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Oltre le nuvole
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Oltre le nuvole

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About this ebook

Massimo è un pilota dell'aeronautica militare che, a causa di un "incidente" in Afghanistan, è diventato paraplegico. Pur non volendo vivere, si ritrova a farlo per amore del suo adorato nipote Andrea. La vita di Massimo si interseca con quella di Sabrina, la mamma del miglior amico di Andrea e, grazie a lei, impara ad assaporare i vari gusti della propria nuova esistenza.
LanguageItaliano
PublisherLUPIEDITORE
Release dateNov 16, 2018
ISBN9788829551699
Oltre le nuvole

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    Oltre le nuvole - STEFANIA MORTINI

    OLTRE LE NUVOLE

    Soldiers Series Vol. 1

    di Stefania Mortini

    Editing a cura di Scarlett

    Oltre le nuvole

    Proprietà letteraria riservata

    Copyright © 2017 Stefania Mortini

    Ogni riproduzione, totale o parziale e ogni diffusione in formato digitale non espressamente autorizzata dall’autore è da considerarsi come violazione del diritto d’autore e pertanto punibile penalmente.

    Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, viventi o defunte, è del tutto casuale.

    A mio marito, fervente sostenitore

    di una causa incomprensibile per molti.

    Sei il mio eroe. Lo sarai in eterno.

    PROLOGO

    - NEBBIA -

    Il dottor De Luca aveva appena iniziato il suo turno quando decise di andare a far visita al nuovo arrivato del reparto. Non appena varcò la soglia della camera numero otto, udì il bip incessante dell’elettrocardiografo che, prepotente e cadenzato, sottolineava la vigilanza su quella figura inerte. La stanza semibuia offriva poche possibilità di scorgere qualcosa oltre le lenzuola candide, avvolte intorno al corpo quasi a voler sembrare una sindone, così si avvicinò silenziosamente alla finestra e aprì piano la tendina oscurante, con lentezza, per non far rumore.

    Ciò che vide quando gli occhi si posarono sul volto tumefatto del paziente, ridestò la sua curiosità ormai sopita negli anni, quegli stessi anni segnati dall’esperienza di una lunga carriera all’Unità Spinale dell’ospedale Niguarda di Milano.

    Si avvicinò un poco, quel tanto da discernere il viso che dapprima aveva messo a fuoco solo in tralice e in parte: di volti sfigurati dalla sofferenza ne aveva visti tanti, ma come questo no, questo aveva qualcosa di diverso.

    Aveva un’espressione delineata da una certa rudezza, le labbra serrate in una linea dura e impenetrabile. Era ammantato per intero dalle lenzuola bianchissime, anche se a fatica data l’enorme stazza, ma era solo il cipiglio del viso che tracciava la durezza dell’uomo. Riconobbe in quelle sembianze una fierezza direttamente proporzionale alla propria apatia per il mondo esterno, qualcosa di molto simile a un credo che lui aveva perso ormai da immemore tempo a causa di un’esistenza morigerata, impolverata d’abitudine.

    Ne ascoltò il respiro acuendo l’udito oltre la soglia del suono del monitor ed evinse che ogni flebile ansito di quel corpo senza nome aveva un attaccamento alla vita degna del sospiro più profondo. L’aura dello sconosciuto si diffondeva nell’ambiente in tutta la sua prepotenza e urlava orgoglio, nonostante l’immobilità, poiché l’uomo giaceva stoicamente su un letto ormai da diversi giorni.

    Il dottore ebbe un brivido foriero di enorme rammarico cui conseguì l’urgente bisogno di visionare la cartella clinica e, non appena lesse il nome del paziente, ogni suo dubbio si tramutò in conferma.

    Fece un lungo sospiro e strizzò gli occhi tentando di riordinare le idee: quel nome era croce e delizia al tempo stesso. Delizia perché i giornali avrebbero parlato di lui per parecchio tempo e, ovviamente, il dottor De Luca sapeva che avrebbe acquisito prestigio grazie alle interviste che ne sarebbero derivate, ma la croce era evidente perché sapeva bene in quale lotta si stava per imbattere.

    «Povero giovane…», mormorò una voce dietro di sé. Non appena si voltò s’imbatté nell’infermiera Melina, che lavorava con lui da oltre vent’anni. Aveva la sua stessa espressione contrita e amareggiata, specchio del volto del dottore. La donna, ormai di una certa età oltre che di altrettanta esperienza, guardava il paziente in modo materno, anche se quasi incantata da tanta rude bellezza. L’uomo, anche se inerme, aveva un nonsoché di maliardo, qualcosa simile a una calamita che la spinse ad avvicinarsi e a carezzare quei capelli che fino a poco tempo prima erano stati sistematicamente rasati ma che ora crescevano neri e lucidi come la pece. Lei gli osservò le tumefazioni alla base della guancia che si estendevano quasi fin sotto l’occhio, formando anche qualche escoriazione vicino alla tempia.

    «Qual è la diagnosi?», sussurrò la donna a fil di voce.

    Il dottore dapprima scosse la testa e poi, quasi boccheggiando, tramutò in certezze i sospetti di Melina.

    «Ha una lesione alla parte bassa della spina dorsale. Purtroppo, con tutta probabilità, rimarrà paraplegico per il resto della vita. Sempre che si risvegli dal coma…»

    L’esitazione le ruppe la voce quando chiese: «Posso sapere il suo nome?»

    «D’Ambrogi…»

    Melina riempì d’aria i polmoni, sorpresa dall’adrenalina che aveva cominciato a farle battere il cuore per l’emozione.

    «Quel D’Ambrogi? Quello di cui tutti i giornali parlano? Il Capitano Massimo D’Ambrogi?», balbettò sconcertata e turbata nel contempo.

    Aveva sperato fino all’ultimo che fosse assegnato a un’altra struttura, dal momento che quel nome incarnava l’essenza di tutte le sue paure. La storia del militare non aveva lasciato indifferente nessuno e il tam-tam mediatico che ne era derivato aveva fatto sì che la sua storia divenisse famosa per l’Italia intera. Ciò che era successo a quell’uomo avrebbe disumanizzato chiunque e proprio lei avrebbe avuto l’arduo compito di indottrinarlo nuovamente alla vita con la paura di esiti paradossali.

    Il dottore e l’infermiera si guardarono negli occhi intensamente, consci del peso del carico che era stato riposto nelle loro mani.

    «Non ti preoccupare, Melina. Affronteremo anche questa sfida insieme.»

    Ma la donna si era già prontamente dileguata verso l’uscita, celando quelle lacrime che non le sarebbero dovute spuntare e che, traditrici, le avevano appannato lo sguardo. Il suo lavoro le imponeva di avere sempre un atteggiamento neutro, ma non era riuscita a mantenere il contegno, a rimanere indifferente di fronte a un destino così crudele, dove persino la morte sarebbe stata una fine più lieta.

    CAPITOLO 1

    - TEMPESTA -

    Massimo procedeva dandosi lo slancio a ritmo lento, modulato, scandito solo dal proprio respiro affannato per lo sforzo.

    Ogniqualvolta guardava gli arti inferiori immobili, un moto di rabbia gli partiva dalla pancia, per arrivare direttamente al cervello. Proseguì, con le guance imporporate d’odio per se stesso, dirigendo le ruote per i pochi metri che lo dividevano dalla porta dello studio di psicoterapia che gli era stato consigliato dall’Ospedale Militare. Arrivato al portone, suonò e aspettò che gli venisse aperta la porta. Non che fosse meno mortificante essere guardato dalla testa ai piedi con commiserazione, ma quando lo assecondavano facendo addirittura le cose al posto suo, beh, quella era umiliazione allo stato puro.

    Ed eccolo qua il grosso portone verde oliva che, imponente dinanzi ai suoi occhi, s’intonava perfettamente al suo passato e probabilmente proprio per questo era, quasi ogni notte, il protagonista dei suoi incubi. Se lo era ritrovato davanti già quattro volte in quel mese e, sistematicamente, avrebbe voluto buttarlo giù con un ariete. D'altronde non era concepito per consentire alle persone disabili di varcare la soglia, avendo un grosso ferro alla base che sbarrava l’ingresso alle ruote, così ogni volta, la signorina all’ingresso era costretta a sospingere la carrozzella per agevolarne l’accesso. Quando aveva espresso il suo disappunto, gli era stato gentilmente risposto che la sua presenza era irrilevante e che se il posto non era di suo gradimento, avrebbe potuto recarsi in qualche altra struttura, magari più qualificata, con la certezza che avrebbe trovato altrettante barriere architettoniche. L’alternativa era venire semplicemente aiutato dalla segretaria che lo avrebbe accolto direttamente all’ingresso, e ormai si era rassegnato allo sguardo accondiscendente che ogni volta, con cadenza settimanale, gli regalava la ragazza.

    Dal giorno in cui aveva perso l’uso delle gambe, trovandosi di fronte a ostacoli di ogni forma e tipo come questo, si era chiesto sistematicamente se una società che erige limitazioni nei confronti dei più deboli può essere chiamata tale. Era passato un anno da quel fottutissimo giorno in cui la sua vita, stanca della sua esistenza sopra le righe, gli aveva voltato le spalle e, infingarda, era cambiata per sempre. Erano passati 365 lunghi giorni da quel disastroso appuntamento a cui non avrebbe potuto sottrarsi neppure se avesse voluto. Anche se il tempo traditore, dilatato dall’infelicità, aveva fatto sì che quel frangente venisse percepito più lungo di un’intera vita, sapeva bene che giorno fosse oggi, al di là di uno sfortunato compleanno, perché aveva contato ogni maledettissimo minuto. Prima della sua infinita degenza, Massimo pensava che il metro di misura di un anno fosse sempre uguale. Ora non ne era più convinto.

    Dopo l’incidente, appena arrivato in ospedale, nei pochi momenti che lo avevano riportato in superficie con un leggero dormiveglia per poi farlo risprofondare in un coma profondo, aveva ascoltato e carpito dai medici che aveva perso l’uso delle gambe per sempre. In quei giorni era stato al confine, laddove finivano i sogni e iniziava la realtà. Avrebbe voluto terminare la sua esistenza nel momento stesso in cui avevano sentenziato la sua paralisi, ma quando aveva sentito la voce di Andrea, aveva sovvertito il proprio desiderio di morte. Si era sforzato di improntare nel vuoto della mente il ritratto di quel viso cherubico e si era aggrappato al bisogno di quel piccolo essere di avere qualcuno a fianco, per potersi risvegliare.

    Se Massimo fosse morto, chi si sarebbe occupato di suo nipote di quattro anni? Di certo non sua sorella Marika, che per disgrazia era la madre biologica, esageratamente giovane e stupida. Troppo spesso si sottraeva ai suoi doveri di mamma per vivere una vita notturna sopra le righe, al di là di ogni concezione morale. Di certo non i suoi genitori, nonché nonni del bambino, troppo impegnati a mandare avanti l’azienda di famiglia fino a orari improponibili. Per giunta, nonna Iolanda era una fervente cattolica che non mancava occasione per fare proselitismo e nel caso specifico di Andrea, indottrinarlo alla religione cristiana. No, non poteva lasciare Andrea solo, in quella famiglia di pazzi. Era nato da chissà quale relazione della sorella, lei non aveva mai voluto dire chi fosse il padre e Iolanda non aveva voluto neppure sentire parlare di aborto, troppo religiosa e timorata di Dio per commettere un peccato così grande. Ma il piccolo, dopo l’iniziale entusiasmo dato dalla sua nascita, era stato ben presto dimenticato da tutti, se non per le cose basilari quali cambiargli il pannolino o sfamarlo. L’affetto, a quel cucciolo di uomo, era stato quasi negato e la madre si era limitata solo ad assumersi le proprie responsabilità, come se fosse un peso, una cosa antipatica da sbrigare.

    Invece Massimo per Andrea aveva immediatamente provato un amore inconsueto e inspiegabile persino a se stesso, solitamente sofferente di una bulimia affettiva che non gli permetteva di andare al di là del proprio ego in ogni tipo di legame affettivo. Con Andrea era andata diversamente: alla sua nascita aveva sentito un amore grande che partiva dall’intimo, come solo un padre sa provare, un amore smisurato che va oltre ogni bisogno personale, prescinde da ogni volere, risponde a qualcosa di primordiale. Nonostante la costante assenza lavorativa, era sempre stato onnipresente per lo sfortunato nipotino, lo aveva visto crescere via webcam nelle varie missioni ed era stato un’icona nel suo breve cammino di bimbo. Quando era tornato a casa in licenza nei lunghi anni di missioni volontarie, l’entusiasmo di Massimo si era incanalato solo in quel visino paffuto, in quelle manine morbide. La sua vita privata era stata quasi ed esclusivamente dedicata ad Andrea e se in quel momento avesse deciso di morire, voltandogli le spalle per andarsene definitivamente, probabilmente il bambino avrebbe vissuto molto male, ignorato affettivamente da tutti.

    Così, il giorno stesso che aveva pensato di dire addio alla propria esistenza, aveva immaginato quella vocina infantile implorarlo di svegliarsi e si era reso conto che se si fosse lasciato andare, ad Andrea non sarebbe rimasto più nessuno. Da allora il suo animo si era accinto a fare qualcosa d’inaspettato: si era aggrappato alla vita, superando tutti gli ostacoli che non gli avevano permesso di tornare vigile. In quel periodo, per Massimo, era stato di vitale importanza ascoltare il bip incessante del monitor a cui era collegato attraverso una serie di fili e aveva avuto paura che se avesse smesso di udirli, avrebbe smesso di vivere.

    Aveva cercato in ogni modo di agguantare quel mozzicone di vita che aspetta di essere ripreso in mano per farsi esalare nelle sue ultime boccate e finalmente, dopo lunghi sforzi, invece di sprofondare nell’oscurità, era tornato alla vita. Una vita devastata, ma pur sempre vita. Aveva messo un separé emotivo ai suoi bisogni ed era tornato indietro per non lasciare solo il bimbo nelle fauci di un destino indegno. Pian piano per Massimo era riapparsa la luce e l’unico viso che era stato felice di rivedere, una volta aperti gli occhi, era stato quello roseo e paffuto del nipotino.

    Fin quando era stato in coma, era stato come non aver vissuto affatto, nel limbo del vivere stesso, ma i problemi erano sorti quando aveva riaperto gli occhi. Col suo risveglio aveva scoperto che quando si rimane paralizzati è come se si rinascesse nuovamente. Aveva dovuto imparare tutto daccapo: gli avevano insegnato a vestirsi, a muoversi nelle varie situazioni, a controllare lo sfintere anale e uretrale attraverso orari e pasticche, a convivere con le piaghe da decubito. In ospedale lo avevano trattato con tutti i crismi del caso, come se fosse ancora il militare dalla corazza indissolubile di cui parlavano tutti i giornali. Ognuno di loro aveva cercato di fargli credere che contasse ancora qualcosa, che la sua vita, se solo avesse voluto, non avrebbe piegato la sua tempra. Gli avevano alleviato la sofferenza trattandolo con assoluto rispetto, ma ogni volta che li aveva guardati di sottecchi, quando lo staff medico pensava che fosse distratto in qualche attività, nei loro occhi aveva letto pietà, ed era questa la cosa che più lo aveva umiliato.

    Lo avevano rimesso in sesto, nelle innumerevoli ore di fisioterapia e lui era tornato quasi normale, almeno nelle funzioni basilari. Poi, quando aveva imparato a far tutto, indottrinandolo a questa nuova esistenza, gli avevano detto: A breve uscirai da qui e, di nuovo all’aria aperta, potrai goderti il mondo esterno. Presto sarà finita la prigionia. Quei giorni, che gli erano sembrati anni, erano ormai un vago ricordo. Nel momento in cui si erano aperte le porte automatiche e ne era uscito, si era sentito finalmente libero. Ma più era passato il tempo, più si era chiesto: Libero da cosa?. A cosa serve raggiungere la libertà, se per farlo si perde se stessi? Sicuramente Massimo non era stato libero di evitare un destino infame, uno straziante gioco secondo cui un uomo aitante aveva perso le gambe in maniera subdola e strappa anima per lo stesso motivo che aveva seminato morte intorno a lui.

    «Maledizione!» imprecò, mentre un altro paziente, che aspettava il proprio turno comodamente seduto in poltrona, si voltò incuriosito.

    Concentrati su te stesso! Non pensare a ciò che non c’è più, si ripeté come un mantra per riprendere il controllo.

    Ormai era dentro la sala d’aspetto, ma non avrebbe saputo dire come ci fosse arrivato, se avesse incrociato qualcuno sulla sua strada oltre alla ragazza alla reception.

    Dal giorno del misfatto, percepiva il mondo esterno ovattato, ogni azione che compiva era cancellata dalla memoria, come se i propri assillanti pensieri la esulassero. Un solo, ammorbante tormento, suonava la stessa sinfonia da un anno a questa parte: non avrebbe mai più sentito il suono dei suoi passi, solo il sibilo incessante dell’attrito delle ruote, ma la cosa più angosciante, quello che davvero lo uccideva dentro, è che non avrebbe più potuto volare, non avrebbe più visto il mondo dall’alto. Era questo il senso di libertà che gli era venuto a mancare.

    Si sentiva solo una fotocopia sbiadita di ciò che era un tempo, aveva quel male di vivere, quel dolore sopito, che gli permetteva di sopravvivere appena. Lui era nella trappola dei sogni persi, dove il materiale della tagliola è composto d’apatia e insoddisfazione. Non avrebbe escluso che un giorno, se le cose fossero andate diversamente e non fosse rimasto in carrozzina, avrebbe smesso comunque di volare per dedicarsi a una carriera diversa, ma le dinamiche della vita erano andate contro corrente in maniera fin troppo esplicativa e ora vedeva il suo futuro solo come un lungo susseguirsi di giorni vuoti.

    A un anno esatto di distanza, sapeva di non contare più nulla, di non essere più nessuno. Dello stimatissimo militare non era rimasto più nulla e a oggi, ancor di più nella data di questa infelice ricorrenza, se qualcuno gli avesse chiesto come si sentiva, avrebbe risposto come mera feccia, come un’esistenza ai margini della società e ai limiti della sopportazione. Aveva perso la sua identità quel fottuto giorno, lui lo sapeva bene. Aveva dei gradi ad attestare la sua caparbietà e la sua audacia, ma la realtà era che del celeberrimo Capitano D’Ambrogi, veterano dell’Aeronautica Militare, era rimasto solo un uomo a metà!

    «Prego, il dottore l'aspetta!», sussurrò quasi timorosa la ragazza che lo aveva aiutato poco prima, tirando fuori a malapena la testa da sopra la scrivania.

    Quand'è che era entrato il paziente con lui nella sala d’aspetto, quello che lo aveva guardato come se avesse tre teste?

    Tolse quei fantomatici tappi nelle orecchie e quei paraocchi che gli impedivano di carpire il mondo esterno e si concentrò sulla realtà.

    Arrivò fino alla porta socchiusa ed entrò, meritandosi lo sguardo affilato dello psicoterapeuta che lo aspettava a mani giunte, intrecciate in un gesto duro, analizzante a prescindere. Nonostante il dottore volesse risultare neutro, Massimo sapeva bene che lo stava mettendo a dura prova con la sua continua ritrosia. L’ex pilota faceva malvolentieri le ore di psicoterapia, ma gli servivano per essere di nuovo abilitato al servizio e l’unico ostacolo che non gli permetteva di tornare al lavoro, anche se non avrebbe più volato, era un maledetto certificato medico da cui si evinceva la sua salute mentale. Quel pezzo di carta equivaleva a tornare a fare qualcosa per la patria, un dogma imprescindibile e lui, anche se non ne era più avvezzo, non si sarebbe sottratto ai propri doveri, proprio come aveva fatto quando aveva giurato sulla Bandiera italiana.

    Il dottore continuava a guardarlo con aria arcigna mentre Massimo rimuginava su quel bastardo. Era lo stesso che non gli voleva concedere quella scartoffia con la quale si sarebbe volentieri pulito il buco del culo, ma che gli serviva per tentare di sopravvivere a una vita intrappolata e monocorde!

    Nonostante gli stesse altamente sulle palle, provava comunque un profondo rispetto per quell’uomo, l’unico, a parte suo nipote, che non lo trattava con condiscendenza. Anche se pensava che il dottor Belfiore avesse le palle cubiche e fosse uno psicoterapeuta sia di nome, sia di fatto, era convinto che fosse oltremodo un povero illuso convinto di poter aggiustare la frattura insanabile che lo aveva rotto in mille pezzi. Ovviamente non si stava riferendo alla lesione alla spina dorsale.

    «Prego, si accomodi», lo accolse con il solito sorriso sardonico, imperante sul viso rugoso. Se si fosse avvicinato quasi fin sotto la faccia, probabilmente avrebbe letto il nome di ogni paziente su ognuno di quei solchi. Forse erano una sorta di tacca per ogni problema che aveva risolto al prossimo.

    Dall’altra parte della scrivania, il placido uomo ripensò alla prima volta che aveva visto quel fascio di muscoli ripiegati su una sedia a rotelle, che gli era sembrata tanto piccola a confronto. Non appena aveva varcato la soglia, gli aveva fatto la domanda di rito a bruciapelo: «Cosa la porta qui?», (nonostante conoscesse bene la sua cartella clinica, dov’era scritto anche lo storico del Capitano).

    Sul momento si era guadagnato uno sguardo spiazzante insieme a un: «Fanculo! Mi dia quel merdoso certificato e non ne parliamo più!» e, anche se non aveva voluto cedere, mantenendo un atteggiamento imbonitore atto a farlo collaborare, aveva capito che quel ragazzone caparbio e insolente sarebbe stato una grossa gatta da pelare. La sua etica professionale però, gli aveva impedito di accondiscendere alla richiesta dell’uomo e se ci si aggiungeva che era famoso per raccogliere sfide impossibili, ecco che se lo ritrovava nuovamente di fronte, dopo averlo fatto presenziare per altre due settimane, anche se tutte le volte con lo stesso risultato: l’ennesima scena muta.

    Era stato molto più semplice assistere a mille discorsi psicotropi di altri pazienti piuttosto che avere a che fare con quel personaggio completamente chiuso in se stesso, non collaborativo in nessun modo. Finora non c’era stata occasione alcuna per crepare quella corazza emotiva. Doveva trovare il tallone d’Achille che lo avrebbe spinto ad aprirsi, a parlare di sé.

    «Come si sente oggi?», chiese implacabile il dottore di nuovo quella mattina, anche se non aveva ricevuto risposta neanche per il Buongiorno.

    Gli occhi nerissimi e glaciali di D’Ambrogi parlarono per lui.

    «Dovrebbe dirmi lei come mi sento! È lei che dovrebbe darmi delle risposte…»

    «… Invece dovresti guardare dentro te stesso e darmele tu. Io non sono qui per darti verità non tue…»

    «E io non sono qui per farmi fottere il cervello! Smetta di rompere le palle e mi dia quel cazzo di certificato di sanità mentale, dottore!», tuonò Massimo.

    «Mi dispiace. Non è così che funziona, non posso certificare una cosa che non penso…»

    «Me ne fotto di quello che pensa! Io non sono pazzo! Sono solo incazzato nero! Incazzato col mondo intero! E anche se mi si fosse spostata qualche rotella, non sono affari che la riguardano!»

    «E invece sì, se devo avere la responsabilità di rimetterti al servizio dal paese!», disse il dottore, serafico. In anni di studi e lavoro aveva imparato a mantenere la calma persino con il paziente più folle, ma anche se non lo diede a vedere, quell’uomo lo inquietava, aveva una forza d’animo che riusciva a piegare il volere altrui usando anche solo uno sguardo assassino. Il ragazzo aveva perso l’uso delle gambe ma non il fuoco che aveva dentro.

    «Oh, andiamo! Pensa che se avessi voluto, non mi sarei già fatto esplodere il cervello? Crede che non abbia mai pensato di infilarmi la canna in bocca e farla finita? Ma non posso, dottore, per cui, ALMENO LEI, mi lasci vivere!»

    Belfiore non mise in dubbio le parole D’Ambrogi, sapeva che il giovane avrebbe premuto il grilletto con la stessa calma misurata con cui avrebbe bevuto un bicchier d’acqua e non fu la frase in sé che lo stupì, quanto l’impeto con cui l’esternò. Finalmente una reazione. Finalmente un moto di rabbia!

    «E dimmi, D’Ambrogi, cosa t’impedisce di farla finita? Cosa ti spinge ad andare avanti?»

    «Non le dirò cosa mi spinge ad andare avanti, però le farò presente tutte le rotture di coglioni in cui m’imbatto ogni giorno. Incontro, quando mi sposto con la mia auto, limitazioni fatte di barriere architettoniche, di ruote che non passano, di gambe che non sorreggono. Per questo sono incazzato! Le basta?»

    Capiva la sofferenza del Capitano. Anche se non avrebbe dovuto, sentiva una solida empatia con quella figura disumanizzata che stava tentando di accettare una situazione che il suo corpo rigettava e percepiva come inconcepibile. Non sarebbe più riuscito a sorreggersi su quegli arti inutili e quella condizione gli aveva strappato la dignità. In quale camera dell'anima alberga il dolore e la vergogna per essere un mezzo uomo?

    Sapeva che oggi il ragazzo era emotivamente esposto più di altri giorni: si era segnato sul pc la ricorrenza, perché quando si fa un lavoro del genere è di vitale importanza non tralasciare alcun dettaglio. Una virgoletta caporale, non c’era bisogno di aggiungere altro nelle note del giorno per ricordargli che oggi il suo paziente avrebbe avuto una data importante con cui fare i conti. Così il dottore decise di spingerlo al limite per tentare di fargli raccontare quel fatidico e grottesco incontro col destino.

    Virò con una domanda secca e precisa: «Che cosa provi quando guardi le tue cicatrici?»

    Massimo, a quelle parole, trattenne un conato. Solo il colore delle iridi, che per quanto fossero nere già in partenza ora erano diventate scure nella stessa misura in cui la notte è buia senza luna, tradì il suo sgomento. A ogni cicatrice, lui lo sapeva bene, coincideva un dolore sopito, un amico dilaniato, una persona uccisa. Ogni segno sulla pelle corrispondeva a ogni singolo ricordo. E lui non voleva ricordare.

    Mantenne la calma in maniera magistrale quando rispose piatto: «Dottore, questo è un colpo basso anche per lei! Lo sa benissimo cosa c’è sotto queste cicatrici, non glielo devo dire di certo io! Dopo questa sparata, me ne vado! Arrivederci!»

    Mentre girava la sedia a rotelle per avviarsi all’uscita, il dottore incalzò: «D’Ambrogi, vorrei che i nostri appuntamenti diventassero più cadenzati. Che ne dici di due volte a settimana?»

    Lo sguardo truculento che gli lanciò, fu foriero di ulteriore tempesta: «Lei si chiamerà anche Belfiore ma è fastidioso come un cactus nelle mutande! Non riesco a sopportarla un’ora a settimana, figuriamoci se giochiamo al raddoppio.»

    «Ma io potrei davvero aiutarti, se solo tu lo volessi!»

    «È ancora così ingenuo da credere che voglia essere aiutato?», sibilò scuotendo la testa.

    Con un ghigno sardonico sul volto ormai ottenebrato dalla perenne delusione, concluse: «Lei crede di sapere tutto, invece non sa proprio un cazzo!»

    «Ci vediamo martedì alla stessa ora...», insistette lo psicologo mentre ormai Massimo gli dava le spalle e si accingeva a uscire, «se non prendi le terapie sul serio, non ti rilascio il certificato. Devo vedere almeno un briciolo d’impegno, per accontentarti!»

    Più Massimo si allontanava verso l’uscita mostrandogli un teatrale dito medio, più lo psicologo acuì la voce, sperando che ascoltasse le sue parole, che queste si imprimessero nella testa di quel ragazzone a cui un giorno la geometria della vita aveva preso curve inaspettatamente tragiche e che, per quanto volesse mostrare un rapporto conflittuale con tutti, la partita più dura la stava giocando contro se stesso.

    La nausea persistente non abbandonò Massimo mentre uscì frettolosamente dallo studio medico, con una foga tale quasi da non accorgersi della signorina che gli aprì premurosamente il portone. Con l’umore del colore dell’asfalto, grigio come i ricordi che desiderava dimenticare con tutto se stesso, girò per le vie di Milano schivando gli occhi compassionevoli dei passanti, ben allineati alla società, al loro status di normalità. Ma cosa ne sapeva la gente della sua storia, di cosa era stato prima di diventare un uomo a metà? Evitò quegli sguardi giudicanti a prescindere, anche se avrebbe voluto urlare a ognuno di loro che anch’essi non capivano un cazzo, come Belfiore. Talmente era furioso che non sentì le ruote incagliarsi sotto il pavé e non si accorse neppure del solito automobilista che aveva parcheggiato la macchina davanti a un saliscendi, ostruendogli il passaggio. Solitamente gli avrebbe inveito contro, ma oggi no, oggi qualcuno gli aveva sbattuto in faccia la realtà con una tale forza da oscurargli del tutto la via per affrontare il presente: il Capitano Massimo D’Ambrogi ora più che mai era imprigionato dal suo stesso dolore, dai suoi stessi ricordi, dalla sua stessa esistenza.

    La realtà era che a lui, una delle aste invisibili che aveva sorretto per anni la bandiera italiana, era stato amputato il futuro stesso. Frugò tra la reminiscenza della sua vita militare e vi trovò un uomo ligio al lavoro, patriottico fino quasi allo stremo.

    Nella sua carriera, non era mai stato amante dei superlativi: Bravissimo, preziosissimo… ogni volta che aveva ricevuto un elogio con questi aggettivi, lo aveva riposto nel cassetto con estrema umiltà, con la convinzione di essere semplicemente un uomo mediocre che aveva fatto il proprio lavoro. Tutte le medaglie che aveva ricevuto erano per lui semplicemente pezzi di ferro, ad attestare dei modelli consolidati di cui lui faceva parte, uno stereotipo di milizia che lui voleva fortemente essere.

    Per non parlare del suo desiderio di volare! Quando aveva affrontato il concorso per l’accesso all’accademia, non vi era stato alcun timore, poiché studiando giorno e notte sapeva quasi tutto a menadito, ma ancor oggi ricordava con angoscia come fosse stato preoccupato per la sua stazza: aveva odiato con tutto se stesso l’opulenza del proprio corpo e aveva pregato con tutte le forze di riuscire a entrare nei canoni prestabiliti per i requisiti di accesso. Quando aveva saputo che era al limite delle misure, e che vi era rientrato per un pelo, aveva gioito per settimane e dopo anni di faticoso indottrinamento militare (e una tempra diversa rispetto a quando era entrato nel corso Vulcano 4), si era guadagnato meritatamente una vita in aeronautica degna di essere vissuta fino all’ultimo respiro. Non aveva mai fatto uso di spintarelle e non aveva mai beneficiato di alcun nepotismo all’italiana, e ogni suo fregio se l’era sudato lavorando duramente. Era stato un soldato integerrimo fin quando la felicità non era stata sconfitta grazie al fato che gli aveva porto un regalo di merda, per giunta impacchettato con la carta igienica.

    Ora, la sua, era diventata la decalcomania di un'esistenza, una copia perfetta che se non si fa attenzione sparisce nel niente. C’erano giorni in cui per lui vivere o morire non faceva alcuna differenza. Spero che il dolore sopraggiunga presto, perché l'apatia per me non sta funzionando, si augurò allo stremo delle forze, mentre si guardava intorno per capire dove fosse finito. Gli dolevano i muscoli per quanto aveva spinto, per la forza che aveva messo negli unici arti ormai rimasti utili, trattati come un urlo silenzioso contro un maleficio che non aveva antidoto.

    Si guardò intorno: le viuzze di Milano, tutte uguali e

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