Nemmeno sul letto di morte
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About this ebook
È la vita di Carmela, una donna che amava il prossimo e la vita ma che è stata privata di tanto amore. Tra questi amori, quello per il proprio nipote, mai conosciuto, per esserle stato sempre negato. Vendetta, stupido possesso. Persino le leggi per la tutela dei diritti dei nonni furono troppo fragili di fronte alla prepotenza di chi glielo nego'. Cesare entra in questa storia in punta di piedi, partendo da un racconto colorato, quasi fiabesco fatto di dolci ricordi che pian piano si incatenano agli eventi non sempre generosi dell’esistenza. La presunzione degli uomini, di pensare che le cose capitino sempre agli altri, Cesare la spoglia fino a lasciarla nuda. Una storia vera e dolorosa di nonni negati.
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Nemmeno sul letto di morte - Cesare Colonnese
Fratello.
INTRODUZIONE
Sono una donna come tante, una moglie, una madre, una nonna.
Questo libro contiene tutto quel che avrei voluto raccontare e lo ha scritto mio figlio per me. Racconta la triste storia di due nonni ai quali è stato negato il nipote per tutta la vita.
Senza un motivo apparente, ma solo per vendetta, per cattiveria. La cattiveria umana qualche volta non conosce confini.
Giulio è colui col quale ho avuto un rapporto stretto per tutta la vita. Ecco perché ha potuto trasformare i miei pensieri in parole. Lo ha fatto affinché la gente sappia realmente come sono andate le cose e perché tutti i nonni italiani vengano rispettati e riconosciuti.
Un bambino che viene al mondo ha sempre quattro nonni, e i nonni hanno il diritto di portare il proprio nipote sulle ginocchia come il bimbo ha diritto di sentire il profumo della loro acqua di colonia.
Non vi sono giustificazioni quando qualcuno impedisce a due nonni di vivere l’infanzia del proprio nipote, non ci sono motivi che possano impedire un legame così importante per la vita di un uomo.
Consiglio a tutti i nonni negati di armarsi di questo libro, di pazienza, documenti, prove e andare ovunque, anche in televisione se sarà necessario per far conoscere i torti subìti e per raccontare ai propri nipoti la verità.
Io non ce l’ho fatta, non ci sono riuscita, perché la mia malattia è arrivata nel momento sbagliato e mi ha privato dell’arma più potente per poter vincere una battaglia: la parola. Di questa mia malattia, qualcuno se ne è approfittato e l’ha usata contro di me per tutta la mia esistenza, sapendo che io non avrei potuto parlare, difendermi, difendere i miei diritti di nonna.
Ora che sono altrove, lontana, quassù dove tutto ha un aspetto diverso, dove non vi sono lacrime né sofferenze e si perdona, sono accanto a mio nipote, veglio su di lui prima che si addormenti.
Oggi nessuno me lo può negare, come nessuno può negarmi di raccontare la verità. La mia, certo, come per anni la verità per quel povero ragazzo è stata quella che han voluto gli altri che lo hanno indottrinato male, insegnandogli che suo padre era un delinquente e la famiglia di suo padre composta da pochi di buono.
Molte persone sono a conoscenza di questa storia nella nostra città, molti testimoni silenziosi ricorderanno leggendo le mie parole tutto quello che ho passato per anni, tutto quello che mio marito ed io abbiamo dovuto sopportare. Purtroppo nel nostro paese queste cose accadono spesso, troppo spesso e molte persone soffrono, ingoiando lacrime di malinconia per anni e anni dinanzi al tacito assenso di chi queste situazioni non le conosce bene.
Oggi, quando tutti pensavano di averla fatta franca, racconto come sono andate le cose e mi auguro che mio nipote legga attentamente questo scritto e capisca che un uomo che nella vita ha dei dubbi, debba scavare anche con le mani pur di giungere a conoscenza della verità, delle proprie radici e pur di avere delle certezze.
CAPITOLO 1 - La giovinezza
Era il 18 giugno del 1958 quando a Venezia incontrai Lorenzo.
Era un bel giovane, moro dai tratti mediterranei. Era taciturno, non parlava molto. Un ragazzo vagamente malinconico dagli occhi neri e con un bel sorriso incorniciati da un ciuffo un pochino ribelle.
Io una ragazza come tante altre, col mio vestitino a ruota ed i capelli corvino non troppo lunghi. Parlavo molto, la nostra era una famiglia numerosa e non vi era mai momento di stare soli, tempo per rimanere in silenzio, o forse perché il mio indole era quello di essere una chiacchierona.
Anche a scuola mi rimproveravano e mi chiedevano spesso cosa avessi da raccontare. Ho scoperto col tempo che tutti mi vedevano molto bella ed io non sapevo di essere così apprezzata. A me interessava solo della mia famiglia, di mio marito e dei miei figli, di come crescevano. Ero una donna semplice e allo stesso tempo un po’ ambiziosa, ma modesta e umile nella mia contraddizione.
Gioivo di più nel vedere i miei bambini ben vestiti che riflettendomi allo specchio con un abito elegante. Ciò non toglie che dedicavo spesso il tempo necessario per laccare perfettamente le mie unghie, convinta del fatto che le mani fossero un po’ il biglietto da visita della persona. Una ragazza venuta al nord dal sud dell’Italia quando la mia famiglia decise di trasferirsi in laguna per far sì che mio padre suonasse nella Banda Municipale della città.
In quegli anni, la domenica sera Piazza San Marco si trasformava in un immenso Teatro dove al centro sostava la banda, un’orchestra composta di decine e decine di suonatori che toccando strumenti diversi producevano melodie meravigliose.
Era una poesia che si mescolava al suono intransigente delle campane della marangona
, la campana più imponente della città e al chiacchierio della gente che si fermava affascinata da tanta bellezza. Venezia e il suo fascino. Una città adagiata sulla laguna, coi suoi quartieri chiamati sestieri, le sue piazze chiamate campi e le sue minuscole stradine chiamate calli. Quanto Amore tengo ancora nel cuore al ricordo di quelle grate dinanzi alle finestre dei piani bassi, a quel muro scrostato, alla voce perentoria dei gondolieri, a quell’ odore penetrante delle alghe che contraddistinsero i miei giorni. Amo Venezia, la amerò per sempre.
Fu in una lunga calle del sestiere di Cannaregio che trascorsi molti anni della mia vita. Abitavamo al sesto piano di questo antico palazzone sul quale batteva il sole da mattino a sera e dove grosse tende a righe che portavano un po’ di ombra, bruciavano sotto le torride estati cuocenti.
Io e le mie sorelle ci affacciavamo alle finestre per ore.
Guardavamo la gente passare e tenevamo d’occhio nostro fratello quando giocava nel grande cortile delle suore, proprio sotto i nostri balconi. Mentre mia sorella con le unghie mezze morsicate grattava via pezzetti di vernice verde dagli scuri bollenti gettandoli giù e sporgendosi un po’ per vederli arrivare fino a terra, io mi arrabbiavo perché avevo il terrore che potesse scivolare ed il solo pensiero mi faceva agitare.
Era un immenso caseggiato rosso scuro mezzo scrostato dall’umidità e dal tempo. Da quel balcone all’ora di merenda gli gettavamo un panino farcito col cioccolato o la mortadella che mia madre preparava e avvolgeva in un tovagliolo di carta e che lui, puntualmente non voleva salire a prendere. Era troppo indaffarato a sbucciarsi le ginocchia e giocare a calcio come uno scalmanato e quando rientrava tutto sudato e sporco mia madre lo sgridava, mentre lui ridendo correva in bagno a lavarsi. Domani non ci andrai diceva mia madre. Si che ci andrò rispondeva mio fratello. Vinceva sempre lui e il giorno dopo tornava a giocare.
Furono anni bellissimi che trascorsero velocemente mentre noi crescevamo e diventavamo signorine.
Io mi chiamo Carmela anche se tutti mi chiamano Eros, e sono nata il 20 luglio del 1939.
Eravamo sette figli, una famiglia numerosa. La più grande era Maria (che io chiamavo Maruzzella in dialetto napoletano) la sorella più composta, ben pettinata, con l’aspetto di una mamma. Presto si sposò e rimase a Serino poco distante da Avellino, un posto meraviglioso tra le colline Irpine, dove la fragranza invadente della legna dei camini mescolata all’odore di lavanda si insinuava nella biancheria che si stipava negli armadi.
Così, ogni volta che lei preparava una valigia per venire al Nord, ci infilava involontariamente il profumo di quei posti meravigliosi. Ci avvisava prima di partire, prima di salire in quegli scompartimenti maleodoranti e pieni di fumo di seconda classe. Erano quei lunghi treni espresso che fermavano per ore alla stazione di Firenze e Bologna. Il treno partiva alle otto di sera da Napoli campi Flegrei e giungeva a Venezia la mattina dopo. Così lei scendeva dal treno esausta, dodici ore più tardi con le caviglie gonfie per la stanchezza.
Spesso non si trovava posto, e se si trovava, la sola speranza era di avere di fronte il sedile libero e di poter distendere le gambe prima di chiudere la tenda e spegnere la luce con la speranza di dormire un po’. Quando arrivava Maria mi batteva forte il cuore, la baciavo, la guardavo, le andavo dietro dappertutto, mi intrufolavo in camera e annusavo a pieni polmoni nella sua valigia. Era come annusare nei ricordi di quando ero bambina e, solo un odore così intenso riusciva in un attimo a farmi rivivere quei momenti di infanzia che avevo dimenticato un po’. Serino era a mezz’ora da Napoli e lì ero nata io, lì dove fan la pizza buona, dove il marito di mia sorella aveva una catena di macellerie ed era il magico luogo dove tutti noi avevamo mosso i primi passi.
L’Italia non era ricca in quegli anni, vi era stata la guerra, c’era bisogno di ricominciare, ma dopo aver superato anni così difficili, bombardamenti e distruzioni a noi tutto sommato non era andata così male.
Antonio e Lucia erano i miei genitori. Pietro era mio fratello più vecchio (come lo appellavo io per farlo arrabbiare) che nella vita diventò un direttore d’orchestra e insegnante al conservatorio di Venezia.
Eva faceva la sarta, Giacomo suonava la tromba nella banda municipale di Venezia (dove aveva vinto un concorso), Paolo, il mio fratello più silenzioso divenne professore di musica alle scuole medie.
Non parlava mai, ma quando parlava era come se emettesse una sentenza. In compenso parlava Virginia la più piccola che faceva l’alternativa studiando non si capiva ben cosa, ma che ben presto con la sua stenografia divenne una segretaria coi fiocchi presso la sede del Comune a Rialto.
Poi c’ero io che come Eva avevo imparato a cucire dai Vianello, una vecchia sartoria veneziana a conduzione familiare, dove imparai a fare abiti, riparazioni, abiti da sposa, vestiti eleganti da sera ricoperti di paillettes colorate. Mi piaceva cucire, i Vianello mi volevano bene, mi trattavano come fossi una di famiglia e con loro mi sentivo a casa.
Con mia sorella Eva (la bella della famiglia dalla quale imparai molte cose) il pomeriggio di festa andavamo a braccetto per le mercerie fino ad arrivare a Piazza San Marco, dove qualche gondoliere con la sigaretta in bocca, approfittando dei nostri abiti a ruota e vita stretta, ci riempiva di complimenti e sguardi commentando sul nostro portamento e la nostra figura. Eravamo racchiuse in bustini strettissimi, io vestivo lei e lei vestiva me obbligandomi a non respirare.
La notte spesso rimanevo su a cucire, in una stanza semibuia con mia sorella e non facevamo altro che sfornare nuovi modelli fatti con scampoli colorati di poco prezzo. Una catena di montaggio, sembrava