Il crepuscolo degli eccelsi (Vol. II)
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Roger de Tosny è un vampiro millenario che si è stancato della vita decadente e senza prospettive che condivide con i suoi simili. Assaporato di nuovo il senso di potere e piacere che deriva dal nutrirsi prosciugando le proprie vittime, intende liberare se stesso e i membri della setta di cui fa parte, la Fratellanza degli Eccelsi, dal controllo del governo inglese.
Il vampiro, inoltre, crede che la figlia del poliziotto, Deborah, sia la reincarnazione della perduta moglie Godehildis; per riconquistarla, de Tosny è disposto a fare qualsiasi cosa, persino a sfidare il governo inglese e la stessa Fratellanza.
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Il crepuscolo degli eccelsi (Vol. II) - Uberto Ceretoli
1
L’alba da Victoria Embankment è un panorama abbastanza disgustoso da meritare la mia attenzione. Il pulviscolo delle fabbriche e degli impianti di riscaldamento si condensa in sudici livelli di fumo rugginoso: lo strato più basso è acceso dal sole che, nella sua torbida ascesa, svanisce imputridendo in una marmellata di nano-polveri.
Ti auguro buongiorno, Londra. Una bella giornata di morte.
Le nano-polveri entreranno nei polmoni dei cittadini e li incatrameranno come il greggio delle navi naufragate nel Mare del Nord.
Sul placido Tamigi, l’Ago di Cleopatra e le sue sfingi guardano impassibili la deriva suicida degli esseri umani: la cosa non mi sfiorerebbe se non ne peggiorasse il sapore del sangue.
«Ciao, Roger» la voce è forte nonostante appartenga a una donna.
Ecco uno degli incontri che sembrano pianificati dal Diavolo in persona: Lucifero non deve aver gradito i saluti che gli ha recato Daniel McCarson.
«Ciao, Ecaterina, è curioso incontrarti ancora in giro a quest’ora». Traghetti e automobili cominciano a starnazzare con le loro voci elettroniche.
«Ho pensato la stessa cosa: dovresti essere nella tua bara da ore».
«Sono stato un po’ in giro, il mondo degli umani ha sempre quel fascino decadente che lo rende interessante e piacevole. Prendi quest’obelisco per esempio. Sapevi che è giunto dopo un viaggio burrascoso costellato di imprevisti? Prima la sabbia del deserto ha cercato di riprenderselo, inghiottendolo in una tomba preistorica, poi la nave che lo trasportava è affondata e quella che l’ha recuperato lo stava perdendo in mare una seconda volta: prima di giungere a Londra, si è preso la vita di sei operai. L’ottusa ostinazione degli umani è triste e affascinante allo stesso tempo».
«Gli umani sono pieni di fascino. E lo è anche vederli all’opera, tenaci e caparbi: pensa che stanotte mi sono trovata ad assistere a un intervento delle forze di sicurezza della City».
«Non mi dire».
«Qualcuno ha dato fuoco a una villa e gli inquilini sono morti: un ennesimo spreco di sangue».
Torno a rimirare il panorama. Il barrito di una nave scuote il silenzio a tal punto da far fuggire i piccioni appollaiati sui rami spogli e mosci.
«Io e te non abbiamo mai parlato molto» ricomincia.
«Sei la donna del Principe e io nutro verso di te la stessa reverenza che ho per lui».
Sorride e mi raggiunge al muretto del lungofiume. Indossa un pellicciotto che le arriva sino alle ginocchia ma, quando si appoggia, le sue cosce affusolate sbucano sensuali. «Conosci una ragazza di nome Ilisa McCarson?»
«Dovrei?» Mi giro verso di lei, dando la schiena alla City.
Gli occhi le si illuminano del rossore pallido che prima della Riappacificazione era un guizzo che presagiva l’uso del Potere. Non è felice della risposta.
«Ilisa? Capelli scuri, occhi chiari, una bella ragazza?»
«Lei».
«No, mai conosciuta né vista» sogghigno.
Gli occhi di Ecaterina si spengono nelle orbite scure. «Direi che la conosci».
Sospiro platealmente. «L’hai vista? Come sta?»
«Sta in rianimazione: abitava nella villa bruciata» dice scocciata.
«Mi spiace, lo ignoravo». Questi sono veri e propri miracoli. Dev’essere una ragazza forte, è raro nelle sue condizioni resistere con così poco sangue.
«Ha perso i genitori, è duro pensare a quanto soffrirà, adesso».
«Vedo che l’hai presa a cuore. Non sapevo avessi istinto materno!» Il mio sogghigno la incarognisce. «Andrò a consolarla all’ospedale: eravamo in buoni rapporti».
«Un gesto molto umano da parte tua. Troppo. Tu credi alle coincidenze?»
«Sì, assolutamente. Tutto è governato dal caso».
«Io no. Io credo che ci sia sempre un disegno dietro a ogni accadimento. Così ho scoperto che non è il primo decesso legato ai McCarson: qualche giorno fa sono morti due dipendenti dell’azienda del padre di Ilisa».
«Interessante» sbadiglio.
«Addirittura uno di questi, Peter Sourceton, è morto in casa, con la moglie, condividendo la stessa sorte del suo capo».
«Sempre più interessante. Sono cose che capitano: sai, con i camini, le case di legno piene di moquette e carta da parati…»
«Tu cosa c’entri in tutto questo casino?»
«Io cosa c’entro?»
«Cosa ci facevi a casa di Ilisa McCarson prima che bruciasse?»
«Ma io non ero a casa sua prima che bruciasse».
Ecaterina mi guarda pietosa. E lo sguardo pietoso di un predatore succhia-sangue è qualcosa di tanto insopportabile che la mente umana si rifiuterebbe di immaginarlo. Ho commesso qualche azzardo e mi conviene mostrare una realtà più docile.
«Hanno cominciato loro».
«Grazie per la sincerità Roger, abbiamo fatto un passo avanti. Non credi sia un atteggiamento infantile, dar la colpa agli altri?»
Fisso la bellezza di Ecaterina che svilisce al sole nascente. Fosse notte mi basterebbe sfruttare una briciola dei miei poteri per liberarmi della sua infida presenza; ora mi prenderebbe troppa fatica e mi attirerei addosso l’ira dell’intera Fratellanza. La verità, addomesticata, aiuta.
«Non è un gioco di bambini, è fisica sociale: a ogni azione corrisponde una reazione. Giudicare una reazione ignorando l’evento scatenante è un tipico errore umano».
«L’unica nota positiva dei cinque umani che hai ucciso nelle ultime settantadue ore è che hai avuto l’accortezza di far sparire le prove. Perché tanto odio, Roger?»
«L’odio fa parte della nostra vita, l’odio è il nostro istinto. Odio e invidia sono le molle che ci spingono ad agire. Ero in compagnia di Ilisa quando Daniel ha ordinato ai suoi tirapiedi di farmi fuori. Così Peter e il suo compare Boogs mi hanno scaraventato giù da un camion. Sulla M25».
«La tua reazione è comprensibile, la vendetta non era un sentimento che Freud ha inibito. Però… parlami della moglie di Peter: lei non ti aveva fatto nulla».
«Ero a casa di quel farabutto e me la sono trovata tra i piedi. Prima ho pensato che avrebbe potuto fare la spia, poi invece che non fosse carino lasciarla con la disperazione di aver perso il marito».
«Nobile premura la tua. Non l’avrai azzannata, per caso?» Lo dice con un certo disgusto.
«Azzannata? Non ricordo nemmeno come si fa».
«E dopo esserti vendicato di Peter hai pensato di saldare i conti con McCarson».
«Il rischio che ho corso andava lavato nel sangue. Mi hanno gettato in mezzo all’autostrada: se morivo, morivo davvero».
«Sì, capisco. È una paura che condivide con te ogni membro della Fratellanza. Ma era indispensabile uccidere anche la moglie di McCarson?»
«Sono un nobile franco-normanno: la faida è il modo più onesto per risolvere le divergenze».
«Hai privato Ilisa dei genitori».
«Da quando abbiamo a cuore le sorti dell’umanità?»
«Da quando coincidono con le nostre».
«Tu non credi in queste cose, Ecaterina. Tu sei una predatrice, come me. Ilisa McCarson doveva morire» confesso senza remore. «Ho commesso una leggerezza. Se ho davvero una colpa, è questa». Ometto che c’è un pazzo che mi cerca e che indossa una catenina abbastanza potente da darmi noia.
Ecaterina attende, il mio sfogo sembra averla scossa. «Dovrai rimediare alla tua leggerezza. Lei ti conosce e se aprissero un’inchiesta, potrebbero giungere a te. Sei stato imprudente, è probabile che i nostri amici al Direttorio possano intervenire ma sarebbe meglio se non dovessimo altri favori agli umani. Devi sistemare le cose».
Sospiro. «È un ordine?»
«È un consiglio Roger. Soltanto un consiglio». Si solleva dal muretto e si incammina lungo Victoria Embankment. «Roger, un’ultima cosa» si volta, i lunghi capelli biondi accarezzati dal vento, il volto sorridente. Se non fosse per il cupo bagliore incatenato negli occhi di Ecaterina, il nostro sembrerebbe l’addio di un film romantico. «Ovviamente tornerò a verificare che tu l’abbia seguito».
«Ovviamente» accenno a un inchino.
«Buon riposo Roger».
«Buon riposo Ecaterina, e porta i miei saluti al Principe».
Ecco, vai a farti coprire da quell’impotente di Ermete, puttana dai denti a sciabola.
2
«Alunna Pollard, è sul nostro pianeta?» Deborah fu svegliata dal professor Nowell, che la fissava con i gli occhi piccoli incastonati nella faccia grinzosa e piena di foruncoli. La classe esplose in una risata corale ma Deborah sentì soltanto quella di Linda Hamilton, che le trapanava le tempie.
«Saprebbe dirmi cosa ho appena spiegato?» Il volto di Nowell si contorse in una flaccida smorfia.
Deborah guardò il libro, aperto sulla prima pagina del capitolo da cui era iniziata la lezione; Padme, seduta accanto a lei, allungò l’indice sinistro sul proprio libro, al paragrafo corretto, tre pagine più avanti. La campanella del cambio d’ora suonò in quel momento e il professor Nowell perse tempo a inseguire le lancette del suo cipollotto. Deborah non disse altro che il titolo del capitolo e Nowell non proseguì con la tortura.
«Mi raccomando, studiate, perché domani potrei interrogare». Il professore raccolse il registro, la penna laser per le spiegazioni allo schermo parete e uscì con una rapidità impensabile per la sua mole.
«Ma dormivi sul serio?» Padme riprese l’amica, che sbadigliò.
«Non capisco, ho sonno e mi dà fastidio la luce».
Padme fece un sorriso sbarazzino. «Capisco io invece. Dopo che me ne sono andata io è arrivato Martin, non è così? Birichina».
«Alunne, in piedi» la bionda Linda Hamilton fece il suo mestiere di capoclasse e invitò le compagne a salutare Estrella Purple, l’insegnante di matematica: la donna, quarant’anni incarogniti dalla solitudine, entrò con un sorriso inconsueto che le invigliacchiva il volto spigoloso; i capelli a spazzola erano raggrumati dal gel e rendevano la testa ovoidale simile a una spugna marina inondata dai liquami di un naufragio.
«Potete sedere» la voce arcigna della professoressa fece rabbrividire la classe. La Purple abbandonò il registro sulla cattedra e andò alla finestra, dove si soffermò a guardare il piazzale della Saint George’s. «Care ragazze, stamattina vorrei proprio essere altrove» tornò alla cattedra sbadigliando, sedette accavallando le gambe e aprì il registro con un gesto secco, scrutando le alunne. Sorrise ancora e, con le dita sottili, afferrò gli occhiali rettangolari che teneva appesi a una catenella e li infilò con lenta precisione.
«Ci sono volontarie?»
La classe rumoreggiò ma quando la Purple riformulò la domanda ringhiando, il silenzio depositò uno strato di terrore. I secondi in cui nessuno osò fiatare parvero a Deborah ore intere. Lo schermo al gel sulla parete si illuminò e la professoressa vi proiettò un esercizio del libro elettronico.
Un’alunna prese il coraggio a due mani. «Professoressa, se non ricordo male ieri aveva detto che avrebbe spiegato».
«Ho davvero detto così, alunna Catterline?» Il volto della Purple si addolcì.
«Sì» confermò Cristine Catterline mentre la classe tirava un sospiro di sollievo. «Ci aveva detto che dopo le interrogazioni per il Rapportino Bimestrale avremmo proseguito con il programma».
«Ha perfettamente ragione» la Purple riaccavallò le gambe. «Però ho cambiato idea ieri sera, mentre rincasavo con la metropolitana. Alunna Catterline, venga alla lavagna visto che ha tanta voglia di parlare» ghignò.
Cristine deglutì e si irrigidì.
«Chiedo scusa, professoressa» Linda Hamilton si alzò in piedi per difendere la sua migliore amica.
«Che c’è, Linda, vuole uscire al suo posto?» La voce della Purple schioccò come una frustata.
«Verrei molto volentieri ma sia io che l’alunna Catterline abbiamo buoni voti in matematica».
«E quindi?» La Purple picchiettò con il fondo del pennino laser sulle pagine del registro.
«Quindi, a nome di tutta la classe, ho l’ardire di suggerirle che sarebbe più proficuo dedicare questa ora alle insufficienti per dar loro l’opportunità di recuperare i brutti voti, piuttosto che sprecarla con chi si è sempre impegnato. Io non ho bisogno di un altro ottimo voto mentre uno discreto potrebbe salvare chi aveva delle insufficienze». Il sorriso di Linda Hamilton aveva un’innocenza casta e diabolica che spezzò la classe come un’isola di pack dalla banchisa.
La Purple rimase a meditare e Cristine non si mosse, sperando che l’amica l’avesse salvata; nessuna delle compagne osò mettersi contro Linda o dare alla Purple un altro nome da aggiungere alla lista degli sfortunati volontari
.
«È un’ottima idea, brava Linda». Estrella Purple fece ghiacciare il sangue nelle vene di Deborah. «Concediamo un’opportunità a qualche insufficiente». La Purple scorse i voti, poi trovò la vittima da tormentare. «Alunna Pollard, lei è messa proprio male».
«Se sono messa male perché dovrei mettermi peggio?» La chiosa uscì a Deborah spontanea.
«Su, non faccia la spiritosa e venga alla lavagna».
Le carogne si intendono alla perfezione, pensò Deborah quando passò accanto al banco di Linda che le sorrise e alzò il pollice in cenno di incoraggiamento.
«Vai Debbie, siamo tutti con te, facci sognare» sussurrò la capoclasse.
«Vediamo…» La Purple sistemò gli occhiali gialli e passò le dita sugli esercizi del testo, che cominciarono a cambiare sulla video-lavagna. «Vediamo. No, questo no, troppo facile. Ha ripassato gli integrali, alunna Pollard?» domandò la Purple picchiettando con la penna ottica sulla cattedra.
«Ho fatto tutto ciò che ho potuto».
La Purple sfoggiò l’imperatore di tutti i biechi sorrisi. «Ottimo. Vediamo se è stato abbastanza». Scelse l’esercizio con il grado di difficoltà più alto e abilitò la tastiera tattile sul vetro dello schermo. «È tutto suo, ci stupisca. Mi raccomando, voi al posto fate l’esercizio, posso chiedere a chiunque di dare suggerimenti alla vostra collega qualora si trovasse in difficoltà».
Deborah guardò l’esercizio, un intreccio a lei incomprensibile di simboli e numeri che seguivano un odioso baffo; l’uguale al termine della formula lampeggiava con insistenza.
«Forza alunna Pollard, come cominciamo?»
Deborah si voltò verso le compagne e vide gli occhi disperati di Padme. Pensò a lei con tale intensità che le parve di sentirne la voce, un mormorio sommesso nella stanza offuscata dal silenzio.
«Alunna Pollard?» La voce della Purple perforò i timpani di Deborah e la ragazza avvicinò il polpastrello alla lavagna. Scrisse la prima parte dell’integrale, ascoltando il suggerimento che percepiva nei pensieri di Padme.
«Bene alunna Pollard, ci abbiamo messo un po’ ma ce l’abbiamo fatta. Proseguiamo?»
Deborah si concentrò ancora sull’amica e attese in silenzio che completasse la sua parte di esercizio, poi partì a sua volta.
«Forza alunna Pollard, che ci arriviamo in fondo».
Padme cominciò con l’ultima riga, poi si fermò a metà dello svolgimento. Rimase pensierosa e non si decise a terminare l’ultimo passaggio.
«Aspettiamo l’ispirazione divina?» La Purple sogghignò.
Dai Padme, dai, per favore! Deborah rimase a guardare la formula ma si concentrò sull’amica, trasformando la supplica in un vago pensiero.
Padme completò la riga dell’esercizio; Deborah fece altrettanto alla lavagna.
«C’è una cosa che non va» commentò la Purple, soddisfatta dall’errore.
Padme guardò ciò che aveva scritto e fece una piccola correzione, Deborah la imitò.
«Bene alunna Pollard, basta così: vedo con infinito piacere che ha studiato. Ci ha messo un po’ a dimostrarlo, come se avesse atteso davvero un’ispirazione divina, ma alla fine c’è riuscita. Vada al posto: sette. Vediamo i vecchi voti. Quattro, cinque, quattro e mezzo, certo che è davvero una boccata d’aria con questa sfilza di insufficienze» commentò quasi quel successo spettasse a lei, come insegnante. «Continui così, alunna Pollard, è tornata sulla retta via. E ringrazi Linda che le ha dato l’opportunità di eccellere».
Deborah rispose con il sorriso meno ipocrita che riuscì a confezionare e tornò al posto. Non appena si sedette, Padme si scostò, preoccupata.
«Allora, che ne dici?» domandò Deborah con malizia.
Padme deglutì. «Sei stata brava. Molto per una che non ha studiato. Troppo».
***
Timothy Pollard si svegliò di soprassalto, sudato. Ansimò, provato dalla fuga da un’ombra che cercava di invischiarlo nelle sue spire di fuoco. Sentì un prurito al braccio ma dopo aver riconosciuto le quattro pareti bianche e il soffitto color crema evitò di grattarsi.
Una bella stanza d’ospedale era quello che mi mancava: speriamo che non addebitino sul mio profilo il ricovero.
Provò a rialzarsi ma si scoprì tanto stanco da trovare doloroso anche azzardare di mettersi seduto. A sinistra vide la flebo e il tubicino di gomma che gli si infilava nel braccio. Impugnò il telecomando nero appeso all’alzamalati infisso nella testata, muovendo una mano destra che sembrava di piombo, e pigiò sul pulsante accanto all’icona del letto messo a L. Il motore elettrico iniziò un fastidioso ronzio e lo schienale si alzò: Timothy si ritrovò seduto e non vide i macchinari che temeva, soltanto una flebo.
Sul telecomando c’era l’icona stilizzata di una donna e Pollard premette il pulsante tre volte. Aspettò, indeciso se insistere o meno, poi un’infermiera entrò dalla porta, facendo tremare le tendine di plastica.
«Buongiorno, si trova al Lister Hospital di Chelsea. Io sono l’infermiera specializzata Margareth Collins. Come si sente?» chiese la donna, una bionda dalle labbra carnose e un naso sgraziato.
«Non lo so, se lo sapessi sarei un dottore. Come sto?»
Margareth indossava la divisa della Pubblica Sanità, un camice azzurro sopra pantaloni del medesimo colore. La foto sul cartellino la mostrava sorridente ma l’infermiera fece una smorfia e rinunciò