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Una questione di naso
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Una questione di naso

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About this ebook

La routine di una tranquilla cittadina della Bassa Padana, Ostiglia, viene sconvolta da un misterioso omicidio. Lucia, la giovane donna delle pulizie, viene ritrovata morta nella cantina della Palazzina 5 del villaggio Enel. Avviate subito le indagini, verrà fuori quella che è la realtà del piccolo centro in cui, tra tradimenti, vizi e personaggi singolari, si dipanerà la matassa che porterà alla scoperta del colpevole.
Il tutto si svolgerà sotto lo sguardo attento di Caronte, un labrador nero dal fiuto eccezionale “per le disgrazie”.
Un romanzo perfettamente orchestrato che ha il gran pregio di mettere a nudo e prendere in giro il finto perbenismo di una società fatta di apparenze, poiché tutti, anche coloro che occupano un ruolo di rilievo, sotto sotto si ritrovano a commettere una serie di peccatucci. Una lettura piacevole, rilassante, a tratti divertente che coinvolgerà il lettore fin dalla prima pagina.
LanguageItaliano
Release dateDec 3, 2018
ISBN9788868673468
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    Una questione di naso - Sergio Rossi

    Parte

    Caronte

    Caronte era un labrador dal pelo nero, ma non sempre era stato quello il suo nome; un tempo, infatti, quando c’era ancora il suo primo padrone, era stato Alex.

    Il nuovo nome gli era stato affibbiato dal professore, uno studioso di Dante, il Sommo Poeta, che nel canto dell’Inferno così aveva chiamato colui che traghettava i morti verso gli Inferi. La bestiola si era guadagnata quell’appellativo, perché era sempre presente al sopraggiungere di una disgrazia. Come quando il padrone era caduto dal tetto, anche se quella poteva considerarsi una circostanza normale, e successivamente, quando era stato trovato il figlio del contadino sotto il trattore, quando la ragazza si era gettata sotto il treno o quando il vecchio calzolaio era stato colto da malore.

    Come mai era sempre presente, perché quella predisposizione, perché quel fiuto per il pericolo e per la morte?

    Poco si conosceva di lui, della sua storia, se non quello che si era venuto a sapere quando la bestiola era stata raccolta sull’autostrada.

    Ciò che era accaduto prima neanche Caronte lo ricordava, ma doveva aver lasciato il segno se era portato ad annusare l’acre odore del pericolo.

    Egli rammentava qualcosa solo a partire da quella notte in cui l’aveva destato il confabulare di due uomini scesi da un furgone.

    «Accidenti abbiamo forato! Doveva capitare anche questa!» aveva detto uno.

    Era stato allora che l’altro si era accorto della presenza dell’animale:

    «Ma quello è un cane, l’hanno investito!»

    «Che ti importa!» aveva replicato l’altro.

    «È ancora vivo! Guarda come gli tremano le zampe, non possiamo lasciarlo qui.»

    «Siamo in ritardo, domattina dobbiamo fare la consegna della merce prima che aprano i negozi. E poi non vedi come è conciato, sanguina, ci sporcherà tutto il pianale!»

    «Io lo prendo su» aveva replicato risoluto quello che sarebbe diventato il suo nuovo padrone.

    Dopo averlo avvolto delicatamente in una coperta, se lo era messo nel retro del mezzo.

    Da quel momento per Caronte era iniziata la nuova vita.

    In effetti dopo la morte del padrone, e ancor più dopo i fatti nefasti accaduti, quel cane aveva cominciato a essere considerato un menagramo, tanto che qualcuno aveva pensato di chiamare l’accalappiacani per farlo relegare nel canile, se non fosse stato per gli ostigliesi animalisti commossi nel vedere la bestiola accompagnare il feretro al funerale del suo padrone e poi successivamente a quelli di tutti gli altri defunti del paese. Da allora alcune signore impietosite lo avevano riempito di attenzioni e soprattutto di cibo.

    Il paese comunque si era diviso in due.

    Se ne era parlato persino al consiglio comunale.

    «È tutta una questione di naso!» aveva spiegato il veterinario, assessore all’urbanistica. «L’olfatto, in un cane, è il senso più sviluppato. Un prodigio di ingegneria! Possiede duecentoventi milioni di ricettori olfattivi, l’uomo solo cinque. Pensate che è capace di identificare gli odori vecchi di sei settimane.»

    «È vero che percepiscono anche quando il padrone sta per sentirsi male?» aveva chiesto il vice-sindaco.

    «Non proprio, ma talora sentono il sopraggiungere di imminenti crisi epilettiche, attacchi di diabete o l’insorgenza di alcune forme di cancro e possono sintonizzarsi con il nostro stato emotivo. Per non parlare dell’arrivo di terremoti, temporali o aerei. Chi ha avuto un cane non si è mai spiegato perché sente il sopraggiungere della macchina del padrone molto prima di qualsiasi altro essere? Tutti elementi che ci rammentano che, là fuori, per i nostri fidi amici, esiste un mondo che non ci sarà mai dato conoscere, almeno non come umani, ma che con il loro comportamento ci possono svelare.»

    Gli argomenti edotti erano stati tali che si era arrivati alla conclusione che quel cane, in fondo, avrebbe potuto essere una risorsa per la comunità e si era deciso che potesse essere sistemato in una cuccia dietro l’edificio delle caldaie del villaggio Enel.

    Alla gente avversa alla presenza della povera bestiola non era rimasto che chiamarlo con il nome affibbiato dal professore e toccare ferro timorosi che stesse per accadere qualcosa di brutto. Ma non sempre Caronte ci azzeccava, qualche volta ci andava vicino. Come quel pomeriggio alla rocca.

    La partita a carte

    In quel momento il commissario di polizia Alberto Savio era seduto a uno dei tavolini del bar del parco, con l’amico Enzo Dallara. Entrambi erano in attesa di Dante per la partita a carte: una scala quaranta o una briscola se da quelle parti fosse transitato anche il colonnello Soragna.

    «Son due giorni che Dante non si vede» disse Enzo all’amico. L’altro era assorto, pensava a quanti chilometri avrebbe percorso a piedi appena il sole fosse calato. Il giro della Comuna Santuario e della Comuna Bellis percorrendo una decina di chilometri o quello della Persiana sull’argine del Canal Bianco più lungo, ma lontano dalle auto? Sessantacinquenne, viso triangolare, mascelle sporgenti, con qualche ruga attorno agli occhi chiari, capelli radi, vestito sempre casual in jeans, maglietta e scarpe da tennis, un fisico da sportivo mantenuto tale negli anni dall’aver praticato prima il calcio e il tennis, in seguito il ciclismo amatoriale e ora il podismo. A dicembre aveva in programma di partecipare alla maratona di New York. Un sogno rinviato per anni e sul punto di realizzare visto che la pensione era vicina. Gli mancava un mese, tra l’altro, di ferie non godute e poi il congedo, con tutto il tempo poi a disposizione per prepararsi al grande evento.

    L’amico Enzo che gli era seduto di fronte era già in pensione da più di due anni; era un ex ferroviere.

    «Che non sia capitato qualcosa a Dante?» chiese quest’ultimo.

    «Sarà in giro a fare fotografie, con una comitiva di tedesche appena arrivate all’agriturismo dei due laghetti, non mi meraviglierei che fosse proprio lì!»

    «Basterebbe telefonare a casa, sei o no avvezzo alle indagini» propose Enzo.

    L’altro, non si fece pregare, in fondo si trattava sempre di suo cognato. Estrasse il cellulare e compose il numero.

    Attese finché qualcuno non rispose.

    Era la cognata Daria, la moglie di Dante.

    Le domande che il commissario poneva all’interlocutrice all’altro capo del telefono erano: «Come? È uscito stamane e non è più tornato? Ha detto che sarebbe andato dove?» esse accrebbero la curiosità di Enzo, che alla fine della comunicazione chiese all’amico:

    «Gli è successo qualcosa?»

    «Stamattina marito e moglie hanno litigato, lei era nervosa, lui come sempre era depresso; risultato: se ne sono dette di tutti i colori e lui è uscito sbraitando che una volta o l’altra sarebbe stato capace di un brutto gesto.»

    «Ma lei perché non lo ha fermato?»

    «Secondo te, se due litigano e uno minaccia di farla finita, cosa pensi che faccia l’altro? Non gli dà retta pensando che quando si perdono le staffe si dicono tante fregnacce. Poi conosci Dante, non è la prima volta!»

    «Il solito, per farsi compatire.»

    «Mah, si crede di conoscere a fondo una persona e non si sa cosa gli possa passare per la testa. Oppure vuoi vedere che è un morbo che s’è diffuso al villaggio?! I mariti scompaiono improvvisamente nel nulla, come il Canna, l’uomo di Sara!»

    «Penso che quello non tornerà più. Sta troppo bene se, come dicono, è ai Caraibi a sollazzarsi con qualche bella figliola. Sai che da quelle parti con la nostra pensione si può campare da nababbi?»

    «Tutto ciò non può essere accaduto al nostro Dante, ci vuole uno spirito avventuriero e in lui proprio non lo vedo.»

    «Ma ora facciamo una partita» tagliò corto Alberto.

    C’era un non so che di elettrizzante nell’aria come quando sta per cambiare il tempo. Qualcosa che inevitabilmente condiziona l’umore delle persone se, all’ennesima distrazione dell’amico nel distribuire le carte, Enzo si alzò di scatto urlando all’altro:

    «Ma allora che cavolo di partita si fa, se…» e lì si fermò perché sentì una fitta tremenda al collo restando bloccato dal dolore.

    «Che hai, non ti sarà preso un colpo?!» disse scherzosamente il commissario.

    «Non c’è nulla da ridere, è la cervicale!»

    «Dai, siediti che ti passa» suggerì l’amico.

    «Dovrò farmi un’iniezione; chissà se Daria ne avrà voglia dopo quello che potrebbe essere accaduto al marito!» rispose Enzo che, muovendosi lentamente, si avviò verso l’uscita manifestando a ogni passo una smorfia di dolore.

    Rimasto senza socio per le carte, il commissario si diresse fuori dal locale per sedersi a uno dei tavolini. Più defilato, quasi nascosto, come sempre da solo, Matteo Molina stava leggendo il giornale. Era sempre stato un tipo introverso, taciturno, difficilmente abbordabile se non fosse stato per parlare della Centrale, fino a che non si era messo in politica, e a quel punto aveva manifestato la sua vera indole di affabulatore.

    Motivo?

    Sondare come la pensava la gente e capire da che parte stava visto che mancava un anno alle elezioni comunali. In particolare, la sua curiosità era ora rivolta al commissario, perché avrebbe fatto comodo avere una figura che aveva servito la patria, per la nascente lista Liberi tra le stelle, di cui lui era stato nominato segretario e in corsa per la nomina a sindaco da uno sparuto gruppo di iscritti.

    Per quello era impegnato a girare ogni bar del paese appostandosi come un falco in attesa della sua preda: un nuovo simpatizzante per il suo partito. Tutto ciò gli costava un aumento delle transaminasi al fegato perché nei bar bisognava consumare e non poteva sorbirsi sempre caffè. Allora aveva preso l’abitudine di qualche bicchiere di vino, Tanto per stare in compagnia aveva spiegato alla moglie quando quella si era accorta dell’eccessiva parlantina e dell’alito pesante del consorte al rientro a casa. Ma lo scopo era stato condiviso. Per il bene del partito! si erano accordati e lei faceva finta di nulla sperando di diventare presto la first lady di Ostiglia.

    «I grandi sogni degli anni Settanta e Ottanta sono finiti. Abbiamo creduto che tutto fosse possibile: la luna, la pace, la fratellanza, la libertà e il benessere e non è rimasto niente o poco!» cominciò a dire il Molina a voce alta affinché il commissario sentisse.

    Cavolo, ci siamo, quello adesso mi attacca un bottone che non finisce più pensò l’altro.

    D’altronde doveva pur rispondere qualcosa erano solo loro due e doveva far passare il tempo, perciò replicò: «Colpa delle Torri Gemelle, la Cina, la globalizzazione, la crisi finanziaria mondiale e il conseguente crollo dei miti e delle prospettive.»

    «E soprattutto colpa dei nostri politici, quelli che si definiscono casta e che di casto non hanno nulla perché difendono solo i propri diritti acquisiti con le unghie e i denti. Ci vorrebbe gente nuova!» replicò il Molina che, col bicchiere mezzo pieno, si avvicinò al commissario.

    «Chi li smuove quelli! Tanto gli elettori si dimenticano presto perché, sembra impossibile, ma gira e rigira, ci troviamo sempre gli stessi. Una volta che si è nel calderone, la politica ti permette di campare tutta la vita. Un po’ in Parlamento, un po’ nei consigli di amministrazione, un po’ ai vertici delle municipalizzate, un po’ nelle segreterie. Basta essere elastici!»

    «Ma alle prossime elezioni questa mancanza di sostanze come il lavoro, la sanità e il futuro incerto faranno sì che gli elettori voteranno il nuovo!» finalmente il Molina scoprì le sue intenzioni.

    «Chi sarebbe?» chiese l’altro.

    «Una classe dirigente snella, pulita, efficiente e pagata nei limiti!»

    «Altri che ci abbindoleranno con la loro parlantina! Sai la storia di quel fondatore di un partito? Ebbene, un giorno accortosi che i cretini erano la maggioranza pensò di fondare il partito dei cretini. Ma nessuno lo seguì. Allora fondò il partito degli intelligenti. E tutti i cretini lo seguirono. Questi siamo noi oggi in questo Paese!»

    Il commissario sapeva di provocarlo in quel modo, ma anche lui evidentemente sentiva il tempo.

    La reazione di Molina fu quella di uno che era stato morso da un serpente perché piegò il giornale, si alzò e infilò l’uscita senza salutare. Era chiaro che si trattasse di un politico alle prime armi, mai mollare l’osso o lasciarsi intimorire, se mai defilarsi con diplomazia senza strappi. Chissà, un domani il commissario avrebbe potuto cambiare idea!

    «Bel pomeriggio, ho perso il socio per la briscola, ho fatto scappare uno pseudopolitico rompiballe e penso che con questo tempo non potrò nemmeno andare ad allenarmi. Dai va, portami una gassosa!» disse rivolto a Mario Bellotti il gestore del bar Parco.

    Troppo presto per ritornare a casa e trovarsi tra quelle quattro mura ad aspettare che venisse la sera. Gli pesava il vuoto di quella casa; d’altronde era colpa sua se la moglie lo aveva abbandonato.

    Testarda come un mulo

    Al commissario era accaduto: si trattava di quel genere di sbandate che si prendono a una certa età in cui si vorrebbe rinverdire la passione amorosa, illudendosi di fermare il tempo e di allontanare la vecchiaia. Aveva perso la testa per quella donna dell’Est, una signora georgiana, che faceva la badante dai Soragna.

    Costei, quando lui militava ancora nell’Arma dei Carabinieri a Ostiglia, non sapendo a chi rivolgersi per il rinnovo del permesso di soggiorno, aveva chiesto lumi in caserma.

    L’allora maresciallo Savio era stato abbagliato dagli occhi verdi, la chioma bionda e il fisico prorompente della signora.

    Un vero e proprio colpo di fulmine, e quel giorno aveva comandato all’appuntato che del caso si sarebbe interessato lui in persona. Era ora che, quelle povere donne tanto gentili e premurose con i loro vecchi, meritassero un po’ più di attenzione e giustizia.

    Le indicazioni del maresciallo alla giovane donna erano state perfette, persino più dettagliate del necessario, con lo scopo di intrattenere quella dolce creatura e di bearsene della sua vista il più a lungo possibile.

    Il giorno dopo, l’avvenente georgiana, si era ripresentata alla stessa ora con la richiesta di poter approfittare di uno dei loro frequenti viaggi verso il comando provinciale per recarsi in prefettura.

    Il maresciallo Savio stesso l’aveva accompagnata.

    Così avevano cominciato a frequentarsi assiduamente, perché dal permesso di soggiorno si era passati al contratto di lavoro e poi alle pratiche per il trasferimento dei soldi in patria. Pochi soldi, asseriva lei, che non bastavano per i suoi cari: genitori, fratelli, cugini, tutti gravemente ammalati e bisognosi di cure.

    Come poteva il buon Savio non aiutarla se glielo chiedeva con modi così supplichevoli; accarezzandolo su una guancia, oppure baciandolo in fronte o posando la mano sulle sue ginocchia e più su dentro le cosce?

    L’uomo iniziò a prelevare dal conto corrente in banca somme consistenti, proporzionali all’intensità delle effusioni della georgiana.

    La moglie Bice se ne accorse quando ormai la frittata era fatta, il conto era prosciugato; il marito si era dimostrato rincoglionito e succube degli umori altalenanti della donna che ben sapeva come menarlo per il naso.

    Imbufalita, ma in sordina e senza tanti schiamazzi, la moglie lo aveva lasciato e se ne era andata a vivere in città, a Mantova, dove peraltro lavorava. Aveva preso un appartamentino in affitto, e lì l’aveva raggiunta il figlio Carlo che avrebbe così potuto proseguire gli studi.

    La georgiana, finiti i soldi, era poi sparita.

    Per colmare i debiti, Savio aveva venduto la casa paterna in paese e, vinto un concorso come commissario di Polizia, si era trasferito a Mantova nella speranza di riappacificarsi con la moglie. Invano, perché quella era una donna tosta e decisa a fargliela pagare.

    D’altronde l’aveva messo in guardia il suo futuro suocero prima di sposarla: Mia figlia è testarda come un mulo, nervosa come un cavallo e con la malizia di un cammello!.

    Da qualche mese, ormai prossimo al congedo, aveva deciso di tornare a Ostiglia approfittando della messa all’asta di una delle villette dei capi, quella più vicina al locale caldaie di riscaldamento. Stava bene al suo paese, gli sembrava di aver ritrovato tutti i punti di riferimento necessari di un tempo: gli amici, le passeggiate sull’argine e il caro vecchio

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