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La ragazza del rifugio: II edizione
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La ragazza del rifugio: II edizione

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La ragazza del Rifugio è il racconto di una donna che ha saputo riscattarsi da una condizione di disagio grazie alla sua tenacia, alla sua determinazione e al suo grande cuore colmo d’amore per gli altri; una storia di incontri e ritrovamenti che si dipanano in una sorta di spirale dalla quale la protagonista rivive il suo passato da una prospettiva ogni volta più ampia. È la storia di una bambina costretta a crescere in fretta, di una ragazza ribelle, di una lavoratrice instancabile, di una madre disposta a sacrificarsi per il bene dei figli, di una donna libera e creativa capace di affrontare a muso duro e senza paura le ingiustizie e che si ingegna e canta per alleviare la sofferenza altrui. Una ragazza grata alla vita e della quale essere grati. 
LanguageItaliano
Release dateDec 31, 2022
ISBN9788893848312
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    La ragazza del rifugio - Nicoletta Maria Rita Sanna

    Nicoletta Maria Rita Sanna

    La ragazza

    del Rifugio

    © 2022 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 9791220128155

    II edizione agosto 2022

    Finito di stampare nel mese di agosto 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    1.

    Il Rifugio

    I ricordi più chiari della mia infanzia sono certamente legati al momento in cui mia madre, da poco vedova e in ristrettezze economiche, fu costretta a portarmi al Rifugio Gesù Bambino per le bambine abbandonate. Avevo poco più di tre anni e indossavo una piccola tonaca da suora, in devozione a Santa Rita poiché, dopo la morte prematura della sorellina che mi aveva preceduta, mia madre fece un voto alla Santa durante la gravidanza promettendo che se fossi nata sana, mi avrebbe chiamata Rita e che per un anno mi avrebbe fatto indossare l’abito del suo Ordine.

    Era fine settembre e quasi tutte le bambine e le suore dell’Istituto erano ancora al mare alle colonie estive e fui dunque accolta da due ragazze più grandi ospiti del rifugio: Giovanna e Margherita; entrambe si presero subito cura di me e nei giorni che precedettero il ritorno delle altre bambine, non mi lasciarono mai sola. Allora comprendevo tutto se mi parlavano in Italiano ma sapevo esprimermi solo nel dialetto del mio paese, ero (lo sono tuttora) una gran chiacchierona e quindi per loro ero motivo di spasso; mi rivedo ritta in piedi sopra un grosso gradone in pietra nell’ampio cortile mentre rispondevo prontamente a tutte le loro domande e mentre in dialetto dicevo loro che volevo bene a entrambe le mie nuove ziette e che non preferivo nessuna all’altra. Era vero: non capivo perché mi trovavo in quel posto e Giovanna e Margherita avevano davvero assunto per me il ruolo di zie.

    Mi sembrò fosse passata un’eternità quando, dopo poco più di una settimana, mia madre venne a trovarmi. Fui sollevata nel vederla arrivare e sebbene ancora arrabbiata con lei, ero felice di rivederla e le corsi incontro piangendo; lei si chinò e mi prese in braccio, pensai fosse venuta a prendermi per riportarmi a casa con lei e la pregai di non lasciarmi più da sola. Non ricordo cosa disse, forse le mancarono le parole per spiegarmi che doveva lasciarmi in istituto perché costretta a lavorare e ad accudire i figli di altre persone invece dei suoi e solo dopo anni compresi quale strazio stava vivendo, obbligata di fatto a lavorare tutto il giorno e a gestire l’unico pomeriggio libero della settimana dividendosi fra i quattro diversi collegi che ospitavano me e i miei fratelli Pasquale, Giovanni ed Elena.

    Quando in ottobre le altre bambine tornarono in istituto, fui assegnata alla sezione che comprendeva le mie coetanee e l’atmosfera in collegio si fece più grigia e severa giacché sembrava che le suore non provassero alcuna empatia verso le povere bimbe che garantivano di accudire e non mostravano verso di noi alcun affetto, anzi, al contrario, non lesinavano in punizioni corporali; non sapevano nulla di pedagogia e ancor meno di psicologia ed erano inadatte al ruolo che dovevano ricoprire.

    Dormivamo in grosse camerate senza riscaldamento che ospitavano venti letti e indossavamo abiti malconci. Sento ancora nelle ossa il freddo che patimmo e provo ancora rabbia a pensare che a casa avrei avuto un braciere davanti al quale scaldarmi.

    La giornata al Rifugio iniziava alle sei del mattino; ci alzavamo dal letto con gli occhi cisposi al punto che per aprirli dovevamo forzare le palpebre con le dita ed eravamo sempre raffreddate e malaticce; andavamo poi in bagno a turno per lavarci al meglio di come si poteva cercando inutilmente di non bagnare i vestiti perché i lavandini erano troppo alti e mal messi per noi bambine; poi, ancora a digiuno, ci dirigevamo tutte alla messa delle sei e mezza e solo dopo al refettorio per la colazione, per la quale mi mettevo in fila con in mano una scodella di alluminio contrassegnata con il numero 106, il numero con il quale furono marchiate le mie cose e tutta la mia biancheria.

    Il cibo era sempre cattivo e la colazione non era da meno: il caffellatte non aveva il sapore né del latte, che altro non era che latte in polvere diluito con acqua calda, né del caffè ma riusciva a essere estremamente sgradevole, ci inzuppavo i pezzi del panino duro che lo accompagnavano e lo mandavo giù solo perché lo stomaco urlava dalla fame; dopo la colazione si andava all’asilo o a scuola o in sartoria, secondo le età; le ragazze più grandi però avevano anche il compito di pulire e riordinare i dormitori e il refettorio prima di recarsi a lavorare in sartoria.

    Frequentai la scuola mal volentieri, non ero interessata a quel che mi volevano insegnare e pativo il confronto con le bambine che frequentavano la scuola con noi ma non erano ospiti del collegio: erano studiose, pulite, ben vestite e con i capelli sempre in ordine e le maestre non nascondevano il fatto di preferirle mentre si mostravano sempre più insofferenti verso noi collegiali. Invidiavo la loro biancheria e le sottovesti che sbucavano fuori dai vestiti mi sembravano di seta.

    Dovetti riempire quaderni di aste e altri segni prima di imparare a scrivere il mio nome e fui bocciata in seconda elementare perché all’inizio della primavera di quell’anno mi diagnosticarono quella che in quel tempo chiamavano itterizia e che altro non era che una forma di epatite.

    Era il minimo che mi potesse capitare visto che quando le suore ci portavano fuori, solitamente di domenica o per i funerali delle persone ricche e per le processioni, non alzavamo mai lo sguardo da terra e lungo la strada raccoglievamo tutto quello che si poteva recuperare, anche le gomme che gli altri avevano sputato via dopo averle masticate e ci passavamo l’un l’altra quella stessa gomma raccolta per terra, così che ogni compagna potesse provare l’emozione di fare i palloni con la bocca.

    Mi rimprovero di non aver capito allora l’importanza della scuola e dell’istruzione ma sentivo che, fino a quando la mia vita fosse stata compressa fra le mura di quell’istituto, il mio impegno maggiore doveva essere quello di sopravvivere a quelle privazioni e a quegli abusi.

    Dovevo difendermi dal freddo in inverno e dovevo difendermi sempre dalla fame, dalle ragazze più grandi che mi vessavano e dalle suore che mi picchiavano per un non nulla; Suor Giuseppina, per esempio, usava picchiarci con il cinturino di cuoio del portachiavi che reggeva l’effigie della Madonna senza che l’evidente paradosso di picchiare delle povere bambine indifese con l’immagine della Santa Vergine la toccasse minimamente.

    Non avevamo alcun punto di riferimento familiare ma avevamo tutte fame di cibo e di affetto. Mi imposero rigide regole di comportamento ma restavo tuttavia alla mercé di chiunque, suore e compagne. Ero un animaletto impaurito fra altri animaletti impauriti, in mezzo a una giungla in cui la più debole soccombeva per mano della più forte e allora, come le altre del resto, cercai di sopravvivere e anche io mi feci sempre più dura e apatica, come fossi d’un tratto diventata una donna anziana che non aveva più niente da perdere.

    Le punizioni corporali e le umiliazioni pubbliche, come quando costringevano chi aveva bagnato il letto a tenere sulla testa il lenzuolo sporco o ci obbligavano a stare per ore in piedi a braccia aperte nei corridoi, erano all’ordine del giorno.

    Per tanti anni in quel Rifugio le suore rifiutarono ogni tentativo di dialogo e risposero alle nostre intemperanze infantili solo con la violenza e la crudeltà. A causa dell’ignoranza delle educatrici non c’era alcuna giustizia e la distinzione fra bene e male spesso si fondava sull’idea di disciplina che avevano le suore.

    Quel che mi premeva di più era essere accettata dalle altre collegiali e di ricevere un po’ di affetto senza subire punizioni ingiuste, derisioni e prevaricazioni; non potrò mai dimenticare quando suor Marta mi attirò in cucina con la promessa delle due arance che teneva in mano: erano circa le tre del pomeriggio e una mia compagna e io ci stavamo divertendo col cigolio che provocavamo spingendo col sedere la pesante porta in ferro che serrava la cucina; suor Marta fu probabilmente svegliata dal rumore e uscì inferocita dalla sua cella. Fuggimmo via ma la suora entrò in cucina, prese due arance e ci invitò ad andare a prenderle; la mia compagna, più scaltra, se la filò ma io ero ancora piuttosto ingenua e mi avvicinai a suor Marta per prendere le arance; non appena fui in cucina mi afferrò e mi sculacciò con le sue mani enormi, colpendo così forte e così tante volte che pensai che non sarei mai più riuscita a sedermi per il dolore, il formicolio e il bruciore, mi mandò poi a sedere su di una bilancia messa in un angolo di fronte al cortile interno dove dovetti rimanere per tutta la sera.

    Piansi tutto il tempo senza riuscire a smettere di singhiozzare.

    Odiai quella suora e da quel giorno non permisi più a nessuno di mettermi le mani addosso: seduta sulla vecchia bilancia giurai che mi sarei fatta furba e così feci.

    Trascorrevo tutto il tempo libero che avevo a diposizione con le mie coetanee in ricreazione; ero una bambina allegra e solare nonostante tutto e le mie compagne cercavano sempre la mia compagnia, che fosse per giocare o per andare all’orto a rubare qualsiasi cosa fosse masticabile.

    Rubavamo i frutti dagli alberi ancor prima che fossero maturi e io approfittavo del fatto di essere piccolina per nascondermi nel campo di fave che erano più alte di me e ne riempivo il grembiule senza che Giuseppe l’ortolano potesse vedermi, poi con le gambe libere, correvo a perdifiato fino all’uscita del campo. Giuseppe era un disabile che si occupava dell’orto e di piccoli lavori di manutenzione per le suore e come loro credeva che l’unico mezzo per educarci fossero le botte, quindi non esitava a inseguirci brandendo la roncola o la zappa; quando Giuseppe si accorgeva dei miei furtarelli, però, era sempre troppo tardi e sebbene avesse provato tante volte a prendermi, non riuscì mai a raggiungermi.

    Una volta al sicuro mangiavo le fave insieme alle complici che avevano fatto da palo durante le incursioni nell’orto e ogni volta, la mattina seguente, mi svegliavo con il corpo ricoperto da una fastidiosissima orticaria che però nascondevo e che puntualmente ignoravo pur di mangiare uno dei mie cibi preferiti.

    Le ore di ricreazione dopo pranzo e dopo cena le passavamo giocando in vari modi, a volte a carte con le carte fatte da noi con i fogli di quaderno, altre ci sfidavamo a palla prigioniera oppure giocavamo con la corda e l’hula-hoop costruito con il fil di ferro dello stenditoio e capitava spesso che ci azzuffassimo per avere la precedenza sullo scivolo. All’inizio di ogni gioco a squadre si faceva la conta, il tocco lo chiamavamo, spesso utilizzando filastrocche irripetibili, le caposquadra cominciavano e via via si formavano le

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