava dalla mia parte, con una grazia che decisamente non apparteneva a me. Lei era una ormai grandissima esperta di Capoeira, una disciplina aperta da poco alla St. Benjamin ma che stava già reclutando un mucchio di allievi e cultori.

    «Ehi Jesse! A sudare?» sfoderò il suo sorrisone bianco, che pareva ancora più candido a contrasto con la sua carnagione scura. La affiancai, «sicuro! A scaricare un po’», commentai, divertita. Ci incamminammo all’entrata e in pochi attimi Damien, il fratello, ci fu accanto. Erano fratelli gemelli ma non si somigliavano per nulla, erano quello che si dice gemelli eterozigoti, li accomunava giusto la data di nascita.

    «Si crede una grande lottatrice ora, solo perché sa fare due passi di uno stupido balletto» la prese in giro il ragazzo, oltrepassando entrambe mentre entravamo in palestra e facendo qualche passo all’indietro, con un sorriso divertito stampato in volto. «Taci Damien, o nostra madre vedrà solo uno di noi due tornare a casa stasera!»

    Kayline non le mandava mai a dire; io ridacchiai e mi avviai al mio spogliatoio, «ci vediamo più tardi ragazzi». Mi salutarono con i loro sorrisi più larghi e poi ci dividemmo, io allo spogliatoio di Muay, Kaylne di capoeira e Damien di boxe. Non ci vedevamo troppo spesso, ma ogni volta che incrociavo qualcuno in quel luogo, anche se non faceva parte del mio ramo, lo conoscevo, essendo parte di quel grande gruppo da così tanto. Avevo con quasi tutti un ottimo rapporto.

    Entrai in pochi minuti nel mio spogliatoio. Non sapevo dire perché, ma adoravo quell’ambiente, tutto di quel luogo mi tranquillizzava e caricava allo stesso tempo. L’accoglienza di quel particolare odore, un misto fra gomma e aria surriscaldata da corpi che quasi evaporavano per il sudore, il rumore metallico del mio armadietto personale, e quel pensieroso momento in cui mi mettevo le fasce alle braccia e alle mani, raccogliendo la concentrazione e la carica, solo io con me stessa, il mondo fuori e il lontano rumore dei colpi a segno sui sacchi a farmi compagnia. Erano tutte melodie riconoscibili per me, era il momento di lottare. Finii la preparazione ed entrai in palestra, vestita come prima, con l’aggiunta delle fasce e senza la maglietta, ma solo con un top nero che lasciava in mostra buona parte del mio addome, piatto e scolpito. Era d’obbligo per una come me che, ormai, lottava praticamente nel circuito professionistico. Tutto ciò che mi mancava era un ingaggio sponsorizzato e poi avrei potuto benissimo vivere del mio sport, di ciò che amavo. I mondiali non erano così lontani e, se li avessi vinti, avevo ottime possibilità di procurarmi un ingaggio.

    «Briant, te la sei presa con comodo eh?!» non era palestra senza le urla di Ben, il mio adorato e odiato allenatore. Due minuti, il mio ritardo era di due minuti esatti di orologio, e lui già mi sbraitava addosso come un ossesso. «Forza, a lavorare!» il suo tono era burbero e ruvido, ma ci accompagnò un sorriso. Mi mollò una decisa pacca sulla spalla e mi indicò un sacco: «Fatti il riscaldamento e poi dalle un po’ a quel povero sacco, fino a stasera solo tecnica, non ti faccio combattere». Altra pacca mentre si allontanava, lasciandomi accanto al mio attuale bersaglio.

    «Peccato che non combatti, Briant: avevo una gran voglia di dartele!»

    La voce fredda e quasi innaturale del più scassa scatole di tutta la St. Benjamin mi raggiunse. Risi, abituata a snobbarlo. Quel ragazzo mi annoiava da morire. «Va bene, va bene Vincent, hai ragione, ci vuole sempre una buona dose di autoconvinzione, anche quando le cose sono impossibili» risposi, con tono neutro e totalmente disinteressato. Sentii il suo sguardo intensificarsi e poi percosse più forti al suo sacco. Se c’era una cosa che faceva andare in bestia Vincent Bouviè ero io, o meglio era la mia capacità di tenergli testa, di ridere delle sue provocazioni, come se fossero le ridicole parole di un bambino. L’allenamento scivolò via, fluido come sempre; sentire i miei muscoli bruciare per lo sforzo era ormai quasi confortante e divertente per me, inoltre avevo acquisito una sicurezza enorme e una resistenza non indifferente. Mi divertii, come sempre, mentre sperimentavo nuove tecniche e combinazioni, e affinavo la coordinazione. Tutti quanti, in palestra, si davano da fare e quando c’era da allenarsi non c’erano chiacchiere per nessuno, se non giusto qualche occhiata di saluto. Ben soffiò forte nel suo fischietto da generale militare, «okay, okay ragazzi, basta per ora. Staccate un po’, andate a mangiarvi qualcosa, ci vediamo dopo pranzo. E non abbuffatevi troppo». Sbraitò i suoi comandi e poi voltò le spalle a tutti e si incamminò verso il suo piccolo ufficio. Sospirai mentre riprendevo fiato, con il pugno chiuso appoggiato al sacco. Un ultimo respiro più profondo e presi il mio asciugamano, detergendomi il sudore da fronte e collo e incamminandomi verso l’uscita. Solo in quel momento potei dedicare un po’ di attenzione a chi mi circondava. Passai accanto a una ragazza, alta ma particolarmente magra, dall’aria allampanata, e le diedi una piccola botta giocosa.

    «Ehi, Shannon!» salutai divertita, mentre l’altra rispondeva al colpo, «chi si vede, vossignoria Jesse la campionessa». Finse un inchino e io risi, prendendola sotto braccio e stringendo più del necessario, «quanto sei imbecille». Continuammo così, tra risate e vere e proprie botte, che a noi non facevano che il solletico, ma che avrebbero atterrato un cavallo da corsa, fino a giungere allo spogliatoio.

    Shan era una delle mie migliori amiche, andavamo entrambe in palestra fin da bambine, come Vincent e Danny. Eravamo un gruppo ormai consolidato, tutti avremmo partecipato ai mondiali, tutti speravamo in un ingaggio e volevamo diventare professionisti per vivere della nostra passione. C’erano i ragazzi che andavano e venivano, i novellini o chi si voleva solo allenare un po’, ma noi no, noi eravamo il gruppo dei professionisti. Ovviamente non tutti potevano avere un buon rapporto; io e Shan lo avevamo. Vincent, beh, lui se lo dovevano subire i ragazzi, ovvero Danny.

    Un’altra risata accompagnò l’ultima idiozia sparata da Shannon, prima che si ritirasse nella zona docce. Io armeggiavo al mio armadietto. «Ehi, Jesse! Ti va di aspettarmi? Ci metto un minuto!» la voce della mia amica mi raggiunse, mentre chiudevo con uno scatto metallico l’armadietto, dopo essermi scaricata di parecchi quintali la borsa. «Solo se mi preghi in ginocchio, Flare!» risposi, ridendo. Ma il secondo dopo mi sedetti sulla panca addossata alla parete degli armadietti. Iniziavo a sentire una stanchezza stranamente consistente, mi sentivo la testa un po’ pesante. Posai delicatamente il capo al muro e chiusi gli occhi, mentre uno strano torpore mi avvolgeva. Okay, forse non avevo dormito così tanto bene come credevo, visto che le mie palpebre sembravano essere così comode, ora, da chiuse. Provai ad aprirle per riuscire a non crollare ma, prima ancora di accorgermene, fu tutto buio e io mi addormentai.

    E di nuovo il buio, di nuovo il silenzio consistente e quasi denso di questa oscurità. Non vedevo più luci, non vedevo assolutamente nulla, e non volevo neanche vederlo. Sentii la morte nel cuore, quel duro peso che ti opprime e non ti lascia respirare. Sentii un nodo alla gola e un masso sullo stomaco. Come quando non stai male solo per te, quando tutto non va, e ti rimane solo quel buio a consolarti. Perché il buio non giudica, il buio capisce e protegge. E non devi fare nulla quando tutto è scuro, puoi solo abbandonarti e dormire, dormire per un’ora, un giorno, un anno o un’eternità. Non ero io, quel male non era mio, non mi apparteneva; eppure lo sentivo dentro come il più radicato dei sentimenti. Ed era forte e straziante. Era male di vivere. Poi qualcosa cambiò, in quell’oscurità. Uno spiraglio, sottilissimo e orizzontale, fece trapelare una luce. Una stranissima luce opaca, quasi perlacea, che in quel buio risaltava e quasi feriva. Per quanto desiderassi quell’oblio, la fessura si faceva sempre più ampia, la luce sempre più forte e accecante. Finché non ne fui completamente investita e per un momento non vidi nulla. Tutto si confuse, persino per l’irrealtà di un sogno. Piano piano mi abituai a quello strano, nuovo ambiente. I contorni offuscati di un qualcosa ancora non meglio definito si stagliarono davanti a quello che presumevo essere il mio sguardo. I contorni si fecero man mano più chiari, più nitidi, finché non misi a fuoco una mano. Una semplicissima mano, col palmo rivolto verso l’alto, come se l’avessi voltata apposta per squadrarmela. Eppure quella mano non era mia. Non poteva essere mia, non la riconoscevo come tale, era come guardare dagli occhi di un’altra persona. Un’altra persona che non sembrava poi così ‘altra’. Quel dolore continuava a opprimermi, quella voglia di giacere lontano e spegnermi per sempre non mi abbandonava un attimo, ma fu costretta ad essere accantonata, quando mi soffermai a osservare meglio quel semplice arto. La sentivo non mia, la vidi muoversi sotto un comando che non avevo dato, e la carnagione pareva differente. Eppure una parte di coscienza ancora presente, quella piccolissima frazione di me stessa dentro quell’innaturale sogno, riconobbe quella mano. Riconobbe quei calli, e riconobbe quei segni sul dorso. Soprattutto ne riconobbe uno: una cicatrice trasversale, sul dorso, riportata durante una brutta lite. Quella mano era mia.

    CAPITOLO 2

    Non capii mai se fui risvegliata dal sussulto che ebbi nel sonno, o dalla mano gentile di Shannon, che mi scuoteva leggermente.

    «Jesse! Ehi, che c’è? Non avevi

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