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L'Amore A Modo Nostro
L'Amore A Modo Nostro
L'Amore A Modo Nostro
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L'Amore A Modo Nostro

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About this ebook

All’età di venticinque anni, Arianna Lori può finalmente definirsi soddisfatta di quello che è riuscita ad ottenere durante tutta la sua vita. Ha un lavoro stabile in un piccolo studio nella periferia di Roma, vive insieme alla sua amica Rubina, in un appartamento un po’ stravagante ed è fidanzata da cinque anni con Cristiano, un ragazzo che ha conosciuto all’università.
Felipe Santos è il tipico straniero trasferitosi a Roma per seguire la sua passione, nonché suo lavoro. Capelli ricci, sorriso inconfondibile sul volto e accento portoghese, sono il suo biglietto da visita che attira l’attenzione di molte ragazze. Eppure lui non è alla ricerca di un’avventura. Per il momento si gode la vita circondato dai suoi colleghi, provenienti da tutto il mondo, i suoi fratelli e la piccola Bella, un cucciolo di pastore tedesco.
Tutto nella loro vita sembra essere calcolato, ma al destino piace mescolare le carte e quello che avevano programmato rischierà di andare a rotoli quando, accidentalmente, i loro percorsi si congiungeranno.
LanguageItaliano
Release dateDec 7, 2018
ISBN9788829568949
L'Amore A Modo Nostro

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    L'Amore A Modo Nostro - Deimichei Giada

    Deimichei Giada

    L'Amore A Modo Nostro

    UUID: 0a920eb6-fa05-11e8-86b3-17532927e555

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    CAPITOLO 1

    CAPITOLO 2

    CAPITOLO 3

    CAPITOLO 4

    CAPITOLO 5

    CAPITOLO 6

    CAPITOLO 7

    CAPITOLO 8

    CAPITOLO 9

    CAPITOLO 10

    CAPITOLO 11

    CAPITOLO 12

    CAPITOLO 13

    CAPITOLO 14

    CAPITOLO 15

    CAPITOLO 16

    CAPITOLO 17

    CAPITOLO 18

    CAPITOLO 19

    CAPITOLO 20

    CAPITOLO 21

    CAPITOLO 22

    CAPITOLO 23

    CAPITOLO 24

    CAPITOLO 25

    CAPITOLO 26

    CAPITOLO 27

    CAPITOLO 28

    CAPITOLO 29

    CAPITOLO 30

    CAPITOLO 31

    CAPITOLO 32

    CAPITOLO 33

    CAPITOLO 34

    EPILOGO

    PLAYLIST

    Ringraziamenti

    «Se puoi sognarlo,

    Puoi farlo»

    Walt Disney

    CAPITOLO 1

    «Sono giovane e mi piace essere giovane

    Io sono libera e mi piace essere libera

    Per vivere la mia vita come voglio

    Per dire e fare quello che mi pare e piace»

    You Don’t Owe Me - Grace feat. G-Eazy

    «In questa fase molti di voi stanno avvertendo il desiderio di evadere, magari un viaggio di piacere potrebbe rappresentare la vostra valvola di sfogo di questo desiderio per cambiare aria. Dici che dovrei riflettere sulla proposta di Ema?»

    Due occhi azzurri mi scrutarono da sopra gli occhiali rossi, perfettamente in tinta con i capelli raccolti in una coda alta, in netto contrasto con la pelle chiara. Le guance, in particolare vicino al naso, erano ricoperte da lentiggini. Assomigliava ad una bambola di porcellana. Era seduta sul divano color panna, con le gambe incrociate e in mano aveva la nuova uscita di Cosmopolitan, che aveva puntualmente trovato nella cassetta della posta quella mattina.

    «Come se quelle stupidaggini predette da un idiota potessero influenzare la tua vita», ribattei sollevando le dita per formare delle virgolette in aria. Dopo di che ripresi a cercare il telefono. Mi sembrava di averlo messo sul divano appena ero tornata a casa il giorno prima. A quanto pareva mi sbagliavo. 

    Era così tardi e buio che l’unica cosa che ricordavo era l’impatto con il letto. Ero sfinita per colpa del lavoro. Ma oggi era un nuovo giorno e dopo due tazze di caffè mi sentivo più attiva. Il lavoro mi aspettava.

    «Hai ragione, probabilmente dovrei andare da sola», riprese a leggere facendo tintinnare la penna tra i denti. Io mi spostai verso la cucina, comunicante con il salotto.

    Il nostro era un piccolo appartamento nella periferia della grande Roma. All’esterno era un semplicissimo condomino bianco che sembrava senza personalità, ma appena ne avevo varcato la soglia, me ne ero innamorata. Era perfetto per una ragazza che si era dovuta trasferire per studiare; piccolo, accogliente e soprattutto colorato! Mi era piaciuto fin da subito, anche se non avevo chiesto spiegazioni sul perché ogni stanza avesse un determinato colore, credevo semplicemente che il precedente inquilino fosse un pittore. Poi però, si era presentata una ragazza, sulla porta di entrata, con in mano il telefono con lo schermo puntato sull’annuncio che avevo pubblicato qualche settimana prima, mentre ero in cerca di una nuova coinquilina per poter gestire meglio le spese. Era stata proprio lei ad illustrarmi il loro significato mentre le facevo vedere la casa.

    Appena aveva visto il salotto si era soffermata sul colore, chiedendomi se avessi pitturato io. Le avevo raccontato che era stato il precedente inquilino e io non avevo voluto cambiarli perché mi piacevano così. Rubina aveva sorriso e aveva iniziato a spiegarmi che ogni colore aveva un suo significato e chi si era occupato della tinteggiatura lo sapeva bene. Ad esempio, il giallo era il primo colore che risaltava appena varcata la porta di entrata. Era fatto apposta perché era considerato il simbolo dell’energia mentale e fisica ed era positivamente attratto dalle novità, quindi rendeva di buon umore le persone che entravano, accogliendole in modo più che degno. A stretto contatto con quel colore, c’era l’arancione che riempiva la cucina. Veniva spesso associato alla salute e al benessere, agendo principalmente sulla vitalità della persona. I due colori, a differenza dalle altre stanze, non erano separati da un muro perché potevano agire anche insieme. Il corridoio che portava dal salotto alle camere era l’unica parete con un colore neutro. Probabilmente si era dimenticato di concludere la sua opera o semplicemente aveva finito il colore. Non sapevo dare altre spiegazioni. In compenso, Rubina aveva deciso di abbellirlo con numerose mensole su cui erano sistemati dei souvenir che si era portata con sé, come bottiglie con dentro liquidi trasparenti che emanavano ognuna un odore diverso, delle lava lamp di vari colori e palle di vetro di almeno dieci città. Da lì, tre erano le porte che conducevano rispettivamente alla stanza di Rubina, dipinta di rosa, alla mia camera, verde e al bagno, con il caratteristico colore blu.

    Questo fu il primo discorso che avevo sentito da Rubina, appena entrata dalla porta. Ringraziavo ancora oggi la mia capacità di autocontrollo che mi aveva permesso di non sbatterla fuori di casa, altrimenti non saremmo mai diventate amiche.

    «Ariete», mi urlò di rimando per farsi ascoltare. «C’è ancora tanto da recuperare in ambito sentimentale, specie se qualcuno non vi da le risposte che vi aspettate. Fortunati i viaggi e gli incontri, specialmente per chi si trova solo. Hai capito Ari?»

    «Lo sai che sto bene con Cristiano», sbuffai. Ero fidanzata con Cristiano dall’università, il nostro era stato un incontro quasi copiato da un film. Io ero completamente spaesata all’interno dell’edificio e lui si era presentato e mi aveva accompagnato in giro per la scuola. Rubina lo definiva un incontro-noia-mortale come la nostra relazione.

    «Ah, sì? Stai bene? Allora dimmi mia carissima fidanzata, quand’è stata l’ultima volta che lui ti ha portata ad un appuntamento».

    Stavo per aprire la bocca per rispondere, ma lei non mi lasciò il tempo.

    «E con appuntamento intendo uno vero, non a casa sua, sul divano, a mangiare cibo da asporto!», ribatté raggiungendomi in cucina con la sua rivista stretta bene in mano.

    Richiusi la bocca e la osservai incrociando le braccia. In quei momenti la odiavo. Odiavo quando criticava la mia vita sentimentale.

    Ero cosciente di non aver scelto un uomo che mi portava in giro per il mondo come faceva Emanuele con lei. Di non aver scelto un uomo che mi portava a cena fuori appena era libero come Emanuele. Di non aver scelto un uomo che mi portava un mazzo di rose al mese perché «la nostra relazione è la cosa più bella che mi possa mai essere capitata» come faceva Emanuele. Ma non mi interessava.

    Avevo scelto Cristiano perché sapevo che sarebbe stato un brav’uomo con cui mettere su famiglia un giorno, un uomo stabile e un uomo che…

    «Smettila di pensare per una buona volta!». Rubina mi afferrò per le spalle e mi scosse per farmi tornare alla realtà. «Cristiano non è un uomo per te, lui è troppo chiuso troppo… plasticato per stare con una ragazza splendida come te. Guardati! Tu sei una ragazza piena di energie, piena di vita, non vale la pena stare con uno come lui!»

    Scossi la testa guardandomi intorno per cercare il telefono che ancora non avevo trovato.

    «Senti, Arianna...», afferrò il mio polso che aveva iniziato a muoversi sul piano della cucina spostando i vari oggetti per trovare quel maledetto telefono che mi avrebbe permesso di allontanarmi da quella casa il più velocemente possibile.

    «No, sentimi tu Rubina», pronunciai il suo nome con determinazione. Non mi capitava mai di dire il suo nome completo, proprio perché lei non lo sopportava. La prima volta che me l’avevo detto ero rimasta con gli occhi spalancati, pensando di aver capito male, d’altronde quale madre avrebbe potuto odiare talmente tanto sua figlia da chiamarla Rubina? Non l’avevo mai conosciuta e quindi non avevo ancora potuto rispondere a quella domanda, ma presumevo che pensasse al il colore dei capelli che avrebbe potuto avere la figlia. Non immaginavo cosa sarebbe successo se i primi ciuffi sulla testa della mia amica fossero stati castani.

    «Io non ho intenzione di ascoltare ancora una volta questa tiritera. Io amo Cristiano. Lo amo. Non so quante volte te l’ho detto e quante volte dovrò ancora ripeterlo prima che tu mi lasci in pace», il mio tono rimase pacato mentre parlavo. Era raro che urlassi durante una discussione, soprattutto perché mi era stato spiegato fin da bambina che urlare creava solo più disagio, più confusione e soprattutto portava a dire cose che non si pensavano. Così avevo imparato a mantenere la calma facendo un respiro profondo.

    Schivai Rubina per raggiungere l’appendino accanto alla porta di entrata, dove era appesa la mia borsa, e uscire di casa.

    «Tu non sai cos’è l’amore», furono le ultime parole che sentii prima di chiudere la porta.

    Mi diressi verso l’ascensore sistemandomi la borsa sulla spalla.

    Un’altra cosa che odiavo erano proprio le scale, forse era colpa dell’appartamento in cui vivevo da piccola, era all’ultimo piano di un condominio e l’ascensore non c’era, così tutti i giorni mi toccava portare quella cartella piena di libri su e giù per quelle maledettissime scale. Mi ero ripromessa che quando me ne fossi andata avrei trovato un appartamento con un ascensore e così era stato.

    Premetti il pulsante per prenotare la mia salvezza e nel frattempo controllai in borsa di avere almeno le chiavi della macchina e il portafoglio, anche se probabilmente, piuttosto che tornare in appartamento, avrei fatto il viaggio fino allo studio a piedi. Fortunatamente li trovai entrambi.

    Le porte dell’ascensore si spalancarono e mi inserii nel cubicolo insieme alla famiglia che abitava qualche piano sopra il mio e alla signora Fontana, la nonna che non avevo mai avuto. Era stata la prima ad accogliermi nel palazzo appena avevo iniziato a traslocare. Si era presentata alla porta mentre ero impegnata a portare gli scatoloni insieme a Cristiano, con una confezione di biscotti, proprio come avrebbe fatto una nonna e nonostante fossi completamente sudata e impolverata l’avevo fatta entrare e le avevo offerto una tazza di tè. Non mi ci era voluto tanto ad affezionarmi e quando potevo, la invitavo a parlare o piuttosto a spettegolare, d’altronde era la tipica vecchietta che sentiva tutto e tutti e non poteva tenersi quei segreti per sé.

    La osservai. Aveva sempre quella chioma bianca perfetta che la faceva sembrare appena uscita dalla parrucchiera; indossava un vestito a fiori abbinato a delle ballerine rosse che tanto amava e che le aveva regalato suo marito quando ancora era in vita. Accanto a sé aveva il suo inconfondibile carrellino della spesa beige che teneva con la mano destra.

    «Vai a fare la spesa, Carmen?», le chiesi.

    Lei mi guardò. «Giorno di mercato», il suo giorno preferito, «e poi ho un incontro con Fabio» e mi fece l’occhiolino.

    «Carmen, non mi avevi detto che dopo Pietro avresti lasciato perdere gli uomini?»

    Pietro era stato suo marito. Un uomo fortunato perché vivere con Carmen era come stare sulle montagne russe, non ci si poteva annoiare. Io non l’avevo mai conosciuto, ma ero convinta che fosse stato un grande uomo. Aveva partecipato alla guerra e le aveva scritto molte lettere durante il suo periodo di arruolamento che lei conservava gelosamente. Qualcuna avevo avuto il piacere di leggerla e si riusciva a capire tutto l’amore che lui provava, un amore da far venire la pelle d’oca, da far battere il cuore a mille e da far mancare il fiato.

    «Ci ho ripensato, quell’uomo sarà su che si diverte», sollevò l’indice verso il cielo, «allora posso divertirmi anche io».

    Sorrisi perché sapevo che se si sarebbero trovati di nuovo insieme, sarebbero stati in grado di tornare ad essere Carmen e Pietro, i due innamorati, nonostante tutto il tempo passato separati.

    Le porte dell’ascensore si spalancarono e tutti uscimmo nell’atrio svuotando il cubicolo. Era uno spazio stretto. La porta d’ingresso, sulla destra era grigia ed era circondata da alcune finestre in perfetto stile con la casa. Uno specchio copriva l’intera parete di fronte all’ascensore e alla rampa di scale, dando all’entrata un aspetto più moderno. Probabilmente chi aveva deciso di arredarlo così, lo aveva considerato come un grande vantaggio per le persone che erano in perenne ritardo e avevano bisogno di darsi una controllata prima di uscire di casa, come Rubina.

    Lanciai un’occhiata per verificare se ero in condizioni decenti. Indossavo una semplice canottiera verde e un paio di jeans neri, i capelli castani erano raccolti in una treccia per non darmi fastidio mentre lavoravo e i miei occhi scuri erano avvolti dal mascara per farli sembrare più grandi. Non ero una ragazza la cui priorità era curare il proprio aspetto, ma mi piaceva poter uscire di casa in modo presentabile.

    «Vuoi un passaggio?», domandai a Carmen. Il mercato era sulla strada vicino al mio studio quindi non sarebbe stato un problema accompagnarla.

    «Oh, no carissima, ho bisogno di fare due passi altrimenti le mie gambe non riusciranno più a reggermi», mi prese una mano e la strinse.

    Io gliela strinsi a mia volta e la salutai uscendo dalla porta per raggiungere la macchina. Sollevai la testa e vidi che il cielo stava iniziando a riempirsi di nuvole, probabilmente avrebbe piovuto entro la fine della giornata, ma non me ne preoccupai.

    Mi infilai in macchina e mi diressi verso lo studio.

    Avevo ragione, aveva iniziato a piovere da poco tempo.

    «Ti vedo pensierosa, è successo qualcosa?», mi domandò Cristiano da dietro il bancone.

    Ero davanti alla vetrata che dava sulla strada e stavo osservando la pioggia cadere senza sosta. L’acqua che si stava accumulando sulle strade stava formando delle pozzanghere. Probabilmente molte persone non si sarebbero mosse dal loro posto di lavoro o da casa.

    «Arianna?», mi richiamò il mio ragazzo.

    Mi scossi e mi voltai verso di lui. Avevo le mani nelle tasche del mio camice da lavoro e lo stetoscopio avvolto intorno alle spalle come un vero dottore, peccato che io non curassi le persone, bensì gli animali. Lo osservai bene. I suoi capelli scuri erano sistemati con il gel per formare la cresta che andava tanto di moda in quel periodo e un velo di barba gli copriva il mento facendolo sembrare più vecchio. I suoi occhi verdi erano fissi nei miei e stavano aspettando una risposta.

    «Sì, scusa», mormorai dirigendomi verso di lui. Il bancone era ordinato proprio come piaceva a Cristiano. Aveva cercato di impormi di lasciare le cose come le trovavo, ma il problema era che quando lui sistemava io non trovavo più niente e quindi cercavo dappertutto facendo casino. E tornavamo al punto di partenza.

    «Non hai ancora risposto alla mia domanda», afferrò una penna e firmò una ricetta al volo prima di sistemarla nella sua cartellina rigorosamente di colore rosso.

    Scossi la testa.

    Lui mi lasciò perdere e si diresse verso le gabbie dove avevo iniziato ad abbaiare due cani. Io lo lasciai andare senza seguirlo.

    La sala di attesa era silenziosa, non ero abituata. Di solito c’erano sempre animali che abbaiavano, miagolavano o comunque che non riuscivano a stare tranquilli. Le pareti erano azzurre, uno dei pochi colori che gli animali erano in grado di vedere e il pavimento era piastrellato in modo da essere facilmente pulito. Sui muri erano appesi dei cartelli informativi riguardanti tutti gli animali, ma specialmente cani, gatti e roditori. Una pianta era sistemata in un angolo, anche in questo caso, se Cristiano non si fosse occupato di darle da bere, sarebbe morta da un bel pezzo.

    «Arianna puoi darmi una mano?». Dall’altra stanza mi giunse le voce del mio ragazzo seguita da qualche abbaio. Una cosa che, però, ero in grado di fare bene era il mio lavoro da veterinaria. Era stato il mio sogno fin da quando ero bambina, per quello ce l’avevo messa tutta all’università. Ero riuscita, con stupore dei miei professori, a finirla in cinque anni con il massimo dei voti e subito Cristiano mi aveva accolto a braccia aperte nello studio che aveva da due anni. Non avevo rifiutato.

    Lo raggiunsi imboccando il piccolo corridoio provvisto di quattro porte, la prima e la seconda sulla sinistra conducevano ai due ambulatori, la prima porta sulla destra portava alla stanza con le gabbie e le varie cucce e l’ultima porta, di fronte a me, portava ad una stanza che utilizzavamo come camerino e cucinino, che era collegata ad un piccolo bagno. Mi infilai nella stanza delle gabbie e vidi Cristiano intento a calmare un cane che sembrava particolarmente agitato. Era un alano che ci avevano portato il giorno prima perché era diventato più aggressivo del solito. Gli avevamo subito fatto delle analisi per capire cosa non andasse, ma sembrava tutto normale.

    Mi diressi verso l’ambulatorio di corsa per prendere una piccola dose di calmante. Probabilmente stava soffrendo e non ero ancora riuscita a capire di cosa. Non potevo lasciarlo ancora in quelle condizioni. Infilai l’ago sterile sulla siringa e prelevai il liquido dalla boccetta, dopo di che glielo iniettai mentre Cristiano era ancora intento a gestirlo.

    Appena la sostanza iniziò a fare effetto, il mio ragazzo lo lasciò e si guardò la mano. Un graffio gli percorreva il dorso, ma non mi preoccupai, erano inconvenienti che capitavano nel fare il nostro lavoro.

    «Vai subito a disinfettare quella ferita, del cane mi occupo io».

    Lui annuì e si diresse verso la nostra stanzetta per sistemarsi.

    Spostai l’alano su un lato in modo che non si soffocasse con la lingua e gli accarezzai la testolina. «Adesso scopriamo dove ti fa male piccolo, tra poco sarà tutto finito».

    Parlavo spesso con gli animali come se potessero capirmi, proprio perché io non ero in grado di farlo con loro, ma era per questo motivo che avevo deciso di fare la veterinaria. I miei pazienti non erano in grado di dirmi dove e quanto gli facesse male e per questo, oltre ad essere un medico, dovevo essere anche una sottospecie di psicologa e una detective. Non era facile, ma se lo fosse stato, tutti avrebbero potuto fare questo lavoro.

    Con una leva abbassai il tavolo con le ruote per poter portare il cane nel secondo ambulatorio, quello più attrezzato per le visite approfondite. Gli sollevai la parte anteriore del corpo posizionandola sul piano e poi passai alla parte posteriore. Non avrei mai potuto alzarlo tutto in un colpo perché pesava troppo per una ragazzina minuta come me.

    Tirai ancora la leva per portare il tavolo a livello della mia pancia e lo spinsi fino all’altro ambulatorio. Indossai due guanti in lattice e accostai il tavolino all’apparecchio radiologico. Ero pronta a fare un’ulteriore radiografia per verificare di non aver dimenticato qualcosa.

    «Aspetta che ti aiuto». Cristiano rientrò in laboratorio con una garza sul taglio e si mise i guanti.

    «Tutto a posto?», domandai afferrando la testa del cane e le zampe anteriori mentre lui prendeva quelle posteriori e la schiena.

    «Tutto bene».

    Non serviva che contassimo per sollevarlo, ormai eravamo coordinati e ci basta uno sguardo per capirci. 

    Mentre stavamo sollevando l’alano sentii la campanella d’ingresso suonare. Chi mai avrebbe potuto essere con quella pioggia?

    «Vai tu, qui ci penso io», mi disse senza guardarmi, iniziando a spingere i pulsanti per attivare la macchina.

    Lo lasciai solo e prima di poter vedere quello che stava succedendo, sentii la voce preoccupata di un uomo. «Per favore c’è qualcuno?»

    Non riuscii nemmeno ad osservare il ragazzo, che il cane attirò la mia attenzione. Era una piccola palla di pelo e aveva una macchia di sangue sulla zampa che continuava a gocciolare per terra insieme alla pioggia.

    Aggirai il bancone chiedendo al padrone cosa fosse successo.

    Era un pastore tedesco che continuava a mugolare dal male, potevo capirla.

    «È stata morsa da un altro cane, per favore la aiuti!», la voce del ragazzo faceva intendere quando fosse in preda al panico e le mani iniziavano a tremargli.

    Mi feci dare in braccio la piccola e mi infilai nella stanza libera pronta a risolvere il problema. Non era la prima volta che vedevo un cane ferito e non sarebbe stata l’ultima, ma per il padrone poteva esserlo. Non aspettò in sala d’attesa, mi seguì fino ad entrare nella stanza dove avevo appoggiato la piccola e stavo indossando la mascherina. La prima cosa che feci fu iniettare un sedativo che la mettesse KO. Sollevai la zampa ferita e la osservai, il morso le aveva lacerato la pelle, lasciando un brutto graffio sanguinante.

    «Mi dica che riuscirà a sistemarla».

    Sollevai lo sguardo ed ebbi solo il tempo di vedere i capelli ricci che erano appiccicati alla sua fronte completamente bagnati, prima che apparisse Cristiano che invitò il padrone ad accomodarsi su una sedia. Cercò di rassicurarlo dicendo che ero una delle più brave nel mio lavoro, ma sapevo che lui non lo stava ascoltando. Lui si stava solo preoccupando del suo cane.

    Io iniziai a lavorare e per ore rimasi fissa sulla zampa di quel cane cercando di sistemarle la ferita che non ci avrebbe messo molto a guarire. Nonostante ciò, era piccola e i punti di sutura, potevano non essere abbastanza forti da tenere i lembi della pelle attaccati e correndo avrebbe potuto romperli o peggio, provocare un’infezione.

    Accarezzai il pelo della piccola. Era veramente bella. Un piccolo pastore tedesco degno di nota. Uscii dalla stanza per andare a parlare con il padrone che probabilmente era in compagnia di Cristiano.

    Quando mi vide sbucare fuori dal laboratorio, il ragazzo si alzò in piedi e mi venne in contro con le mani che ancora tremavano.

    «Stia tranquillo, la sua piccolina sta bene», sorrisi togliendomi la mascherina ed i guanti per buttarli nel cestino accanto al bancone. Lo osservai e notai che oltre a quei capelli appiccicati alla fronte, che lui cercava disperatamente di togliersi, aveva la pelle mulatta e gli occhi marroni. Sul braccio aveva un tatuaggio maori che lo ricopriva fino al polso ed i vestiti si erano asciugati dopo la pioggia che aveva preso. Sicuramente non era italiano, non mi ci volle molto a capirlo. Eppure aveva un aspetto così familiare, mi sembrava di averlo già visto, ma non ricordavo dove.

    «Deus, obrigado», mormorò lui in perfetto portoghese sollevando gli angoli delle labbra. Delle piccole rughette si formarono sotto i suoi occhi rendendo quel sorriso adorabile. Gli occhi erano illuminati di gioia, come se avesse ricevuto la più bella notizia del mondo. Doveva proprio tenerci al suo cane.

    «Non conosco bene il portoghese, ma penso di doverti rispondere prego».

    Lui annuì ridendo prima di chiedermi se potesse vedere la cagnolina.

    «Certo, mi segua», lo accompagnai in ambulatorio mentre il cucciolo era ancora addormentato.

    Il ragazzo le si avvicinò e si mise a parlarle. Io cercai di trovare qualcosa che tenesse occupata e non mi facesse sentire il terzo incomodo. 

    Appoggiai il piede sulla pedivella del lavandino per far partire l’acqua. Sciacquai i vari oggetti che avevo utilizzato durante l'operazione e che poi avrei inserito nell’autoclave per sterilizzare. 

    Li posizionai sulla tovaglietta a fianco del lavandino per farli asciugare e sentii una mano appoggiarsi sulla spalla. La spostai subito, come se non fossi abituata ad avere contatti con altre persone e mi voltai.

    Lui non sembrava essersi accorto del mio gesto e io continuai a chiedermi dove l’avessi già visto.

    «Beh, grazie per avermi sistemato Bella», sorrise lui indicando la sua piccola che stava beatamente dormendo.

    «È il mio lavoro», sollevai le spalle e la raggiunsi.

    Lui mi seguì con lo sguardo senza smettere di sorridere anche quando accarezzai il cucciolo.

    «Sai, hai proprio un bravo cane», mormorai guardandolo negli occhi.

    Lui si avvicinò e passò una mano sul collo del pastore tedesco. «Bella è speciale, nonostante la conosca da poco».

    Ogni animale per il proprio padrone era speciale. Era un compagno di vita e nessun rapporto poteva essere paragonato a quel legame.

    Passai una mano sul pelo del cane e sentii un mugolio, si stava iniziando a svegliare. L’effetto del sedativo doveva essere finito.

    «Linda Bella», il ragazzo le stava accarezzando la testolina per rassicurarla.

    «Ormai l’effetto del sedativo è finito e man mano inizierà a svegliarsi», spiegai al ragazzo. «Però, vorrei tenerla sotto osservazione per uno o due giorni».

    Non era mai facile dire al padrone che il cane sarebbe dovuto rimanere in clinica per qualche giorno, soprattutto dopo un intervento. Di solito molti si mettevano a piangere o mi urlavano contro perché non potevano abbandonare il loro cane ad una sconosciuta, come se non glielo avessi appena curato.

    Lui, però, mi guardò e annuì come se sapesse che lei doveva essere sorvegliata. «Va bene. Tutto per fare in modo che lei stia meglio», la accarezzò ancora.

    Io decisi di lasciarli da soli in modo tale che riuscissero a salutarsi e mi diressi verso la stanza delle gabbie. Notai subito l’alano che dormiva beato nella sua gabbia, probabilmente Cristiano era riuscito a risolvere il problema. Ero contenta per lui.

    Raggiunsi l’angolo della stanza per prendere qualche croccantino per ogni cane. Il mio ragazzo non sopportava che non rispettassi le ore dei cibi per ogni animale, ma era più forte di me e quando non c’era ne approfittavo e ne davo qualcuno a tutti.

    Mi riempii il pugno dei croccantini per i cani e feci il giro delle gabbie. I cani che avevamo in questi giorni erano tre oltre l’alano Acer; due meticci Nora e Duncan, e un labrador, Billo.

    «Io allora vado».

    Sobbalzai pensando che Cristiano mi avesse beccato ancora e mi dovessi subire un’altra volta la sua tiritera. Nascosi d’istinto le mani dietro alla schiena come se non avessi fatto niente di male.

    «Scusa, non pensavo di spaventarti», rise il ragazzo dai capelli bagnati, appoggiandosi allo stipite della porta.

    Io scossi la testa imbarazzata. «Pensavo fossi un’altra persona che non vuole vedermi dare da mangiare a loro fuori orario».

    «Tranquilla, non rivelerò il tuo segreto al biondo». Ancora quel sorriso.

    «Sarà meglio, sennò alla tua Bella non gliene do neanche uno», ribattei continuando a dare da mangiare ai cani.

    «Bella sarebbe triste se non gliene dessi neanche uno», mi rispose incrociando le braccia.

    «Dipende tutto dal suo padrone».

    Diedi l’ultimo croccantino a Billo e mi pulii le mani sul camice per nascondere le tracce del mio delitto. Dopo di che raggiunsi il ragazzo, lo schivai e mi diressi verso il bancone afferrando un pezzo di carta. Lui si sistemò dall'altro lato, appoggiando il gomito, e mi seguì con lo sguardo mentre buttavo una pallina accartocciata nel cestino e aprivo l'agenda per segnare quando sarebbe tornato a prendere il suo animale.

    «Mi sigillerò la bocca», disse ricordando la conversazione di prima e io sorrisi mentre imitò di chiudersi la bocca con una chiave facendola dondolare tra il pollice e l’indice. Avvicinai la mano al suo palmo lasciando quei pochi centimetri che ci separavano. Lui staccò le dita facendo cadere la chiave e io chiusi la mano a pugno fingendo di sistemarmela nella tasca del camice.

    «Potresti passare a prenderla giovedì, tra due giorni», mormorai sfogliando le pagine dell’agenda.

    Lui annuì chiedendomi se il pomeriggio andava bene dato che la mattina era impegnato.

    «Non c’è problema, o io o Cristiano ci siamo», presi una penna dal portapenne e iniziai a scrivere le informazioni principali sul giorno del rilascio.

    Nome: Bella, Razza: Pastore tedesco, Anni: 2 mesi, Giorno del ricovero: martedì 9 agosto.

    «Mi serve il suo nome», sollevai la testa e lo osservai.

    «Felipe Santos».

    Padrone: Felipe Santos, scrissi come ultima informazione prima di porgergli il foglio da fargli firmare.

    Lui prese una penna appoggiata sul ripiano e con delicatezza e decisione, scrisse il suo nome.

    Avevo sempre fatto particolare attenzione al modo di scrivere degli altri, era come se la scrittura mi aiutasse ad interpretarli e definirli. C’erano persone che non scrivevano mai il loro nome per intero, probabilmente perché nel lavoro che facevano non avevano tempo. Immaginavo fossero inseriti in un contesto sanitario, d’altronde anche io non avevo mai il tempo di scrivere il mio nome completo. Poi c’erano quelle persone che ci mettevano un’eternità per scriverla e doveva essere curata nei minimi dettagli, e no, non erano solo donne, anzi, molti erano gli uomini. Probabilmente erano uomini d’affari che dovevano riflettere bene prima e durante la firma. Infine, c’erano quelle persone incerte a cui tremava la penna mentre scrivevano. Loro, probabilmente, erano delle persone non abituate a spargere autografi ovunque.

    La sua era una firma completa, ma non mi sembrava un uomo d’affari, non era il tipo da stare tutto il giorno in giacca e cravatta. Anche se non l’avrei visto così male con un completo. Era bello già di per sé con una maglietta bianca e un paio di jeans, non immaginavo l’effetto che avrebbe fatto sulle donne con indosso un vestito elegante.

    Mi porse il foglio firmato sorridendo. «Conto sul fatto che darai i croccantini anche alla mia Bella».

    Lo afferrai e lo infilai nell’agenda su giovedì, il giorno del ritiro.

    Poi sollevai lo sguardo incrociando i suoi occhi scuri. «Io li mantengo i patti, signor Santos. Per di più, io ho ancora la sua chiave, quindi sono sicura che non dirà niente al mio collega».

    «Mi ha in pugno signorina...», sollevò un sopracciglio interrogativo.

    «Lori, ma preferirei essere chiamata semplicemente Arianna».

    Dalla porta di entrata apparve Cristiano con una borsa in mano, non avevo idea di dove fosse stato. Era strano che se ne fosse andato senza lasciarmi un biglietto o senza dirmelo, ma evitai di farglielo notare.

    Felipe vide l’uomo e subito mi fece l’occhiolino.

    «Arianna è stato un piacere, giovedì tornerò a prendere Bella».

    «Perfetto, arrivederci signor Santos», sorrisi salutandolo mentre usciva dalla porta.

    Cristiano mi si avvicinò e appoggiò la borsa sul bancone. «Come è andata l’operazione?»

    Sollevai le spalle. «Tutto bene, era più agitato il padrone che il cane».

    Cristiano annuì e si diresse verso lo stanzino portando la borsa con sé mentre io rimanevo appoggiata al bancone guardando fuori dalla vetrata.

    Il sole stava rispuntando.

    CAPITOLO 2

    «Percorri la tua strada e non guardarti indietro

    Fai sempre quello che decidi

    Non lasciare che controllino la tua vita

    Questo è solo come mi sento (oh-whoa)»

    Am I Wrong - Nico & Vinz

    Era strano non avere la mia amica intorno. Quella piccola palla di pelo che era stata morsa da quel mastino. I padroni dovevano considerarsi fortunati che non avevo sporto denuncia, ma dovevano ringraziare soprattutto la veterinaria, quella ragazza minuta che era riuscita a mantenere la calma e a tranquillizzarmi. Non ero mai stato uno che si agitava, ma vedere Bella con tutto quel sangue che le macchiava il pelo, era stato come un colpo di pugnale dritto nel cuore. Ero troppo affezionato a lei per perderla.

    «Que se passa, Pipe?», mi diede una gomitata Gabriel mentre correvamo.

    Non ero mai stato un ragazzo molto silenzioso e il mio amico se ne era subito accorto.

    «Sono due giorni che non vedo Bella, mi sembra come se mi mancasse qualcosa», mormorai fermandomi di colpo. Era da poco che era entrata nella mia vita e in quella dei miei fratelli, e già sembrava essere un membro della famiglia da sempre.

    Gli

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