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Porto il conto dei miei passi
Porto il conto dei miei passi
Porto il conto dei miei passi
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Porto il conto dei miei passi

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About this ebook

Dalla sua bocca non escono più parole, nella sua testa sono rimasti solo numeri. Da quando è stata vittima di bullismo, la vita di Beatrice a quattordici anni è solo un arido susseguirsi di cifre, ripetute di continuo nella sua mente, nel tentativo di sfuggire a una realtà che, da qualunque punto l'affronti, le appare ostile.
Per proteggerla dal mondo che la circonda, ma soprattutto da se stessa, i genitori decidono di trasferire la famiglia da Genova a un piccolo centro del sud, nella speranza che questo cambio radicale di abitudini, possa in qualche modo aiutarla a uscire dal suo mutismo.
Qui la ragazzina incontra una simpatica ed esuberante coetanea, Sophie, e un ragazzo un po' più grande di lei, Mirko, che a poco a poco cominciano a ridare colore alle sue grigie giornate. Basteranno la loro compagnia e il loro affetto a sconfiggere per sempre le sue paure e a far sparire i fantasmi di un passato sempre pronto a riemergere?

Maggiori informazioni https://aporema-edizioni.webnode.it/products/porto-il-conto-dei-miei-passi-di-anna-miceli/
LanguageItaliano
Release dateNov 20, 2018
ISBN9788832144079
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    Porto il conto dei miei passi - Anna Miceli

    arrivare.

    1

    Uno. Due. Tre. Quattro.

    Il numero delle volte in cui la sveglia ha suonato stamattina.

    Cinque.

    I minuti che ho impiegato per alzarmi dal letto.

    Zero.

    La voglia che ho di iniziare il liceo.

    Mamma continua a chiamarmi da giù e io, come al solito, non rispondo. Non che non mi piaccia parlare, al contrario: un tempo ero piuttosto logorroica. Ma la vita ti cambia. Quattordici anni e già parlo, anzi penso come una ultra quarantenne.

    Mamma mi chiama ancora.

    Ci prova sempre, da ormai due anni. Spera in un mio cenno, in una mia risposta; ma io come al solito scendo in cucina, mi siedo al tavolo, le mostro che sono sveglia e aspetto che mi versi il latte caldo.

    Il profumo di biscotti all’arancia appena sfornati pervade la stanza.

    Fino a un paio di anni fa, il primo giorno di scuola ero solita svegliarmi un’ora in anticipo per prepararli con lei. Era il nostro modo di inaugurare l’anno scolastico, un piccolo portafortuna per affrontare la giornata col sorriso.

    Ne prendo uno dal vassoio, per farmi perdonare quello che, lo scorso anno, ho scaraventato contro il muro arrabbiata.

    Ricordo che mamma era scappata dalla cucina con le presine calde ancora in mano ed era corsa in camera.

    Lei cercava di capirmi, ma non si rendeva conto che ero io a non voler essere capita.

    La guardo e vedo sul suo volto i segni della sofferenza.

    I suoi occhi verdi, che sia io sia mio fratello abbiamo ereditato, sono adesso spenti e cupi.

    Una ruga le è da poco spuntata sulla fronte: segno non dell’avanzare degli anni, ma del dolore che le ho dato e continuo a darle col mio silenzio.

    Sono sere che la sento litigare con papà: per la precisione, litigano circa dieci volte al mese.

    Tutto questo da due anni.

    Litigano per me.

    Si chiedono perché io non riesca più a parlare.

    Vorrei aiutarli e poter raccontare loro ogni cosa. Vorrei riuscire a dirgli che non lo faccio per dispetto e che, anzi, sono grata per tutto quello che fanno per me.

    Ma le parole mi si bloccano in gola.

    Le parole... un tempo mi piaceva giocarci e mi divertivo con rime, metafore, e quant’altro.

    Poi ho smesso.

    Mi son rimasti solo i numeri... numeri dentro la testa, che non mi lasciano, che non mi danno tregua.

    Venti.

    I minuti che mi rimangono per prepararmi, prima di iniziare questo nuovo percorso, questa nuova vita.

    Io ci credo poco ai nuovi inizi. Ci credo poco alle speranze, ai sogni, ai progetti: trascorro giorni interi cercando di capire quale senso abbiano.

    La nonna diceva sempre che certe cose un senso non ce l’hanno mica. E sono convinta anch’io, di questo. La mia vita, ad esempio: la mia vita non ha un senso, non ha direzioni, non ha una meta.

    Dieci.

    I minuti che passo nel bagno per lavarmi, cercando di strofinar via tutte le mie insicurezze.

    Cinque.

    I minuti per vestirmi.

    Due.

    I minuti per preparare lo zaino.

    Venti.

    I secondi per pettinare i capelli.

    Quaranta.

    Quelli impiegati per rimboccare le coperte e lasciare un bacio a mio fratello Gab, che dorme beato.

    Altri due minuti per scendere, salire in auto e fare cenno alla mamma di partire.

    Ci impieghiamo venti minuti per raggiungere la scuola.

    Mia mamma tenta di farmi qualche domanda, ma alla fine ci rinuncia. Sta un po' meglio, ultimamente.

    Le cose sono migliorate da quando ci siamo trasferiti qui a Gilea, un piccolo paese del sud. Credo che il punto di svolta per lei sia stato quando le ho concesso un abbraccio, due settimane fa: le basterà per un po'.

    Vorrei chiederle scusa per il mio comportamento, per essermi chiusa nel silenzio e averla esclusa dalle mie giornate e dai miei pensieri senza darle spiegazioni. Ci ho provato tante volte. Vorrei che sapesse quello che mi è successo.

    La verità è che dalla mia vita ho escluso anche me stessa, ma ancor di più dalla mia vita ho escluso anche la vita .

    L'è preso un colpo quando, nella nuova casa, entrata nella mia camera, si è accorta che l’avevo dipinta di nero.

    Lei crede che io sia depressa, ma non lo sono. È solo che il nero, la sera, mi lascia ampio spazio per immaginare. Ho paura di vedere le cose come stanno, ho paura di vedere le cose come sono, toccarle, viverle così, come mi sono state imposte.

    Il nero è lì a dirmi: crea tu i tuoi colori.

    E io ci sto provando.

    Non credo che questo lei lo capisca, ma come non giustificarla? Dovrei essere io a spiegarglielo, ma ancora una volta, non ne sono capace.

    Dal finestrino vedo gli alberi allontanarsi alle nostre spalle. È la prima volta che esco di casa da quando ci siamo trasferiti. La vista degli edifici colorati che ci scorrono accanto è piacevole. Rosso, arancione e giallo: chi ha scelto le tinte doveva vivere un periodo felice della sua vita.

    Mi rendo conto che sto iniziando a dimenticare come dovrebbe essere sentirsi felici.

    Arriviamo a scuola: da fuori è grigia, un po' vecchia e piccolina. Non mi aspettavo niente di più, in realtà. In ogni caso non avrei avuto altra scelta: è l’unica scuola superiore presente in questo paesino. E se ci troviamo qui, come al solito è per colpa mia.

    Osservo l’insegna arrugginita posta in alto: IISS L. Einaudi. Sotto, più piccolo: Liceo Scientifico, Liceo Linguistico, Liceo Classico. Tre indirizzi, un solo istituto.

    Mi fa quasi strano leggerlo: a Genova, dove abitavamo prima, c'erano addirittura più istituti per ogni tipo di liceo.

    Sorrido alla mamma, prima di scendere dall’auto. Spero lei abbia colto il segnale. Spero abbia capito che era il mio modo per dirle che le voglio bene.

    Cinquantatré.

    I passi per entrare nella scuola.

    Centodieci, quelli per raggiungere la mia classe, nell’ala riservata all’indirizzo scientifico.

    Mi è sempre piaciuta la matematica. I miei lo sapevano e credo sia stato per questo che, quando i numeri erano diventati la mia ossessione e io avevo deciso di iscrivermi al Classico, avevano strappato il modulo per richiederne uno nuovo e ricompilarlo loro stessi.

    Quaranta.

    I minuti che passarono prima di riuscire a smettere di piangere, terrorizzata da quello che sarebbe potuto succedere.

    I ricordi mi abbandonano per un po', il professore della prima ora non è ancora arrivato.

    In aula con me, al momento, ci sono solo altri tre studenti. Due di loro parlano dell’estate appena trascorsa. Il più alto racconta all’altro del suo viaggio a Londra, soffermandosi sull’emozione di aver preso per la prima volta l’aereo ed essere uscito dall’Italia. Il terzo studente è una ragazza che rimane in disparte, al primo banco, guardando davanti a sé.

    Prendo posto all'ultima fila, lì dove passerò inosservata, lì dove nessuno potrà vedermi, o almeno spero.

    La campanella suona tre volte.

    È il momento. È l’inizio.

    Il professore entra con cinque minuti e trentasei secondi di ritardo, ma ci tiene subito a spiegare che sarà la norma: la puntualità non fa per lui, parole sue.

    «Allora... Buongiorno ragazzi!»

    E che buongiorno sia .

    La classe si è riempita al suono della campanella, adesso dovremmo esserci tutti. Mi guardo intorno: venti testoline, compresa la mia. Undici giovani uomini. Nove piccole donne. O almeno è questo che stiamo per diventare.

    «Mi presento. Io sono Stefano Malta, insegnante di educazione fisica.»

    Parte un’ ola generale, tutti felici di iniziare con il meno peggio: le uniche due ore di svago in una settimana da incubo.

    Il professore gira attorno alla cattedra e senza sedersi poggia le mani sul bordo, alla base del registro. Ostenta una sicurezza che mi è difficile non invidiargli. È giovane, o così sembra nonostante qualche capello brizzolato che gli cade sulla fronte. Contrae la mandibola e si lascia andare a una breve e leggera risata.

    «Sì, insomma, vi piacerebbe... No, mi dispiace ragazzi, vi prendevo un po' in giro: insegno matematica. Voi ci sapete fare con i numeri?»

    L’entusiasmo generale si spegne in un attimo. Io sprofondo un po' nella sedia. Non che non sia brava in matematica, ma ormai i numeri sono diventati la mia droga; i numeri sono diventati gli oggetti della mia distruzione.

    Vorrei sparire.

    «Per oggi cercherò d’esser buono. Che ne dite di fare tutti una breve presentazione in modo tale da poterci conoscere?»

    Preferivo la matematica.

    Io non posso farlo, non sono ancora pronta ad affrontare questa cosa. I primi mesi dovrebbero essere quelli in cui parlano loro, no? Dovrebbero passare le giornate a spiegare, e noi dovremmo seguire in silenzio. È così che si fa.

    La prego, non mi faccia parlare .

    «Sarò io a iniziare, in modo da rompere il ghiaccio», aggiunge poi.

    Gira di nuovo attorno alla cattedra e ci si siede sopra. Un attimo dopo lo vedo giocare con una penna presa dalla tasca della giacca.

    Quando comincia a raccontare il suo percorso scolastico, ho l'impressione che siano in pochi a seguirlo.

    Da quel che dice, quando scelse la sua scuola superiore, un istituto tecnico, non aveva ancora alcuna idea di ciò che avrebbe fatto in futuro. Era svogliato, con nessuna intenzione di studiare, né tanto meno di frequentare l’università. Soltanto all’ultimo anno era avvenuto il cambiamento che lo aveva spinto a prendere una decisione, grazie a un professore che, oltre all'entusiasmo per i numeri e alla passione per i calcoli, gli aveva regalato anche la voglia di insegnare, di poter esser d’aiuto a chi ha ancora tutto da imparare.

    Adesso è il nostro momento.

    «E a imparare, quest’anno, sarete voi» conclude, dopo ventisei minuti e trentotto secondi.

    Punta l'indice sulla ragazza della prima fila, a sinistra. Io sono l’ultima a destra. Sento una a una tutte le presentazioni dei miei compagni di classe, che paiono piuttosto tranquilli, e ascolto con attenzione i loro nomi per memorizzarli.

    Diciassette persone si mostrano alla classe, poi suona la campanella. Grazie al cielo.

    «Oh cavoli, mancate voi tre!» Il professore guarda me e i due ragazzi che mi sono davanti. «La prossima volta inizieremo con le vostre presentazioni, d’accordo? Credo sia dopodomani. Avrete del tempo per pensare, vedetela così. A presto, ragazzi» termina saltando giù dalla cattedra.

    Il mio respiro torna regolare mentre lo guardo prendere la ventiquattrore che aveva lasciato accanto alla porta dell'aula e andare via.

    Salva!

    La nave galleggia ancora, tutto sotto controllo.

    Almeno fino a dopodomani.

    Trascorrono cinque lunghi minuti.

    I ragazzi cominciano a parlarsi, io li osservo.

    Alcuni si conoscevano già da un po'. Qualche gruppo si è già formato. Sento qualcuno ridere: è una ragazza dai capelli neri come la pece. Bella, bellissima. Parla con un ragazzo della classe che credo le piaccia, ma non ne sono molto sicura: non sono proprio un’esperta in questo campo.

    Lei ha la risata contagiosa e verrebbe anche a me da ridere, se solo ne fossi capace; ma anche se ci riuscissi probabilmente mi tratterrei, per non sembrare matta.

    Anche se forse, matta, lo sono davvero.

    Chiudo gli occhi, li stringo forte, ho bisogno di aria.

    Sento una voce decisa, e subito dopo il silenzio totale: è arrivato il professore della seconda ora.

    Abbasso la testa.

    Mi stanno guardando.

    Quaranta occhi puntati su di me.

    Smettetela! Smettetela, vi prego!

    Non voglio piangere. Voglio solo scappare. Mi sento come una palla messa a centrocampo a inizio partita, sotto l’attenzione di tutti, pronta ad essere calciata, a essere distrutta.

    Ho bisogno di aria. Ho bisogno di respirare, o forse no... Forse vorrei solo smettere di farlo.

    Per sempre.

    Ho paura.

    Alzo la testa pronta a correre via, ma mi rendo subito conto che il professore parla ancora e le teste sono tutte rivolte verso di lui: nessuno mi stava guardando.

    Sono soltanto io, qui.

    È che sono sbagliata.

    «Quindi adesso possiamo andare fuori, per la vostra gioia», annuncia il professore.

    Io non capisco, credo d’essermi persa un pezzo.

    Mi sento totalmente spaesata.

    Ha detto fuori? Ma davvero? E perché?

    «Due ore di ginnastica» mi suggerisce la ragazza dai capelli color pece passandomi accanto, come se mi avesse letto nel pensiero.

    Faccio un cenno con la testa, per ringraziarla. Lei mi sorride con una tale dolcezza, che quasi viene da sorridere anche a me.

    Mi alzo, prendo le mie cose e insieme ci dirigiamo verso il giardino sul retro dell'edificio. Non è molto grande, né tanto meno curato, ma c’è ed è comunque una gran cosa.

    Tre aiuole di fiori ormai secchi occupano il centro del giardino, facendo da contorno a una piccola fontanella non funzionante. Lungo la recinzione, otto alberi, quattro da un lato del cancello e quattro dall’altro, rendono l’ambiente un po' più delimitato. Sono di un verde spento e non riesco a riconoscerne l’odore.

    Il professore inizia a darci le direttive: noi ragazze potremo giocare a pallavolo, mentre i ragazzi potranno organizzare una piccola partita di calcio. Io non sono brava né in uno sport né nell’altro, così mi vado a sedere verso la scalinata, sperando, come sempre, di passare inosservata.

    Guardo i compagni discutere per creare le squadre: sono tutti in lotta per essere il leader, tutti in lotta per il posto più ambito... neanche fosse una questione di vita o di morte!

    Io sono stata in bilico su quel limite, quello tra la vita e la morte. Il momento della decisione: prendere o lasciare. Alla fine ho preso la vita, così com’è, con tutti i miei guai, con tutte le mie insicurezze, con tutto il mio essere sbagliata.

    Prendo un rametto da terra e lo rigiro tra le dita. La giornata non è delle migliori. Il sole non c’è, anche se questa mattina appena sveglia avevo intravisto qualche raggio filtrare dalla finestra.

    «Posso?»

    Sussulto. Alzo lo sguardo: vedo occhi azzurri e capelli scuri. Noto subito la sua altezza e solo dopo lo scruto con attenzione, osservando i jeans verde militare e una maglietta con al centro un logo che non conosco. Indica la parte del gradino alla mia sinistra e quando annuisco, si siede accanto a me. Si infila la mano in tasca, cercando qualcosa. Forse ha un'arma, penso.

    Deglutisco: non mi ucciderà mica, spero!

    Ciò che invece tira fuori è un semplice pacco di sigarette, dal cui interno estrae anche un accendino blu.

    «Vuoi?»

    Faccio segno di no. Mi rendo subito conto di fissarlo troppo, così giro la testa dall’altro lato.

    Uno. Due. Tre.

    I secondi passano, e io ne tengo il conto. Guardo le ragazze giocare a pallavolo.

    Cinque, sei palleggi, poi la palla cade. A ripetizione.

    «Non fai attività fisica?»

    Mi rigiro: è sempre lui.

    Faccio di nuovo segno di no.

    Non è nella mia classe, lo avrei riconosciuto, e inoltre è molto più grande. Credo faccia il quinto anno, forse ripetente. Osservo la sua barba curata, corta, che lo rende uomo. È bello. Di questo me ne rendo conto. È una di quelle bellezze oggettive, che tu sei lì e non puoi pensare neanche per un attimo che non lo sia. Ha dei tratti puliti, soffici. Che poi, che razza di aggettivi sono, per i lineamenti del viso, soffici o puliti?

    Devo esser matta davvero!

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