Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Un sorriso a dodici stelle
Un sorriso a dodici stelle
Un sorriso a dodici stelle
Ebook374 pages6 hours

Un sorriso a dodici stelle

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Quasi tutto si può rimediare nella vita; ma non avere rinunciato al tentativo di realizzare un Sogno.

Un Sogno, come l’Amore, non conosce mezze misure. O tutto, o niente.

Riccardo aveva un Sogno; l’Europa. La sua Europa.

Dare tutto significa rimanere con niente. Così rimase Riccardo. Solo, con il suo Sogno Europa nello zaino, le tasche piene di sorrisi, di stelle. Lasciò il lavoro, gli amici, un amore, quando, una sera d’Estate, sentì il suo Viandante interiore passargli dentro. Stregato da quel vento magico che gli parlava di Lei; lo seguì. Quattro anni e lingue imparate: Inglese, Spagnolo, Francese e Tedesco. Lavori duri, umiliazioni, ma anche grinta, gioia di vivere. Lavorare a un Sogno è impegnativo si rischia di non invecchiare, perché trasforma il tempo in sentimenti, in emozioni, che non invecchiano, non muoiono; mai.

Un Sorriso illumina l’ossimoro occidentale Beethoven/Shoah. I dubbi sono le risposte, il vuoto dove costruire ponti; non muri.

Nel volto dell’Altro, svelato dalle parole dei Muti, dalla Luce dei Ciechi, dai suoni dei Sordi, nei volti del povero, emarginato, non smartofizzato, digitally divided, emigrato, si riflette un’unica certezza; la sua Europa, la tua Europa.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateDec 6, 2018
ISBN9788827859568
Un sorriso a dodici stelle

Related to Un sorriso a dodici stelle

Related ebooks

General Fiction For You

View More

Related articles

Reviews for Un sorriso a dodici stelle

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Un sorriso a dodici stelle - Stefano Innocenti

    Indice

    Introduzione

    1 Non so ancora perché, non so ancora per cosa, eccomi…

    L’Inghilterra – Il risveglio di Eros. Le radici di Altrincham.

    L’amicizia con Alexis.

    La Vitalità di Eros.

    Un delicato fiore nordico.

    La Spagna – La lava e il caos delle passioni.

    La Francia – Chantal, i dubbi, le armi e gli umani.

    Chantal.

    La cena di adescamento.

    Le armi e gli umani.

    La Germania – L’Ossimoro Beethoven/Shoah - Siamo tutti Tedeschi, e non Tedeschi...

    2 Trent’anni dopo. So perché, so per cosa, eccomi…

    3 Mary.

    4 Ma chi è questa sentinella? A chi fa la guardia? E per conto di chi?

    5 La miseria della Finanza. Le due (?) Italie.

    6 Riflessione sulla prima guerra mondiale.

    7 Nessun merito può guadagnare l’Amore.

    8 Le Cooperative Sociali, i Lupi, la Biosfera del Potere…

    9 Dove sei? Come sei? Con chi sei, Europa?

    10 I Fotoni dell’Amore si cercano, s’incontrano, anche nei pub...

    11 L’ossimoro rischia di implodere… ancora Europa.

    12 Ancora un ritorno da Inghilterra, Francia e Germania, ancora un abbraccio alla mia… Europa.

    13 Perché ti amo così tanto, o dolce fanciulla?

    14 Il Sorriso di Europa, il Sorriso della Speranza…

    15 L’Economia, la Politica, la Cultura, la Religione, tutte hanno fallito… Cosa ci rimane?

    16 Solo l’Amore osa parlare al Buio, osa entrare nel Buio…

    17 I perché si parlano.

    18 Ancora Amore, ancora Europa.

    19 In fondo all’Assurdo ricomincio dall’Amore, dall’Europa, da un sorriso; quel Sorriso…

    20 Un sorriso gentile, che ascolta...

    21 Il buio della non-Luce mi ha preso per i piedi… ma Europa, con Mary, mi è accanto.

    22 Ripartire, il gioco dell’Oca continua…

    23 Una nuova Fragranza di Umano.

    24 L’Isola del Cuore, l’Isola che c’è.

    25 Il Viandante; un Cuore nuovo.

    26 Mille parole…

    Stefano Innocenti

    Un Sorriso a Dodici Stelle

    Una Nuova Fragranza di Umano

    Youcanprint Self-Publishing

    Un Sorriso a Dodici Stelle – Una Nuova Fragranza di Umano

    © 2018 - Stefano Innocenti

    ISBN | 9788827859568

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il

    preventivo assenso dell’Autore.

    Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti

    è puramente casuale

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Marco Biagi 6, 73100 Lecce

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    Introduzione

    Le parole, tenute a sgocciolare nella Vita dalla loro ombra, scivolano dagli occhi; come la gioia di vivere dal sorriso di Riccardo; quel Sorriso. Le parole, oltre a parlarci ci ascoltano. Ascoltano i nostri pensieri, le nostre emozioni, mentre le scorriamo, entrando nel magico girotondo di ciò che siamo e di quello che vorremmo e potremmo essere. Le parole sono porte e finestre nella casa del nostro divenire; le apriamo, c’entriamo, ci affacciamo dal nostro sguardo sul mondo, sull’Altro. A volte sono spalancate, a volte si deve bussare, a volte sono chiuse a lucchetto… La scoperta dell’Altro attraverso lo studio delle lingue e nei percorsi del Femminile, fra le braccia del Femminile… La fatica costante alla ricerca di una comunicazione, dove le parole non bastano. O sono troppo corte, o sono troppo lunghe. O sono troppo dure, o troppo morbide. O sono troppo ricercate, o troppo semplici. Paradosso e Ossimoro, anni sui libri per scoprire l’Altro prima e dopo le parole; perché l’Altro è, prima e dopo le parole. Ogni lingua appresa è come un velo, che scende, che cala lentamente dal volto dell’Altro, fino a rivelarcelo. Ogni lingua una mappa per la ricerca del Tesoro; noi nell’Altro, e l’ Altro in noi. La ricerca di quel luogo d’incontro di Sorrisi, dove l’Umano incontra l’ Umano, lo ri-conosce; quell’ Umanità che ti dice chi sei.

    Nel volto dell’Altro, povero, emarginato, non smartofizzato, Digitally Divided, …emigrato, si riflette un’unica certezza; la sua Europa.

    Soffre quando ne parlano male; come succede con la fidanzata. Si rattrista; quando il sogno Europa si sfuma su distanze che sembrano incolmabili. Ma ci si aggrappa, quando le vertigini dell’Ossimoro Beethoven/Shoah si scatenano nella nostra Notte Occidentale. Quando il vento malefico dei populismi, solleva le ceneri di Auschwitz, dicendo che è solo polvere… Quando solo la luce a Led del denaro ci specchia l’Anima; si specchia nell’Anima. Quando il gioco tenebroso della Finanza diventa l’unico palcoscenico del reale. Un reale compressore, che schiaccia esseri umani, culture, natura, sistemi antichi mille anni, per farne un lastricato d’oro; dove il Grano non cresce.

    L’Autore ha vissuto il romanzo della sua vita; ha romanzato le parole per descriverlo in questa Autobiografia Filosofica, dove il vissuto ed il sognato si sono sovente incontrati, per procedere, mano nella mano, verso il loro divenire. Senza necessariamente lavorare con l’Alchimia delle parole, senza necessariamente ricercare l’assemblaggio delle emozioni, i sogni di Riccardo, in particolare uno, l’ Europa, sono il reale che ha dato sostanza alla sua Vita. I sogni hanno avuto gambe e braccia, per abbracciare il volto della Vita; anche con le sue sofferenze e dolori. Il risveglio solo per, nel, percepire la distanza fra il vissuto del sognato ed il sognato ancora da vivere.

    Riccardo non ha le sue Idee; Riccardo è, le sue Idee.

    Dopo più di trent’anni, il suo Sogno Europa è sempre lì. Il Viandante interiore lo chiama di nuovo. Riparte con trent’anni in più sulle spalle, oltre alla famiglia e tre figli. Ma il sogno, come la Luce di un sorriso, quel Sorriso, non è invecchiato. Le password Europa, Pace, Giustizia Sociale, difesa dei Poveri, Amore… riaprono il sistema operativo dell’Umano; il Sogno. Riccardo ci crede ancora, lo segue; incontra la sua Notte.

    Nel suo Buio, l’Amore e l’Europa gli terranno la mano, ma solo l’Amore potrà, saprà entrarci, per parlare al Buio, alla non-Luce. Per dire al Filosofo di cercare il Poeta, e dirgli di fare della sua Sensibilità e Fragilità un’Alchimia di Futuro. Per dire al Poeta di prendere, dalle mani del Filosofo, le sue briciole di Verità, e farne sementa di Speranza. Per dire a entrambi di ricercare il Mago, affinché queste Fragili Verità diventino una Rosa profumata; l’Europa. Per guidarci, con la sua nuova Fragranza di Umano, oltre i muri della nostra Notte Occidentale.

    1

    Non so ancora perché,

    non so ancora per cosa, eccomi…

    L’Inghilterra – Il risveglio di Eros. Le radici di Altrincham.

    Un sorriso era la prima cosa che arrivava, nei luoghi e negli sguardi che visitavo, era il mio biglietto da visita, nei luoghi e negli sguardi che lasciavo. Tutto chiedeva declinazione al mio sorriso; tutte le rotte tracciavano un sorriso, quel Sorriso.

    Quel giorno, in camera, seduto su una cassa dello stereo, un po’ intontito dalle iniezioni e dalla litania delle cicale aggrappate alle acacie, mentre guardavo le valigie fatte che mi osservavano... pensavo a come mitigare, con un sorriso, la sofferenza della mamma e del babbo. Lei intenta a rigovernare, con lo sguardo affossato nell’acquaio, lui in canottiera, gli occhi steccati al fondo della finestra grande, quella che portava sul terrazzino. La nazionale senza filtro penzoloni e di traverso, incaricata di giustificare gli occhi lucidi. Già, come rendere sorriso il distacco, l’abbandono della famiglia, del lavoro, degli affetti, del territorio? Con che perspicacia, audacia, o faccia tosta poteva un sorriso dare legittimità alla rinuncia alle certezze, realizzate e conquistate con anni di sacrifici, di passione? Quale profondità esplorare per dire il senza parole? Quale senso dare a un sorriso, quando ai loro cuori parlava solo il non senso? Quale vibrazione poteva catturare quegli sguardi, persi e increduli?

    Nella camera, sparsi qua e là, c’erano ancora dei giochini di Silvia, la nipotina di un anno; li guardai con un sorriso.

    Indossavo jeans leggermente sbiancati, stivaletti neri e camicia bianca, bagnata sul colletto per lo sgocciolare dei riccioli.

    Mi alzai, lentamente, per le fitte al fegato, una colica, proprio due giorni prima di partire, di probabile origine psico, ma di effetto molto somatico… attraversai il corridoio, entrai in cucina, quella cucina. Foderata di odore di soffritto, del morbido profumo del latte con il caffè d’orzo e il pane abbrustolito inzuppato per colazione. Dell’arrosto misto della domenica a pranzo, coniglio, pollo e patate; del profumo vaporoso del lesso della domenica sera, con peperoncini verdi sottaceto e le patate lesse di contorno. Quella cucina, teatro e arena di un divenire difficile, luogo di problemi irrisolti, risposte sbagliate, incomprensioni seminate e coltivate dall’ignoranza.

    Cuore della casa, ma non casa del cuore.

    Padre Antonio sarebbe arrivato entro mezz’ora, per accompagnarmi a Firenze, alla stazione.

    Mi sedetti di lato al tavolo, dall’altro era seduto il mio babbo, la mamma asciugava i piatti, le cicale infastidivano ancora il silenzio. «Ma i che ti manca?» esordì il babbo con la voce rotta dall’emozione e camuffata dal fumo. «T’ha la tu attività, tu guadagni bene, se tu vò cambià lavoro tu l’o po’ fare, o un tunn’ ha preso apposta i diploma di ragioniere? Ma i che tu cerchi?»

    La mamma taceva, asciugando sempre gli stessi piatti di prima.

    Il sorriso era ancora in cantiere, il suo compito si stava facendo sempre più arduo. «Viola, digli quarcosa anche te!». La mamma rallentò nello strofinare i piatti, si girò verso di me, mi guardò lentamente, avvicinò il suo sguardo al mio, lo avvolse di accettazione; ricominciò ad asciugare i piatti già asciutti. Mamma inedita, poco incline alle tenerezze, quel momento, tolse motore al Sorriso.

    «Ma poi, icchè tucci và a fare in un posto indo un c'hanno nemmeno i vino?» un colpo di tosse lo fece traballare, più del solito…

    Il silenzio, spezzettato dall’andirivieni delle cicale, attendeva la mano del sorriso, per farsi accompagnare alla porta dei loro cuori.

    «Mamma…» dissi, lei si voltò. «Lo so che non potete capire, forse non lo capisco bene nemmeno io del tutto, ma devo andare…»

    Posò il piatto, si asciugò le mani già asciutte al grembiule legato in vita a metà. «Lo so, tussè sempre stato diverso, lo so, diverso da tutti quell’altri» gli altri erano i miei fratelli e sorelle, due fratelli, uno più grande e uno più piccolo, due sorelle, una più grande e una più piccola, io ero nel mezzo.

    Quando padre Antonio suonò alla porta, il babbo era in bagno, la mamma si era affacciata al terrazzino per guardare da qualche parte. Io, Riccardo, mi alzai, presi le valigie, contornai di un ultimo sguardo la mia camera, quella camera. Con le pareti isolate con pannelli di sughero, e il soffitto con il polistirolo, dove, senza saperlo, avevo lasciato la musica lavorarmi ai fianchi. Dylan, Paul Simon, John Baez, Bennato, le Orme, Branduardi, Cocciante, Battisti, Baglioni, la Premiata Forneria Marconi, Guccini, i Nomadi. Beethoven, Mozart, Vivaldi, Stravinsky, Chopin. I miei amici non avevano mai capito come potevo passare delle domeniche pomeriggio al Comunale di Firenze, ad ascoltare quelle lagne… Per me, la musica è la vita, i libri il mondo dove riviverla e farla risuonare. La musica non si sente, si ascolta, si ri-ascolta, toglie le incrostazioni del vissuto e culla un divenire nuovo, già presente in noi, solo in attesa di essere liberato da un sorriso… Lasciavo i miei dischi, le casse KEF comprate a rate prima del piatto e dell’amplificatore… Lasciavo la materia, ma l’anima e i colori che l’anima aveva dipinto me li portavo via con me; o era lei, che mi stava portando via, per farmi incontrare con il mio demone?

    Padre Antonio stava parlando con i miei genitori, il babbo piangeva, la mamma no. Seduta con le mani intrecciate sulle ginocchia mi guardava.

    «Ciao babbo, un fare arrabbiare troppo mamma, un ti preoccupare per me…» lo abbracciai, sentii l’odore oleoso della nicotina misto al sudore, la barba mi punse, ancora di più le lacrime. Le ossa tremolanti mi consegnarono un abbraccio sincero, il babbo non riuscì a dire niente. Fu il nostro ultimo abbraccio, non ci saremmo mai più rivisti.

    «Ciao mamma, vi chiamo, credo non prima di dopodomani, devo ancora capire a che ora arriverò.»

    «Un ti preoccupare, sta’ attento e comportati bene… se tussè contento così va bene anche per me…» era un suo modo, semplice come la sua origine e il suo cuore, per dirmi che accettava anche questa. Non la capiva, ma sapeva che nella specificità/diversità poteva starci anche questo.

    Sulla soglia di casa mi voltai verso di loro, le cicale erano in pausa, il babbo seduto con le mani sulla faccia, la mamma, ora in piedi, con le mani conserte mi guardava.

    Quel Sorriso arrivò; gonfio come il cuore, confuso come i sentimenti, teso come il conflitto ma intenso, magico, colmo di luce e misterioso come il taglio del cordone ombelicale. Ventiquattro anni prima me lo avevano tagliato, per consegnarmi dal nascere al vivere. Oggi avevo io le forbici in mano, per consegnarmi al mio divenire, al mio destino, al mio demone, lasciando la bocca dello stomaco pronunciare il mio . Non so ancora perché, non so ancora per cosa, non so ancora per quanto; eccomi.

    Lo zaino militare tinto di nero, la valigia di finta pelle marrone e uno zainetto azzurro Italia con qualcosa da mangiare, posti sopra la testa nello scompartimento del vagone, erano tutto quello che avevo, tutto quello che mi rimaneva; la dote per la mia amata.

    Il fischio del capotreno animò i vagoni, le colonnine di marmo laterali iniziarono a spostarsi lentamente indietro, la vita, la mia nuova vita, si spostava in avanti, come braccia che liberano e braccia che accolgono. Lontano dall’Italia, lontano dalla mia bella Toscana, lontano dalle certezze ma con le tasche piene di sorrisi e di stelle. Il sorriso del primo incontro, che l’accoglie prima che Lei arrivi. Che la va a cercare sul percorso che sta facendo per venire all’appuntamento. Il primo sorriso della mia nuova vita era per Lei, una creatura speciale. Una nuova dimensione del cuore, dell’anima e della mente, una visione dell’Umanità, per l’Umanità, il Sorriso dell’Umanità, un sogno, un progetto.

    Eccomi!

    Verso Torino, il sorriso si era arreso a una smorfia di dolore, ogni respiro era gemellato con la sua pena. Una signora, una bella signora, seduta di fronte, mi chiese se stessi bene. «Insomma, ho un po’ di dolore al fianco…»

    «Dove esattamente?» continuò lei con fare professionale. «Sono un medico.»

    «Qui, sotto il costato, quando respiro…»

    La bella signora chiese ai due passeggeri accanto a me se potevano spostarsi, mi fece distendere e iniziò a premere su più punti. «Lei dovrebbe interrompere il viaggio… crisi epatica» questa fu la diagnosi.

    Le scelte, quando sono forti e sentite, non possono non avere un carico di drammaticità, e forse un pizzico di follia. Non ci pensavo affatto a interrompere il viaggio, semmai sarebbe stato il viaggio a interrompermi... se questo era il mio destino. Caparbietà, incoscienza giovanile, sfida alla sorte, scommessa sulla vita? Investimento sulla vita? Tutto poteva essere, e nel tutto aleggiava il volto di Lei, ne percepivo le sfumature, i contorni del suo volto senza confini, il profumo dei suoi passi senza frontiere, una nuova epistemologia dell’umano sentire e fondare la sua umanità; senza esattamente sapere come, e perché…

    Nei lunghi cammini, i primi e gli ultimi passi sono sempre i più difficili, e anche quelli più vicini al mistero che li lega, che li muove…

    Ci imbarcammo che era mattino, il tragitto in mare sarebbe stato breve. Salii sul ponte, il traghetto si annunciò al mare, sospinse via la terra e mi portò in mezzo ai gabbiani. Ne cercai uno, quello che secondo me assomigliava di più a Jonathan. Mi aveva fatto volare in alto, dove si possono vedere meglio le cose, con più chiarezza; da lì si può tentare di scendere più profondi, alla ricerca di un nutrimento migliore. Salire costa fatica, ma la vita è fatica, salire ti allontana dal branco, ma la vita è lontananza da tutto ciò che ferma la vita. Salire ti brucia le certezze dei punti fermi, ma vivere è un incerto divenire. Salire ti affida ai venti forti, dove le ali non sempre riescono a imprimere la direzione voluta. Ma la vita è vento forte, che ti fa scendere quando vuoi salire e salire quando vorresti scendere. È vento forte, che ti fa albergare dove pensavi di non passare, e ti fa solo passare dove pensavi di aver costruito la tua dimora. Salire ti porta più vicino alla luce, e gli occhi si socchiudono. Solo la luce sfidata può essere donata. Non si può donare ciò che non si ha, non si può donare ciò che non si è. Il vento giocava con le guance e i capelli, ricci, folti, sorridenti, la gioia del vivere mi strabordava dalle tasche dei jeans… stelle e sorrisi volavano come i pensieri, che si scioglievano nella pienezza del momento come acqua nell’acqua.

    Mi alzai, camminai verso prua, sporsi le mani al vento e al mare, sommessamente, senza farmi notare, un po’ come facevo qualche volta alla messa durante la recita del Padre Nostro. Arrivò, decisa e continua, se dalle mani al corpo o viceversa, era difficile dirlo. Un flusso di qualcosa passava dentro, arrivava al respiro e lo fermava per un attimo, un flusso di corrente senza scossa che si scaricava da qualche parte… nella mente, nel cuore, nell’anima? Daydreaming, energia, esaltazione, suggestione? Boh…

    Arrivai a Chester nel tardo pomeriggio, dopo avere sbagliato tre volte la direzione nella metro di Londra… quando tentavo di chiedere informazioni, in quello che pensavo fosse inglese, l’unica cosa che ricevevo era una gentile alzata di spalle. Un punk, con cresta alta trenta centimetri e anelli e borchie in varie parti dell’abbigliamento e del corpo, contro il quale avevo letteralmente sbattuto a un angolo di un tunnel, mosso a compassione e con una economia del tempo probabilmente diversa dai frettolosi londinesi, mi accompagnò alla fermata giusta per prendere il treno.

    Durante il viaggio da Londra a Chester, mi accorsi dell’aria diversa che si respirava nei treni inglesi: non avevo mai visto così tanta gente intenta a leggere, non avevo mai visto così tanta gente intenta a cercare di capire cosa leggeva l’altro, che scarpe aveva, se il colletto della camicia del vicino era ombrato, se le unghie pulite. Sembravano quei cagnolini finti con la testa snodata, che si mettevano nel retro delle auto, che con cadenza quasi alternata muovevano la testa una volta in su una volta in giù, una volta in là una volta in qua. La cosa che comunque mi rimase più impressa fu il sorriso di qualche ragazza, in risposta al mio.

    Le istruzioni erano che, appena arrivato a Chester, dovevo telefonare a Wendy per farmi venire a prendere. Non riuscii a parlare perché non sapevo che lo scellino, una volta inserito, dava la possibilità di comporre il numero, ma per parlare doveva essere spinto giù nella fessura. Dopo tre tentativi, Wendy capì che l’italiano era arrivato…

    La gonna, leggera come lo sguardo della gioventù, tinta di primavera indiana, ondeggiava quasi in sintonia con il lungo caschetto biondo cenere, una lasciava indovinare le lunghe e vellutate cosce, l’altro due fari verdi grigi, che tra un’eclisse e l’altra indicavano una rotta. Il rumore che mi uscì dalla bocca non si sa a cosa potesse assomigliare, Wendy e la sua amica Jenny, che l’aveva accompagnata, ridevano quasi all’italiana ogni volta che aprivo bocca per pronunciare qualcosa in quello che, secondo me, era inglese; capii che forse era meglio stare zitto…

    Durante il viaggio Wendy, che era alla guida, non nascose né la sua gioia né le sue cosce. Seduto dietro la Ford Capri bianca, cercavo di mettere in fila le sette parole d’inglese che conoscevo, ma le turbine dei ventiquattro anni aprivano la strada ad altre sensazioni…

    La casa di Chester, che Wendy e Jenny condividevano, era quanto di più inglese si potesse immaginare. L’equivalente della classica casa colonica toscana quadrangolare, in pietra e mattoni, le vigne attorno e il vialetto con i cipressi. Finestre bombate prominenti sull’ampio giardino, parte superiore della casa con travi in Timber incrociati. I loro amici ci stavano aspettando, gentili, sorridenti. Io annuivo… ma non capivo una mazza… avessi almeno potuto cogliere qualche parola qua e là, ma niente, buio cognitivo totale. Mi accompagnarono nella mia camera, con un armadio, un comodino e un letto pendente; nel cercare di metterlo un po’ più in piano ci trovai sotto un paio di mutandine stagionate, le misi in un cassetto vuoto dell’armadio, non era il caso di scendere sotto a cena con quel reperto archeologico…

    Durante la cena, era come se fossi sordo. In quel galleggiare di sguardi tentavo di pescare qualche significato, come si fa con i libri illustrati per i bambini. Adesso iniziavo a intravedere anche l’altra faccia della medaglia dell’emozione pura che mi aveva portato lì. Quello shock anafilattico dell’esistere, vissuto quella sera d’estate al cinema all’aperto di Figline Valdarno. Durante l’intervallo, nella fila davanti alla mia, c’era una ragazza italiana che parlava con un ragazzo forestiero, in inglese. Un meteorite che attraversa e riattraversa il cielo, un fermo immagine dell’anima, suoni e vibrazioni diverse dalle nostre per portarsi vicino a un altro umano. Che ricchezza, che potenza dell’essere, che distinguo di eccellenza, che meta sfidante e ricca. Il mio amico continuava a parlarmi, ma non lo sentivo, ero ancora appeso al paracadute. Tempo un mese, avevo saldato i fornitori, svuotato il negozio, riconsegnato le licenze in Comune, mi rimasero 700.000 lire, comprensive della vendita dell’amplificatore Pioneer a padre Antonio.

    Adesso ero lì, immerso in quel brodo, e mi ci sentivo come un pezzo di lesso che ci girava dentro. L’unica cosa che avevo compreso era stata quando Wendy, per farmi capire che stavamo mangiando del pollo, ne aveva imitato il verso usando le braccia a mo’ di ali che svolazzavano; non era molto confortante...

    Il mattino seguente, un cielo inglese rasentava il prato all’inglese antistante la casa inglese, come se il cielo stesso lo avesse rasato con il tagliaerba, come nei film Cinemascope, era tutto più schiacciato, cuore e mente compresi. Scesi sotto di buon’ora, le poliziotte dormivano - già, di questo si trattava, di due poliziotte… uscii per una passeggiata. La luce era diversa, mi chiedeva una declinazione di colori che non conoscevo, le case, le siepi, le auto parcheggiate erano diverse, attendevano di essere riconosciute, ma tutto rimaneva forma, le parole per renderle dialogo non c’erano, non ancora… non ancora…

    Quando rientrai Wendy stava preparando la colazione inglese. Finalmente si mangia… pensai. La trasparenza del babydoll mi distolse un po’ l’attenzione dall’unico uovo, le due fette di bacon e le due tartine abbrustolite, che in tre minuti e mezzo si erano smaterializzati sotto gli occhi divertiti di Wendy. Già, la colazione non c’era più, ma la fame sì, e chissà quando avrei messo di nuovo qualcosa sotto i denti... Per fortuna prima di uscire, con la sua bella divisa, Wendy mi fece capire, a gesti, dove era la confezione delle fette biscottate e del pan carré per i toast; la sera non li avrebbe più ritrovati. Uscì ridacchiando con Jenny affacciata alla finestra, dopo mezz’ora anche lei, con la sua bella e grande divisa, uscì. Rimasi solo, solo in Inghilterra, solo con il mio silenzio, solo con il mio passato, solo con la mia sofferenza e solo, tremendamente solo con il mio divenire, solo con la potenza magica dell’incognito, con l’invitante plasticità del futuro, del mio futuro. Che cosa volevo? Cosa cercavo? Quanto ero disposto a pagare, a lottare, e per cosa, e ne sarebbe valsa la pena? Non avevo più parole, quelle che conoscevo non mi servivano, quelle che mi servivano non le conoscevo. Il libro della vita, della mia vita, aveva adesso pagine in cui non riusciva a incontrare nessun lettore, perché un libro prende forma e vive, si anima, quando le pagine incontrano il lettore, il suo interesse, o disinteresse, la sua sensibilità, la sua intelligenza, la sua umanità. Quella prima pagina era come vuota, in attesa di essere capita e riempita. Sentii il vuoto del non ancora scritto, mi velò lo sguardo, lo sollevai al cielo come sabbia al vento, e il vento lo portò via, là dove i giorni macerati sarebbero diventati inchiostro di vita.

    I punti salienti delle due settimane di permanenza a Chester furono: il dimagrimento quasi cinque chili; la lotta per resistere alla trappola di Wendy (o della vita?); la ribellione di Wendy a questa resistenza, percepita come rifiuto o peggio ancora come deliberata offesa, che, di fatto, proprio non era... Avesse anche semplicemente potuto immaginare quanto la desideravo, mi avrebbe mangiato e rimangiato, giorno dopo giorno. Avevo rifiutato diverse volte degli inviti a uscire assieme ad altri suoi amici, facendole intendere che preferivo rimanere a casa a leggere i miei libri di filosofia e religione… La volta che accettai mi fu servita la classica vendetta femminile in salsa inglese. Quella sera, Wendy era bellissima e tremendamente sexy, gli occhi brillavano e roteavano d’intenso di Donna, mi portò in un pub del corpo di Polizia, dove, una volta dentro, si trasformò in una reginetta. Non capivo cosa diceva, ma capivo bene gli ammiccamenti delle altre, e le risate cameratesche dei suoi colleghi. Gli stessi che non comprendevano che si poteva anche non bere più di due birre in una serata, senza sentirsi considerato un alieno. Certo, se l’unico metro per leggere un uomo è la fila delle pints di birra bevute, il libro non può che essere corto.

    Rientrammo con l’auto di un suo collega, lei era troppo allegra per guidare, lui ciucco. Se lo portò a letto, come da routine anni ‘80 in England; mentre saliva le scale, lasciando la mano del giovanotto, si girò lentamente abbassando lo sguardo verso di me, e con un sorriso, misto aceto e lacrime, mi diede la buonanotte sfiorandosi le labbra con le dita... Era il prezzo da pagare per non fermarsi, era una sofferenza per scollinare e andare avanti, andare oltre. Due giorni dopo, con la scusa che ero dimagrito troppo e che dalla sua mamma avrei sicuramente mangiato meglio, mi caricò… sulla Ford Capri bianca e mi consegnò a sua mamma, a Bollington.

    I soldi erano alla fine, mi avevano fatto capire che il vitto in Inghilterra costava molto, la permanenza sarebbe stata breve senza la possibilità di un lavoro.

    Chiesi di iscrivermi a un corso di inglese, la signora s’interessò e m’iscrisse a un corso per prepararsi a passare l’esame del Cambridge First Certificate, a Mattesfield.

    Le due settimane di frequenza furono uno spasso per le mie due compagne di banco, due ragazze svizzere. In sostanza, ogni volta che iniziavo a emettere dei suoni atavici, qualcosa che assomigliava più al grido di una cornacchia che all’inglese, con la sola agevolazione della H aspirata - non per merito, ma per discendenza toscana - le due biondine si piegavano dalle risate. La volta poi che feci capire alla professoressa (povera, non parlava neppure un po’ di italiano…) che non ero io che non capivo, ma lei che parlava troppo veloce, probabilmente si fecero la pipì addosso. La signora convenne che il corso era troppo avanzato per me; in effetti, il corso era giusto, ero io che ero un disastro. Iniziai a pensare che non sarei mai riuscito a imparare l’inglese. Non sapevo quanto mi stessi sbagliando.

    Nel frattempo Ms. Ivory si era interessata, presso degli amici proprietari di una fattoria, sulla possibilità di un lavoro per me. Un pomeriggio, mentre stava parlando al telefono, mi chiese: «Riccardo... can you cement?» (sai murare?), io capii seminare. Non lo avevo mai fatto direttamente, ma lo avevo visto fare diverse volte, e risposi: «Oh yes!»

    Quando arrivai alla fattoria, mi fecero vedere degli infissi che stavano venendo giù. Feci il gesto come per verniciare, la madama probabilmente tentava di farmi capire che prima si dovevano murare, per tutta risposta io continuavo a fare lo stesso gesto, ma con più enfasi. Dopo un po’ la lady, leggermente rossa in volto, disse: «All right…» e mi accompagnò in un’altra ala della casa, dove gli infissi erano già murati e dovevano essere verniciati. Il mattino seguente, dopo aver pedalato per circa 5 km in salita con rapporto fisso del 13, arrivai alla fattoria, seguito dagli sguardi curiosi degli inglesi di Bollington, per il mio pedalare, cantare e fischiare allo stesso tempo, decisamente troppo per loro…

    D’infissi ne verniciai ben pochi, anche perché non c’era un ponteggio, dovevo legarmi in cima alla scala con la cintura dei pantaloni per non cadere… In compenso mangiai tanti ottimi sandwich (forse troppi considerando la frequenza con la quale la signora mi ricordava che il cibo costava molto in Inghilterra…) e feci una bellissima cavalcata con la figlia della proprietaria. Quel giorno avevo iniziato a lavorare prima, ero arrivato alla fattoria che stava facendo giorno (la bici non aveva il faro, e fra una curva e l’altra avevo indovinato la strada), così nel pomeriggio sarei potuto andare a cavallo, come convenuto con la signorina... la mia prima cavalcata sul suolo inglese. Partimmo subito dopo pranzo. Due cavalli bellissimi, un sauro e un irlandese, il sauro a me e l’irlandese a lei.

    Ero riuscito a far capire alla ragazza, più con le mani che con la bocca, che comunque qualcosa ci capivo.

    La pupa uscì dalla stalla con i due cavalli, era vestita senza neanche una virgola di fuori, io mi ero solo sganciato dalla scala… stivaletti di vacchetta realizzati a mano dal famoso calzolaio Pataia di Terranuova Bracciolini, pantaloni bordò attillati, maglietta giallo crema, piumino dell’Ellesse, pure giallo. All’invito della ragazza a indossare il cap rifiutai gentilmente; con un salto da cavalletta atterrai sulla sella. Il sauro lesse la seduta, decifrò gambe e polso; iniziò a scalpitare portandosi verso il cancello. La young girl mi fece capire che dovevo stare dietro di lei, diligentemente ubbidii, ma il sauro non era d’accordo... Durante la passeggiata, lei parlava alle sue parole, io guardavo la bellezza nuova di quella terra. Come a Chester, avevo l’impressione che il cielo e la terra fossero più vicini, e sul cavallo ancora di più. Già, il cavallo… stupenda creatura umana, nel senso che la relazione è stata forgiata dall’uomo. L’uomo ha plasmato nel cavallo una parte di umano, e il cavallo ha umanizzato nei secoli la bestia dell’umano. La mia passione per i cavalli era nata tanti anni prima.

    Quando, a dieci anni, ero partito presto da Piandellevigne con mio zio Dino, era ancora buio, per andare dal Trociani, un pastore e allevatore di cavalli che abitava a mezza montagna, sopra Castelfianco. Era il giorno di Ferragosto, la meta era la croce di Pratomanto, dove ci sarebbe stata una funzione religiosa. Lasciammo la 500 beige di mio zio alla casa del Trociani, e proseguimmo a piedi verso la croce, più di tre ore di cammino, il

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1