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Una strana famiglia perfetta
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Una strana famiglia perfetta

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About this ebook

Dopo vent'anni da un omicidio si può pensare di averla fatta franca, ma cosa succederebbe se l'omicida fosse costretto a tornare sul luogo del delitto?

Magdalina è una badante fuggita in Italia dalla Siberia dopo aver ucciso Feofan, il marito violento. Sono passati vent'anni e pensa di averla scampata, ma nel suo paese natale viene ritrovato un cadavere. Nessuno sa chi sia, solo la madre di Feofan è sicura si tratti di suo figlio e pretende di fare l'esame del DNA.

Magdalina si trova di fronte a un bivio: nascondersi ancora o andare in Siberia a vedere per l'ultima volta la madre che proprio in quei giorni è stata colpita da un ictus?

Ludo è un rampollo alcolizzato, incapace di vivere la sua vita a causa di una sensazione che lo turba da sempre: sentirsi estraneo nella propria famiglia. Un giorno trova alcuni documenti scritti in russo, con una sua foto da bambino e un indirizzo di Tobolsk, in Siberia. Scopre così che le persone che aveva pensato fossero i suoi genitori, in realtà non lo erano.

Ludo e Magdalina decidono di partire insieme per la Siberia. Lei per vedere la madre morente, lui per ritrovare i pezzi del suo passato. La posta in gioco è la loro stessa sopravvivenza.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateNov 14, 2018
ISBN9788827857052
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    Una strana famiglia perfetta - Erica Stori Mezzacqui

    ATTO I

    Capitolo I

    Notti agitate in una città tranquilla

    «Magdalina! Manda via quello stupido gatto e vieni in casa!» gridò il signor Canfora.

    La badante aggrottò le sopracciglia nel sentire la voce arrugginita del vecchio, guardava il pelo lucido dell’animale e ne immaginava la morbidezza, ammirava le sue zampe bianche che si muovevano a tratti leggeri ma stanchi. S’impietosì nel vedere una macchia di sangue all’altezza del collo, proprio sopra il collare di cuoio.

    Abbassò lentamente la mano, con la coda dell’occhio vide nella cucina il signor Canfora con le dita strette intorno a un bicchiere premuto contro lo stomaco. La fissava. A un tratto desiderò infuriarsi con quel vecchio sfacciatamente maleducato, non tanto per quello che aveva appena gridato, ma per il modo in cui le si rivolgeva. Più di una volta aveva riflettuto che fosse ora di andarsene, ma pensava di non voler sfidare troppo la vita.

    (Il destino è a misericordioso con gli sciocchi e con gli ubriaconi.)

    Aveva avuto modo di impararlo nei suoi lunghi anni passati in fuga.

    Le piante e i mobili del terrazzo sembrava fossero ancora sani, alla faccia delle sue abitudini di gettare dei mozziconi accesi da tutte le parti, quando era in preda ai fumi dell’alcol. Fissò uno sguardo sofferente negli occhi del gatto, i due si contemplavano come parenti ritrovatisi per caso. Ora c’erano una mezza dozzina di passerotti sulla ringhiera che si sparpagliarono quando Magdalina tentò di avvicinarsi al gatto. La collera che poco prima le stava scoppiando nello stomaco, si stava trasformando in fascino e curiosità. Non credeva di avere mai visto un gatto così bello, né di aver mai sentito una lotta alla pari dentro se stessa: un combattimento tra la volontà di toccarlo e la paura di farlo fuggire. Il fatto era che doveva saperne di più, scoprire se sulla medaglietta che vedeva pendere dal collare, vi fosse il numero del proprietario; voleva avvertirlo dello stato di salute dell’animale. Il gatto la guardò fissa e in quel momento la donna si sentì come una lastra a raggi x posta sul vetro illuminato di uno studio medico. Fu stordita da questa gelida sensazione e bloccata per un attimo.

    «Magdalina!» gridò più forte Canfora, toccandosi nervosamente la pelata. «Voglio le mie mele cotte!»

    Fu buttata nella realtà da quel verso scomposto e andò goffamente verso il gatto in un disperato tentativo di acciuffarlo. Sentì l’intenso odore di curry e cipolla provenire dalla finestra dei Raji e ne fu disgustata; quello che voleva evitare accadde: non riuscì a trattenere l’animale; l’aveva afferrato per un attimo, ma si era subito gettato nel balcone del vicino. Prima di sparire, l’aveva guardata in quel suo modo spaventoso e inquisitorio; per divincolarsi dalla sua presa l’aveva graffiata, facendole saltare il cerotto che copriva un’unghia mangiata troppo.

    «Ahi… Blya!» esclamò per il dolore.

    La medaglietta le era rimasta in mano, da una parte vi era scritto Alf e dall’altra un numero di telefono.

    «Magdalina?»

    «Sì, sì, sto arrivando! Fai il bravo se no ti butto nel bidone di spazzatura!»

    «Qui a Mantova non si butta nessuno nel bidone della spazzatura! Maledetta russa!»

    Si pulì le mani nel grembiule a piccole righe rosa che indossava e infilò il ciondolo in tasca, mentre le prime gocce di un temporale estivo bagnavano il pavimento del balcone.

    Dall’altra parte della città, a Palazzo De Biasi, era in corso una delle solite liti.

    «No! No! Ludovico, le tue abilità sono inutili!»

    «Papà, ma come sareb…»

    «Non producono reddito: inattive, morte. Mi sono spiegato?» disse Giovanni, versandosi del Bandol del 2005.

    Dalla cucina arrivava un tintinnio di stoviglie, segno che Nora stava per portare in tavola un’altra pietanza.

    «Ludo, non è un segreto il fatto che io sia estremamente deluso dal tuo atteggiamento e dai risultati che hai portato fino a ora. Non ci sono parole adatte per descrivere la mia delusione» disse Giovanni grattandosi la barba grigiastra, «sei solo un bambino non cresciuto che vuole continuare a giocare senza prendersi responsabilità. Anzi, esiste una parola adatta a descriverti: ingrato. Non rispetti il tempo, i soldi e i mezzi che ho messo a tua disposizione per cercare di farti fare qualcosa della tua vita. Non pretendo che diventi astronauta o cavaliere del lavoro, mi basta che tu faccia qualcosa di produttivo nella tua vita, ma vedo che a te non interessa proprio nulla.»

    Ludo, fissava annoiato la couperose sul naso del padre. Era molto più interessato al rumore della pioggia che scorreva sui vetri delle finestre. Del resto quel discorso l’aveva sentito migliaia di volte. Sperava che arrivasse velocemente il secondo piatto, almeno suo padre avrebbe mangiato e sarebbe rimasto zitto.

    «Tutto quello che fai è inutile.»

    «Papà, per favore.»

    «Non produce reddito, non porta nulla, è solo una perdita di tempo e di denaro. Hai capito il concetto?»

    «Tutte le cose più belle che ho fatto erano gratis» rispose Ludo.

    Sentiva di non poter più sopportare il suono della voce del padre.

    «Sei uno sprovveduto, un bambino, ingenuo, idiota. Vivi nel mondo delle favole e non riesco a insegnarti a stare al mondo. Non è possibile, è una causa persa. Mi domando cosa farai quando morirò.»

    «La conversazione ormai è diventata ingestibile, non voglio farmi insultare anche stasera» disse Ludo.

    «Perché la tua sensibilità artistica potrebbe essere ferita? Ma sentitelo, povero idiota, ha paura che il mondo gli faccia male. Del resto è cresciuto nella bambagia fino a ora. Tutto gli era dovuto, ogni capriccio, ogni iniziativa folle. In cambio doveva solo dimostrare di valere qualcosa, di saper fare qualcosa, impegno, una motivazione, qualsiasi cosa, ma nulla.»

    «Papà, basta, hai sempre voglia di litigare?»

    Giovanni si versò dell’altro vino nel bicchiere, nell’aggiustarsi la cravatta disse: – «Questa mattina mi ha chiamato Maggioni. Dovrebbe essere un nome familiare per te.»

    «Il magnifico rettore che chiama il banchiere, un perfetto luogo comune. E cosa voleva da te il tuo amico del cuore Maggioni?»

    «Dovresti saperlo benissimo. Mi ha detto che ormai non ricorda nemmeno quando è stata l’ultima volta che ti sei presentato all’università. Nemmeno alle lezioni, ma proprio nei paraggi dell’università. Voleva sapere se avevi dei problemi di salute o se fosse successo qualcosa. Non sapevo cosa rispondere e ho capito che tutto quello che dici sono soltanto bugie. Come posso fidarmi ancora di te?»

    «Papà, non puoi capire.»

    «Sì, hai ragione, non riesco a capire. Hai avuto tutto dalla vita, ti rendi conto? Tutto! La migliore istruzione possibile, aiuto, supporto, denaro, le migliori opportunità, le migliori occasioni. Ho assecondato tutti i tuoi capricci in tutto e tu non mi hai mai ripagato in nessun modo. Volevo mandarti a Milano o a Londra, ma non volevi muoverti da qui. Eri troppo impegnato a perdere tempo con qualcosa, con l’ennesimo nuovo giocattolino. E poi devo sempre vederti ubriaco! Ma ti rendi conto di quanto sei patetico?»

    Ludo guardava le ombre che i rivoli di pioggia proiettavano sulla faccia del padre.

    «Ehi, sto parlando con te! Che credi di dimostrare non andando a lezione?»

    «Voglio solo salvarmi da questo tran-tran, dalla monotonia, dall’ipocrisia. Non riesco a gestire questo modo di vivere.»

    «Queste cose devono finire immediatamente. Sono stato chiaro?»

    «Agli ordini.»

    «Ti sembra uno scherzo? Devi crescere e iniziare a fare qualcosa di produttivo per il tuo futuro! Basta con il corso di sub, con il brevetto da pilota, con il corso di poesie, con tutte le porcherie che bevi e che ti inietti. Ormai ti immagino sotto un ponte a chiedere l’elemosina.»

    «Tutto quello che facciamo è temporaneo, che male c’è a seguire le proprie passioni? Tutto quello che si fa non dura che un attimo.»

    «Io non sgancio più un soldo, voglio proprio vedere dopo con cosa ti paghi il loft e tutte le tue stupidaggini. Prova a fare l’alternativo e il finto intellettuale senza il papà che paga tutto. Vedrai che ti svegli tutto in una volta.»

    «Non credo che questo sia un modo salutare di pensare. Sei pieno di stress e di rabbia» rispose Ludo.

    «Finiscila immediatamente con queste provocazioni!» urlò Giovanni, sbattendo il calice sul tavolo.

    Ludo pensò che Nora avrebbe avuto qualcosa da ridire per quelle gocce di vino rosso che si stavano allargando sulla stoffa damascata. Quando la domestica entrò nella sala da pranzo con il vassoio per servire il secondo piatto, lanciò un’occhiata indignata alla tovaglia sporca, ma subito assunse un’aria serena facendo finta di non aver visto e sentito nulla.

    «Signore, stasera ho preparato scaloppine ai funghi porcini» disse rivolgendosi a Giovanni.

    «Lo so, me l’hai detto prima, pensi che sia stupido? Altrimenti come lo sceglievo il vino… servi e poi vai.» disse lui con un gesto della mano.

    La donna servì con grazia e poi si dileguò con la sua tozza figura.

    «Si scorda tutto quella, è diventata una vecchia bacucca.»

    I due uomini mangiavano in silenzio, la tensione nell’aria era fortissima.

    «Quella vecchia si scorda le cose, ma sa ancora fare il suo lavoro» disse Giovanni addentando un grosso fungo.

    «Papà, quello che faccio non sono stupidaggini, anche il brevetto di volo. Potrei diventare un pilota.»

    «Un pilota di aerei? Tu? Ma per favore, non farmi ridere. Ma ti senti quando parli? Lo sai che le compagnie aeree hanno una rigorosa politica contro alcol e droga per i loro piloti? Se diventi davvero un pilota non potrai più ubriacarti come fai adesso. Sei in grado di sopportare questo dolorosissimo trauma? Vuoi davvero fare il pilota? Bene, da domani andrai a ripulirti e mostrerai se questo è l’ennesimo capriccio o se per una volta nella vita sai portare a termine qualcosa. Anche se nella tua condizione immagino che abbandonerai tra una settimana.»

    Le parole Nella tua condizione riuscivano sempre a zittire Ludo, che terminò la cena senza dire più una parola.

    «Ludo, tutto quello che dico e che faccio è solo per il tuo bene. Insieme possiamo sconfiggere questo demone» disse Giovanni, che si era calmato, appoggiando il braccio sulla spalla del figlio.

    «Ormai è troppo tardi per fare qualsiasi cosa» rispose Ludo, togliendo il braccio di Giovanni dalla sua spalla e uscendo dalla sala da pranzo.

    *

    Gli tornò in mente il primo giorno che iniziò ad avere mal di testa. Era il 15 settembre 1999, quando cominciò la prima elementare. Sulle prime non sembrava niente di grave, ma il dolore che era rimasto per anni assopito alla base della nuca, esplose in una mostruosa crisi di sofferenza. Non fu un episodio isolato, anzi capitava sempre più spesso e soprattutto quando doveva affrontare un compito in classe, un’interrogazione, la conoscenza di nuove persone. Quello che desiderava in quei momenti era morire. L’inizio delle crisi di cefalea poteva avvenire in qualunque momento e modo. Nessun segnale gliele faceva presagire; quando arrivavano diventava confuso e sentiva voci e suoni come da dietro una vetrata spessa.

    (Non sopporto più questo dolore)

    La madre e la zia Milena lo portarono dal dottor Grasso.

    Il dottor Grasso gli batté con un freddo martellino sulle ginocchia e comparve una smorfia di insoddisfazione sul suo viso. Gli scrutò nel fondo degli occhi scuri e lo sottopose a una luce lampeggiante.

    «Senti vertigini, nausea, ti sembra di non sapere dove ti trovi?»

    Ludo scosse la testa.

    «Adesso no, ma quando mi viene il mal di testa allora sì, allora mi viene da vomitare.»

    «Potrebbe essere emicrania», disse il dottor Grasso. «Una volta avrei detto che era una cosa insolita per bambini così piccoli, ma adesso sempre più spesso ho dei casi di mal di testa che apparentemente non si sa da dove vengano e durano anche per giorni. Se vuole il mio parere, a questi bambini si chiede troppo oggigiorno, non hanno nemmeno più tempo per giocare. Però devo ammettere che casi così gravi e protratti nel tempo non me ne sono mai capitati. Avete casi di cefalea cronica in famiglia?»

    Ci fu un attimo di silenzio e di esitazione. Le due sorelle si guardarono in faccia e poi all’unisono dissero: «No!».

    «Potrebbe essere anche una questione psicologica, lo vedo molto introverso…»

    «Sì, lo è» disse la madre.

    «Dovremmo indagare un po’ per escludere un tumore al cervello.»

    «Oh, mio Dio! Non davanti al bambino» disse la madre tappandogli le orecchie. «Non davanti al bambino!»

    «Mamma, sono grande, posso sentire queste cose» disse liberandosi dolcemente.

    La settimana successiva fu sottoposto a un elettroencefalogramma.

    (Maledetti bigodini, maledetti fili, maledetto dottore.)

    Non ci fu una diagnosi chiara, ma le sue condizioni peggioravano di mese in mese e raggiunsero l’apice l’anno in cui la madre morì improvvisamente per un cancro al pancreas. I medici le diedero sei mesi di vita, non sbagliarono. Ludo era così stordito dalla cefalea che non riusciva quasi a muoversi, a parlare, a deglutire. Il dolore gli era entrato negli occhi facendogli apparire tutto buio e pauroso. Suo padre disse che era solo una questione emotiva e da allora si mise in testa di rafforzargli il carattere.

    «Spara a quella lepre, ragazzo! Dai! Dai!»

    Ludo si sentì tanto spinto dalla volontà del padre che premette il grilletto. Quando vide la lepre morta si sentì trapassare come da un lanciafiamme, era come se bruciasse con la vita e i sogni del piccolo animale.

    (Non dimenticherò mai questa immagine.)

    Poi c’erano gli incontri con il dottor Grasso che di anno in anno gli prescriveva nuove analisi e medicinali inefficaci. Anche zia Milena si dava da fare, aveva promesso alla sorella in punto di morte che si sarebbe presa cura di Ludo come fosse stato suo figlio.

    Gli apparve nella mente la mattina del suo settimo compleanno. Quando scese per la colazione, trovò la zia già seduta al tavolo della cucina insieme a Nora: gli sembrò che le stesse dando delle istruzioni.

    «Queste mandorle le devi mettere dappertutto, nell’insalata, nei cereali alla mattina, e l’anguria. Con questa, se non la vuole mangiare al naturale, dovrai fargli dei frullati, e i semi di sesamo… ma eccolo qui il nostro ometto!» disse Milena aprendo le braccia per accoglierlo. «Vedi cosa ti ha portato la zia, tutte queste buone cose ti aiuteranno a far passare il tuo mal di testa.»

    Il tavolo era pieno di patate, banane, spinaci, semi di vario tipo, zenzero, peperoncini, mais, frutta e verdura in quantità.

    «Ma naturalmente c’è anche un regalo per il tuo compleanno! Lo apriremo oggi pomeriggio alla festa che ti ho preparato da me, ci saranno i tuoi cugini e i tuoi compagni di scuola.»

    S’interruppe quando sentì l’inconfondibile passo

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