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L'ultima stanza
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L'ultima stanza

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About this ebook

Ci sono dei sensi di colpa che ognuno si porta dentro… Questo pensa Angela, quando si trova di fronte alle storie di quattro persone che partecipano al suo corso di scrittura terapeutica. 
Vittoria parla di un errore commesso sul luogo di lavoro, che ha cambiato la vita di molte persone; Camilla riesce, in un testo criptico, ad accennare ad un furto, forse il furto di un affetto; Nicola ricorda un amico come fosse ancora presente, di cui ha tradito un segreto; Jacopo sa che ha distrutto la vita di un uomo con la sua mediocrità. Il pentimento è cosa difficile, quando non ci sono più gli interlocutori a cui rivolgersi. Questo è il dilemma dei quattro corsisti davanti ad Angela. Racconteranno i loro segreti attraverso delle lettere, metodo che Angela ha creato per approfondire, condividere, aiutare. 
Ma anche per lei è giunto il momento di affrontare quel malessere sottile, che sfocia poi in crisi di panico, senza che ne capisca il motivo. Dei ricordi legati alla sua infanzia in Sicilia si stanno risvegliando. Sua madre si è uccisa davvero quando era piccola? Un giallo psicologico, in cui si intrecciano i destini di più persone, con la nota magica delle canzoni dei Beatles, i cui significati portano dritto dentro le loro vite.

Marina Zinzani è nata a Ravenna nel 1964 e coltiva da anni la passione per la scrittura. Ha ottenuto diversi riconoscimenti tra i quali: vincitrice del concorso “Città di Cattolica” con Bianca nel 2017 (Pegasus Edition), che ha ottenuto anche il premio della giuria al concorso “Città di Pontremoli” nel 2018; vincitrice del “Premio Montefiore” nel 2016, menzione d’onore allo stesso concorso nel 2017; vincitrice del “Festival delle Lettere” di Milano nella sezione “Lettere a tema libero” nel 2013, finalista allo stesso concorso nel 2015 e 2017; terza classificata al concorso di poesia “Premio Giusy Santonocito” nel 2014; finalista al Premio Fogazzaro nel 2013; quarta classificata al concorso “Viaggiando nelle parole – il romanzo” nel 2015. Da anni collabora con la rivista “Pagine letterarie” del dott. Angelo Perrone.

Marinella Scarpante, detta Sonia, è nata a Milano nel 1958. Si è laureata in Architettura al Politecnico. Nel 2003, dopo una malattia oncologica, ha pubblicato il suo primo libro, un’autobiografia, di forte valenza terapeutica, dal titolo Lettere ad un interlocutore reale. Il mio senso, a cui ha fatto seguito Mi sto aiutando, con prefazione del prof. Umberto Veronesi e Un fiore nella mia anima, con prefazione del dott. Cinieri. Nel settembre 2008, ha pubblicato la raccolta di racconti All’ombra del Vesuvio, ripubblicato nel 2015 con il titolo Aurora. A queste si sono aggiunte due raccolte di poesie, Tracce e Le dimensioni perdute, con prefazione di padre Bartolomeo Sorge. Presidente dell’associazione “La cura di sé”, collabora con riviste di tipo sociologico. Attualmente si occupa di corsi di scrittura terapeutica in strutture sanitarie come formazione per operatori (ECM). è anche autrice del saggio Non avere paura. Conoscersi per Curarsi  e del testo che rappresenta la sua metodologia Parole evolute. Esperienze e Tecniche di scrittura terapeutica .
LanguageItaliano
Release dateNov 27, 2018
ISBN9788856794977
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    L'ultima stanza - Marinella Scarpante

    stanza

    Prologo

    «Devi andare di là, non puoi stare qui. Vai a giocare con la tua bambola!».

    Una figura vestita di nero, la zia Pina, la prese per un braccio. La bambina seguì di malavoglia la donna che le fece quasi male, portandola convinta nella sua cameretta.

    «Resta qui, non ti muovere, non ti muovere!».

    Non l’aveva mai vista con quella faccia la zia Pina, era sempre sorridente e giocosa con lei, quando saliva a casa sua. Sembrava arrabbiata, era così scura in viso.

    «Piccola bambola, che vestito posso metterti oggi?».

    La bambina stava per scegliere un vestito da sera, aveva tanti vestiti per lei, piccola compagna delle sue giornate, ma fu richiamata da un vociare continuo che proveniva da fuori. Si affacciò alla finestra. C’era anche la zia Giovanna, e un’altra donna, con la mano davanti alla bocca, che scuoteva la testa. Stavano arrivando altre persone, il dottore, lo riconosceva il dottore, e dei vicini di casa.

    Una fitta sembrò penetrarle il cuore, guardava la bambola e questa le appariva improvvisamente triste, come se una sottile preoccupazione, o di più, ben altro di più, l’avesse invasa, e stesse soffrendo per lei, bambina ignara, che doveva stare buona nella sua stanza a giocare.

    L'ULTIMA STANZA

    molti anni dopo

    Angela si era alzata di scatto. Qualcosa l’aveva turbata. Un sogno: lei che girava per una stazione e doveva salire su un treno, ma non sapeva quale.

    Sudata, si era diretta verso la cucina per bere un bicchier d’acqua. Il grande orologio appeso, vicino alla finestra, segnava le tre.

    Proprio oggi che comincia il corso… Notte insonne…, pensò.

    Tornò a letto, ma il sonno non arrivava. Era come se avesse uno spasmo nelle gambe, e un caldo improvviso. Si scoprì completamente, spostando la coperta. Poi si coprì con il solo lenzuolo. Luca, suo marito, dormiva accanto a lei tranquillamente.

    Poi prese a camminare. Camminava, camminava lungo un sentiero, c’era terra arida attorno, poche case, e l’arsura le prendeva la gola, aveva bisogno di bere, ho sete si diceva, e camminava, camminava… e poi era arrivata a una casa, una vecchia casa, e c’era una donna sulla porta, vestita di nero.

    Cosa vuoi da me? Cosa vuoi da me?.

    Faceva paura quella donna, era davanti alla porta con le mani sui fianchi, con fare minaccioso. Lei faceva fatica a parlare, voleva chiedere un po’ d’acqua, o solo un’indicazione, ma quella donna aveva lo sguardo cattivo, e un occhio di vetro…

    Di colpo Angela si svegliò, il cuore le batteva forte. Era sudatissima. Cercò la mano di Luca, come per capire dove si trovava.

    «Cos’hai?», chiese lui.

    «Ho fatto un brutto sogno, brutto, molto brutto… anche prima ne avevo fatto un altro…».

    «E che sogni erano?».

    «Non lo so… ero in un posto arido… e vedo una donna davanti a una casa…».

    «E cosa faceva questa donna?».

    «Era davanti a una porta, aveva una faccia orrenda…».

    «Vuoi che ti faccia il caffè?».

    «No, adesso mi alzo. Proprio oggi che devo iniziare il corso…».

    «Adesso ti fai una bella doccia, fai una bella colazione, e poi vedrai che andrà tutto bene. Quanti sono i corsisti?».

    «Sono solo in quattro, dovevano essere di più… ma… accontentiamoci».

    Angela restò qualche minuto ancora a letto, la camicia da notte sudata, la bocca secca. Come l’aveva nel sogno. Era stata in Sicilia, ne era sicura.

    Strawberry Fields Forever… Campi di fragole per sempre, campi di fragole per sempre… Chissà cosa avevano voluto dire i Beatles con quelle parole, ma a Giulia in fondo non interessava granché, era il suono che esse riverberavano nella sua mente quello che contava.

    Mentre sciacquava i piatti in cucina davanti alla finestra, se le ripeteva in continuazione… Strawberry Fields Forever, Strawberry Fields Forever… Quel suono, quelle lettere, la affascinavano, quello straw iniziale così duro, così forte, quasi da incagliarsi fra i denti, si addolciva improvvisamente come il miele, berry fields, entrava nella sua mente e poi andava a perdersi confuso tra i ricordi, come un’eco, con quel meraviglioso forever, forever, per sempre, per sempre.

    Giulia assaporò ancora una volta quel titolo, se lo ripeté come un mantra, già… un mantra… Che cosa banale rimpiangere la giovinezza, pensò, mentre apriva la finestra sul lavandino davanti a lei, come per far prendere aria alla cucina e ai suoi pensieri.

    Una ventata profumata entrò nella stanza. Tiepida, odorosa di tigli, già annunciava l’estate. Era molto presto, lei si alzava sempre molto presto. Vittoria dormiva ancora, lei le avrebbe preparato una leggera colazione, una tazza di latte con qualche fetta biscottata con uno yogurt. Vittoria doveva andare a un corso di scrittura terapeutica.

    Giulia guardò fuori. Una venatura rosa del cielo le ricordò l’India.

    L’India… Che brutta cosa, si ridisse fra sé, rimpiangere la gioventù. È banale, lo fanno tutti, ma poi, piano piano, come per incanto, fu presa da una specie di languore e la sua mente vagò come ipnotizzata sulla scia dei ricordi.

    Kerala, Kovalam, Ponmudi… che significa corona d’oro, questi erano i nomi che le venivano in mente, e altri ancora, dei veri e propri scioglilingua: Thiruvananthapuram… Padmanabhapuram… tutti se li ricordava e spesso li ripeteva in continuazione, come in preghiera. Quella parte dell’India l’aveva visitata in gioventù e ne era rimasta affascinata. Quella parte dell’India, così diversa, così tropicale, un altro Paese, era come se lì lasciasse le sue miserie, le sue povertà, le sue periferie sterminate per assumere un’altra veste. Sole, mare, spiagge dorate, canali ricoperti di palme e mangrovie, e il nitido villaggio dove lei aveva alloggiato.

    Era giovane, era una hippy, non le interessavano le comodità, il benessere. E come in un film, la sua mente cominciò a sgranellare i ricordi. Quei sapori, quegli odori ritornarono. Quei colori così forti, così vivaci. Il giallo ocra trapuntato di azzurro di quel meraviglioso sari che le ragazze del villaggio le avevano regalato piangendo prima che lei partisse, e le loro lacrime, i cieli così azzurri da sembrare finti e il verde intenso di quelle palme, di quelle acque calme dei canali e… degli occhi di Marco…

    Marco… Con una punta di dispiacere, Giulia si rese conto che quasi aveva dimenticato i tratti del suo viso, troppo tempo era passato… Ma di lui si ricordava i folti capelli bruni, la sua dolcezza e i suoi occhi…

    Avevano viaggiato arrangiandosi, chissà come, per tre mesi quasi. Erano poi andati a Goa, meta obbligata per quella generazione, e poi erano volati nell’aria fredda e rarefatta del Nepal. Lei e Marco si amavano, di un amore che sembrava non dovere mai finire. Ma una volta tornati in Europa, in Italia, nel mondo civile, l’incanto si era spezzato. La magia era finita.

    «Ho bisogno della mia libertà», le aveva detto un giorno Marco, appoggiando la sua testa bruna alla sua spalla.

    Lei era trasalita, un dolore al cuore l’aveva trafitta. Ancora adesso era come se la sentisse quella fitta, dopo tanti anni era come se il suo cuore con quella cicatrice le ricordasse quel momento.

    Ma poi in fondo lei lo aveva capito. Come un animale chiuso in gabbia, non sopportava vincoli e legacci. Si erano lasciati. Lui, dopo tanto tempo, era finito in Olanda. Lei si era sposata, un brav’uomo…

    Ma quando molti anni dopo lui l’aveva chiamata per dirle che gli rimaneva poco da vivere, lei era accorsa da lui, contro tutto e contro tutti. L’incontro era stato così straziante da cambiarla per sempre.

    Giulia si accorse che aveva il viso bagnato, si asciugò col grembiule e mise il latte nella tazza. Vittoria si sarebbe alzata fra poco, non voleva che la vedesse piangere.

    Non era stata una brava madre, questo lo sapeva, forse non l’aveva amata come avrebbe dovuto. In qualche modo l’aveva legata a sé, impedendole di andare via. No, non era stata una buona madre, ma l’idea di rimanere sola le era insopportabile.

    Giulia aprì una confezione di fette biscottate, e prese un vasetto di marmellata di fragole, quella preferita dalla figlia. Già, marmellata di fragole, fragole.

    Strawberry Fields. Giulia si soffiò il naso. Il momento di prima era passato. Vittoria si stava alzando.

    Il traffico nell’ora di punta si era fatto caotico. Jacopo guidava nervosamente la sua Peugeout 208 nera, nel centro di Milano. Un odore nauseante gli invase le narici: il fumo che usciva dal tubo di scappamento di una macchina davanti a lui.

    Disgustato fece una smorfia. Girava a vuoto da mezz’ora in quella bolgia.

    «Hanno fatto un casino con queste zone verdi, non si trova più un parcheggio nemmeno a pregare», imprecò.

    Doveva andare in una misteriosa villa nel centro di Milano per un corso, ma il suo satellitare sembrava impazzito. Era la terza volta che lo faceva tornare nello stesso punto. Non si raccapezzava più.

    Jacopo, come tanti che conosceva, odiava Milano, il suo traffico, il suo smog, il freddo grigiore invernale, e il calore insopportabile estivo. Di quella città non era mai riuscito a coglierne la segreta bellezza, la poesia nascosta. Ma soprattutto Milano rappresentava per lui la normalizzazione, l’entrata nel mondo civile dei padri di famiglia che devono accudire moglie e figli. Se le ricordava ancora le parole sferzanti del suocero: «È ora che tu metta la testa a posto… ora che stai per diventare padre… basta con le tue perdite di tempo, la tua musica, i tuoi amici».

    La sua musica, i suoi amici, tutto aveva perso, tutto aveva dimenticato, ed era diventato una persona normale, come ce ne sono tante, un buon padre di famiglia.

    Per caso passò davanti a una libreria, dove un mese prima aveva trovato quel libro strano e quel volto di donna sulla copertina. Angela si chiamava, e di lei l’aveva colpito il volto luminoso, lo sguardo accattivante, anche se forse velato di un pizzico di malinconia. Sfogliando quel libro dal titolo così strano aveva trovato frasi e concetti che sembravano scritti apposta per lui… il ritorno alla normalità, il reprimere i propri desideri, il proprio talento artistico. Già, perché di talento artistico lui ne aveva, glielo avevano anche detto. Non solo suonava divinamente anche la chitarra, ma aveva una voce, così gli dicevano, che assomigliava a quella di Paul McCartney.

    Jacopo, fermo per l’ennesima volta a un semaforo rosso, accese l’autoradio. Come se i suoi pensieri prendessero corpo, stavano trasmettendo Yesterday. Lui si stupì di questa strana magia, e alzò il volume.

    «Yesterday, all my troubles seemed so far away…».

    Se le ricordava bene, l’aveva cantata tante volte, lui e altri tre amici come lui avevano formato una band, un complesso come si diceva allora. Lui al canto e alla chitarra solista, Bruno alla chitarra accompagnatrice, Paolo al basso e Riccardo alla batteria.

    Già, Riccardo, quello col quale aveva legato di più, quel biondino che aveva tanto successo con le ragazze, chissà che fine aveva fatto.

    E con loro aveva girato in lungo e in largo per l’hinterland milanese, per sagre, feste, balere. Si ricordava di quel prete tanto simpatico che aveva messo a disposizione un piccolo stabile antistante alla canonica, dove organizzavano feste, balli… dov’era? Non se lo ricordava più, forse a Bollate, o dalle parte di Lambrate. E le ragazze che avevano conosciuto? E i primi spinelli?

    Durò poco quel periodo, pensò con rammarico. Poi arrivò lei… Deborah, si chiamava, ed era originaria delle Puglie. Fu uno di quegli amori forti, improvvisi, che ti lasciano senza fiato. Un inizio esaltante, tra concerti, feste, musica, i Beatles, ma anche i Rolling Stones, Sinatra, i Beach Boys, e lei sempre con lui.

    Poi rimase incinta. Se lo ricordava ancora il suocero che lo guardava di sottecchi, ne leggeva quasi i pensieri, dietro i suoi occhi azzurrognoli: «E ora questo capellone, pieno di catenine e braccialetti, cosa pensa di fare? Come pensa di mantenere mia figlia e il bambino che porta in grembo? Forse suonando la sera di qualche paesino sperduto?».

    Certo di soldi se ne vedevano pochi, anzi pochissimi, ma… erano felici…

    Poi nacque suo figlio e mise la testa a posto. Sciolta la banda, dimenticato le feste, le chitarre, trovò lavoro in una ditta di vendite al dettaglio come rappresentante. Si tagliò i capelli, sua moglie cominciò a ingrassare, fare capolino in lui qualche vago disturbo.

    Ora quel libro di Angela sembrava promettere qualcosa di buono, un nuovo metodo, la scrittura terapeutica, sembrava sperimentare con successo nuove vie di guarigione. Si decise, avrebbe seguito i suoi corsi. Le avrebbe forse parlato francamente, le avrebbe aperto il suo cuore, come forse non aveva mai fatto con nessuno.

    Jacopo spense l’autoradio, il semaforo era verde. Si preparò a ripartire. Ma qualcosa simile a un nodo gli attanagliò la gola. Si accese una sigaretta, l’ennesima, aspirò profondamente e tossì. La sua voce si era fatta roca. No, non era più quella di Paul McCartney.

    Camilla aveva dormito poco e male quella notte, il suo corpo aveva cambiato continuamente posizione e aveva percepito ogni rumore: il vicino che aveva fatto la notte ed era salito in ascensore alle cinque del mattino, l’auto del ragazzo del terzo piano che era rientrato alle quattro.

    A poco era servito andare a letto presto per Camilla, il sonno, beffardo, era arrivato un’ora prima del risveglio.

    Ancora sonnolente aveva trangugiato il caffèlatte, pulendosi la mano con la bocca, e aveva sbucciato una banana tagliandola poi a metà, aveva una macchia quella banana, la levò con il coltello. Poco appetito a quell’ora ma qualcosa doveva mangiare, anche un po’ di yogurt con le noci.

    La vestaglia messa nel cesto della roba sporca, lavatrice del sabato pomeriggio, la doccia e la spugna con il liquido miracoloso al muschio bianco, l’acqua dopo la colazione non era forse opportuna, ma il corpo si doveva riaccendere a poco a poco, e doveva ricominciare dai sapori, la colazione, e ora dagli aromi. Il deodorante per le ascelle, il tocco di profumo maschile, la crema lattea per il viso.

    Di solito questo rito quotidiano le infondeva vigore e freschezza, ma questa volta non era così. Troppo scioccante quello che aveva visto.

    Il giorno prima, mentre il figlio Matteo non era in casa, aveva sbirciato nella cronologia del suo computer, vergognandosene un po’. Aveva trovato ripetutamente degli accessi a un sito che parlava della Blue Whale, la balena blu. Lei era andata subito a vedere quel sito, e trasalendo, mentre leggeva le atrocità connesse a quella cosa di cui si stavano occupando i giornali, si ricordò di uno strano taglio che il figlio aveva sul braccio.

    «Mi sono tagliato col coltello», era stata la sua risposta evasiva.

    Un percorso macabro verso l’autodistruzione, con delle prove estreme, che cominciava anche con dei piccoli tagli.

    Era pronta, ora.

    «Dove vai?».

    Camilla trasalì a queste parole, era il marito che si stava facendo la barba in bagno.

    Con la bocca impastata e respirando a fatica, Camilla rispose.

    «A un corso di scrittura, te l’avevo detto, no?».

    «Ah… quella cosa…».

    Allora lei prese la borsa e le chiavi di casa sul tavolo della sala, e si diresse all’ascensore. Dalla porta del vicino echeggiavano le note di Penny Lane. Si ricordò di una notizia della tv, in quei giorni cadeva un anniversario che riguardava i Beatles. Era in orario, bastava prendere la metro e alcuni minuti a piedi.

    Nicola notò che c’era poca gente sul tram a quell’ora. Era sabato mattina, e la città rallentava la sua corsa. La metro meno piena, anche gli autobus, e anche quel tram. C’era posto a sedere per tutti.

    Nicola, vicino al finestrino, preferiva stare in piedi, il tragitto non era lungo, e da quella posizione sembrava godersi il panorama: le vie e le case che gli scorrevano davanti, i maestosi platani che sembravano catturare e trattenere la luce del sole e la gente sempre così indaffarata. Visto dall’alto, da dietro

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