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Riforma e modernità: Prospettive e bilanci a 500 anni dalle Tesi di Lutero
Riforma e modernità: Prospettive e bilanci a 500 anni dalle Tesi di Lutero
Riforma e modernità: Prospettive e bilanci a 500 anni dalle Tesi di Lutero
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Riforma e modernità: Prospettive e bilanci a 500 anni dalle Tesi di Lutero

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About this ebook

Il volume raccoglie, in chiave interdisciplinare, una serie di contributi della comunità universitaria di Roma sulla riforma di Lutero, intesa come uno dei grandi eventi fondatori della modernità: nella sua dimensione dunque non soltanto confessionale, ma anche storica, filosofica, culturale, politica, economica e artistica. In questa prospettiva, da un approfondimento critico della riforma e dei suoi effetti, può passare una riapertura dei destini della modernità, insieme a un rilancio del progetto europeo quale sintesi alta tra differenze accettate e riconciliate.
a cura di Stefano Biancu
LanguageItaliano
Release dateDec 7, 2018
ISBN9788838247675
Riforma e modernità: Prospettive e bilanci a 500 anni dalle Tesi di Lutero

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    Riforma e modernità - AA.VV.

    Stefano Biancu

    Riforma e modernità

    Prospettive e bilanci a 500 anni dalle tesi di Lutero

    ISBN: 9788838247675

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    INTRODUZIONE

    FATTI E SPAZI

    I. CONSIDERAZIONI SUL CONCETTO DI REFORMATIO ECCLESIAE

    1. Premessa

    2. La concezione medievale della reformatio ecclesiae

    3. La reformatio ecclesiae nelle controversie teologiche del secolo XVI

    4. L’aforisma ecclesia semper reformanda nell’età moderna

    5. Reformatio e cattolicità della Chiesa

    II. LE 95 TESI DI LUTERO: STORIA O LEGGENDA?

    1. Il primo giubileo della Riforma

    2. Che cosa accadde il 31 ottobre 1517?

    3. Una riflessione di fede da una coscienza sincera

    4. Non ci fu alcuna affissione

    5. Una mancata risposta

    6. Le Tesi riscritte in una catechesi per il popolo

    III. TRA CULTURA RELIGIOSA E PRATICHE SOCIALI: IL SISTEMA DELLE INDULGENZE AL PRINCIPIO DELL’ETÀ MODERNA*

    1. Il sistema delle indulgenze e la Fabbrica di S. Pietro

    2. La Bolla della Crociata, i Tribunali della Fabbrica di S. Pietro e la compartecipazione dei laici ai proventi delle indulgenze

    IV. RIFORMA PROTESTANTE E RIFORMA DELL’ARCHITETTURA RELIGIOSA

    La questione dottrinale

    I primi adattamenti al culto protestante

    L’elaborazione di nuovi tipi

    Parola, musica, architettura

    V. L’ARCHITETTURA A ROMA E LA RIFORMA LUTERANA

    VI. RIFORMA CONFESSIONALE E FORMA DELLA CITTÀ. STOCCOLMA, MODELLI CATTOLICI E CAPITALE LUTERANA

    1. Avvento del luteranesimo e identità nazionale svedese

    2. Westfalia, Cristina e la sprovincializzazione dell’architettura religiosa

    3. Città ideali e capitali riformate

    4. Nicodemus Tessin il giovane, i rapporti con Roma e il piano del 1713

    5. Dai modelli cattolici al mito romantico

    TEOLOGIA, ANTROPOLOGIA, POLITICA

    VII. LA RIFORMA PROTESTANTE E LA COSIDDETTA MODERNITÀ

    1. La difesa della libertà di coscienza

    2. Il valore della persona

    3. Le condizioni di possibilità della nascita della tolleranza

    VIII. «SOLA SCRIPTURA»: ESEGESI E TEOLOGIA TRA PROTESTANTI E CATTOLICI

    L’esegesi biblica italiana all’interno dell’esegesi biblica del ’900

    IX. LA DOTTRINA DELL’ANALOGIA TRA CATTOLICESIMO E PROTESTANTESIMO: TEORIA E PRASSI

    1. Introduzione

    2. Cattolicesimo e protestantesimo: antropologie a confronto

    3. Il dibattito ontologico

    4. Dall’essere all’agire

    BIBLIOGRAFIA

    X. LA RIVOLUZIONE ANTROPOLOGICA DI LUTERO E LE SUE CONSEGUENZE

    1. I prodromi del pensiero luterano

    2. La svolta di Lutero

    3. L’onda lunga della rivoluzione luterana

    4. Conclusioni

    XI. AUTORITÀ E LIBERTÀ. RIPENSARE UN’ALTERNATIVA (A PARTIRE DALLA RIFORMA DI LUTERO)

    1. Mediazione e immediatezza

    2. Autorità e libertà

    3. Ripensare l’alternativa

    XII. MISTICA E SOGGETTIVITÀ: L’INVENZIONE DELLO SPAZIO INTERIORE

    XIII. IL MERITO DELLA GRAZIA. ECHI DELLA RIFORMA E MERITOCRAZIA*

    1. Il paradigma moderno del merito

    2. La tensione moderna

    3. Una lunga storia

    4. Un caso esemplare

    5. La sostituzione della Grazia con il Merito

    6. Le contraddizioni del merito nella società contemporanea

    7. La Grazia della Natura e l’assiomatica economicistica del merito

    GLI AUTORI

    INDICE DEI NOMI

    CULTURA

    Studium

    145.

    La Dialettica

    Stefano Biancu (ed.)

    RIFORMA E MODERNITA'

    Prospettive e bilanci a 500 anni dalle tesi di Lutero

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    Volume pubblicato grazie al contributo della Libera Università Maria SS. Assunta di Roma

    Copyright © 2018 by Edizioni Studium - Roma

    ISBN 9788838247675

    www.edizionistudium.it

    INTRODUZIONE

    La vulgata vuole che il 31 ottobre 1517 Martin Lutero abbia affisso sulla porta della chiesa del castello di Wittenberg le sue famose 95 tesi sulle indulgenze: gesto a cui si fa tradizionalmente risalire l’inizio della Riforma protestante. Il saggio di Giancarlo Pani in questo volume pone in questione la verità storica di quei fatti, ma questo niente toglie agli effetti di lunga durata di quanto avvenne in quegli anni: non solo sul piano religioso, ma anche sul piano politico, sociale e culturale.

    L’iniziativa di Lutero fu presto seguita da altri riformatori – Huldrych Zwingli, Giovanni Calvino, John Knox e in seguito molti altri – e la Riforma protestante segnò così la prima grande divisione interna all’Europa Occidentale. Lo scisma del 1054 aveva precedentemente prodotto la divisione tra Chiesa latina e Chiesa greca, segnando al contempo la nascita dell’Occidente: un Occidente che potremmo caratterizzare – certo non senza qualche semplificazione di troppo – come aristotelico e pratico rispetto a un Oriente più decisamente platonico e mistico. La Riforma protestante introduceva ora una divisione al cuore stesso dell’Occidente. Divisione che – come detto – avrebbe prodotto una frattura non soltanto a livello ecclesiale e politico, ma anche sul piano culturale e intellettuale: l’autorità e la tradizione, da una parte, e la libertà e il pensiero critico, dall’altra, non sarebbero più riusciti a mantenere una sana tensione polare tra loro, assumendo le sembianze di due antagonisti in reciproca contraddizione. Il conflitto tra mediazione e immediatezza sarebbe da allora divenuto insanabile: in campo politico ed ecclesiale, ma anche filosofico, teologico, epistemologico, artistico, perfino economico (come proprio il caso delle indulgenze sembra attestare: si veda in proposito il contributo di Gaetano Sabatini e Renata Saibene).

    La riforma religiosa – protestante e poi cattolica – costituì in questo senso uno dei grandi eventi fondatori della modernità occidentale, tanto sul piano intellettuale (come mostrano i saggi di Stefano Biancu, Gabriella Cotta, Giampaolo Ghilardi, Michel Grandjean, Benedetta Papasogli, Giuseppe Tognon), quanto sul piano delle pratiche, come il caso dell’architettura evidenzia con grande efficacia (si vedano in proposito i saggi di Federico Bellini, Mario Panizza, Saverio Sturm).

    Sul piano religioso, che fu all’origine di quella frattura, qualcosa sta oggi cambiando, lentamente ma irreversibilmente. Tra cattolicesimo e ortodossia non esistono più serie divisioni di natura teologica. I motivi di divisione sono pressoché essenzialmente politici e – spesso – geopolitici. Anche tra cattolicesimo e protestantesimo si respira aria nuova. La partecipazione dei massimi livelli della Chiesa di Roma alle celebrazioni del quinto centenario della Riforma – papa Francesco il 31 ottobre 2016 ha partecipato in Svezia alla celebrazione comune cattolico-luterana – esprime in maniera tangibile che qualcosa di a lungo insperato si è prodotto: la memoria del passato non è più motivo di divisione, ma di unità. Non si annulla ciò che è stato, ma lo si rilegge insieme, quale appello al cambiamento rivolto ad entrambe le parti: la necessità di una riforma continua della chiesa – ecclesia semper reformanda – costituisce un imperativo per tutte le chiese cristiane (lo mette bene in luce, in prospettiva storica, il saggio di Emidio Campi, che riprende il testo della conferenza tenuta il 10 maggio 2017 nella sala della Protomoteca in Campidoglio).

    In questo particolare momento storico, sarebbe bello pensare che questo riavvicinamento tra differenze finalmente riconciliate possa produrre degli effetti anche sull’Europa della politica e delle istituzioni. Le Chiese cristiane hanno da tempo un impatto molto limitato sulle politiche del Vecchio Continente. Nessuna di esse ha oggi la forza di incidere in maniera efficace sui destini politici dell’Europa e non si deve necessariamente rimpiangere il tempo in cui questo era possibile: non solo la laicità delle istituzioni pubbliche è un valore, ma essa può rendere un servizio importante alle stesse fedi religiose (lo insegnava già Søren Kierkegaard due secoli fa: quando tutti sono per definizione cristiani, il rischio è che nessuno lo sia più per davvero). Difficilmente dunque il procedere delle Chiese verso un sempre maggiore riconoscimento e apprezzamento reciproco potrà portare, nell’immediato, a una riscoperta delle ragioni per vivere insieme sotto istituzioni e politiche comuni. Costituisce tuttavia un segno importante e ha una carica simbolica molto forte: non esistono muri che un giorno non possano crollare, incomprensioni e preclusioni che non possano svanire, egoismi e attaccamenti illusori ai propri spazi e al proprio potere che non possano venir meno.

    Le Chiese cristiane possono svolgere il ruolo di minoranze creative capaci di avviare processi di rinnovamento: se in generale la tendenza è oggi di chiudersi nel proprio piccolo e rassicurante spazio, immunizzandosi anche solo dal contatto col diverso, le Chiese cristiane possono mostrare che un’altra via è possibile: è possibile aprirsi all’altro, anche a quello che per secoli ha rappresentato un’alterità irriducibile e incompatibile. Un analogo contributo può giungere dal mondo della scienza, della cultura, delle arti. Da una accettazione reciproca di differenze tra loro non uniformate o omologate, ma profondamente accettate e riconciliate, può iniziare il risveglio dell’Europa e la riapertura dei destini della modernità, a 500 anni da uno dei suoi eventi fondatori.

    Questo volume, che nasce a valle di una serie di convegni promossi nel 2017 dal Coordinamento dei Rettori delle Università di Roma e del Lazio (CRUL), allora presieduto dal rettore Mario Panizza, vorrebbe idealmente – e umilmente – contribuire a questo: al risveglio di una coscienza europea oggi sopita e silente, minacciata da spinte centrifughe alimentate da paure e rancori spesso indotti ad arte.

    Un sentito ringraziamento all’intero gruppo di lavoro CRUL (Stefano Biancu, Luca Borghi, Marco De Nicolò, Pasquale De Santis, Giovanni Fiorentino, Marina Formica, Claudio Grassi, Emanuele Isidori, Mario Morcellini, Giovanni Orsina, Mario Panizza, Simona Rinaldi, Gaetano Sabatini, Renata Salvarani, Saverio Sturm) e a Francesco Bonini, rettore dell’Università LUMSA, per l’importante e fattivo sostegno scientifico, culturale ed economico, all’iniziativa e alla pubblicazione di questo volume.

    Il curatore

    FATTI E SPAZI

    I. CONSIDERAZIONI SUL CONCETTO DI REFORMATIO ECCLESIAE

    EMIDIO CAMPI

    1. Premessa

    Devo ammettere che, quando il signor Rettore dell’Università Roma Tre, professor Mario Panizza, mi ha fatto l’onore di invitarmi a tenere questa lezione a Roma, nella Sala della Protomoteca del Palazzo del Campidoglio, mi sono commosso. Mi sono sentito tornare bambino, quando ascoltavo a bocca aperta un divertente aneddoto sulla storica breccia di Porta Pia. Assieme alle truppe italiane fecero il loro ingresso in Roma anche due colportori di Bibbie nella bella versione secentesca del Diodati, con un carretto carico di copie della Sacra Scrittura e tirato da un cane gigantesco, cui i nostri due eroi avevano messo nome nientemeno che Pio Nono. Un episodio minuscolo, ma che nel clima del tempo poteva assumere il significato di un simbolo, poiché lo stesso pontefice venti anni prima nell’enciclica Nostis et nobiscum aveva esortato i vescovi italiani ad impegnarsi «affinché le pecore fedeli si tengano lontane dalla lettura di quei testi pestiferi» [1] . Per gli italiani, il 20 settembre 1870 rappresentava il compimento di un lungo e travagliato cammino verso l’indipendenza e l’unità nazionali. Ma per coloro che, oltre ad essere italiani, erano anche evangelici, quell’evento aveva un significato ancor più grande e suggestivo. Pochi, tra gli evangelici italiani di allora, dubitavano che non si trattasse di un passo decisivo verso la riforma religiosa del loro popolo, purché gli fosse data la possibilità di adire liberamente alle Sacre Scritture.

    Ho sentito l’invito del Rettore Panizza come un onore fatto non a me, ma proprio ai quattro gatti di protestanti da cui discendo, per i quali la Sacra Scrittura fu e resta qualcosa di tremendamente serio, rappresenta il riferimento imprescindibile per ogni discorso e per ogni autentica opera di riforma della Chiesa. E dirò anche che questo invito a riflettere sul significato della Riforma mi ha ancor più commosso perché non sono del tutto sicuro che oggi, se Martin Lutero tornasse in vita, si troverebbero gran che a suo agio in alcune delle celebrazioni, con cui in molti paesi lievitati dalla Riforma si sta solennizzando il 500 anniversario dell’affissione delle sue 95 tesi [2] . Sono commemorazioni spesso all’insegna di un tale autocompiacimento che talvolta riesce perfino difficile capire come sia possibile conservare i frutti religiosi, culturali, sociali, politici, economici della Riforma, senza passare attraverso la Anfechtung, la grande prova spirituale della Riforma stessa, senza che ogni giorno non risuoni in qualche modo il messaggio di contraddizione e di salvezza delle Tesi di Wittenberg compendiato nella frase: «Il vero tesoro della Chiesa è il sacrosanto Vangelo della gloria e della grazia di Dio».

    Noi siamo qui riuniti per riflettere sul significato di quella Riforma iniziata da Lutero e proseguita da Filippo Melantone, Ulrico Zwingli e Giovanni Calvino. Abbiamo quanto meno il dovere di non trasformare questa riflessione in una pia leggenda, ponendoci sul terreno della critica storica, anziché dell’oleografia sentimentale o confessionale. Allo stato attuale degli studi, sarebbe riduttivo, o addirittura fuorviante, addentrarsi in una riflessione del genere prescindendo da una veduta d’insieme del significato del termine «riforma» nella storia del cristianesimo [3] . Senza presumere di esaurire un tema tanto complesso, nelle considerazioni che seguono mi limiterò a spigolare in alcune interpretazioni patristiche e soprattutto medievali della locuzione reformatio ecclesiae, darò conto dell’uso che ne fu fatto nelle controversie confessionali del XVI secolo e nel cristianesimo dell’ età moderna. Infine mi soffermerò sul significato odierno del nostro termine in una prospettiva ecumenica [4] .


    [1] Enciclica Nostis et nobiscum del Sommo Pontefice Pio IX dell’8 dicembre 1849, in https://w2.vatican.va/content/pius-ix/it/documents/enciclica-nostis-et-nobiscum-8-dicembre-1849.html ; G. Spini, Ancora sulle Società bibliche e l’Italia del Risorgimento, in Id., Studi sull’evangelismo italiano tra Otto e Novecento, Claudiana, Torino 1994, pp. 87-98; G. Zizola, La Bibbia sconosciuta, in «la Repubblica», 17 dicembre 2010, accessibile al sito: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/12/17/la-bibbia-sconosciuta.html.

    [2] H.-M. Barth, Reformationsgedenken 2017 – Versuch einer Bilanz, in «Materialdienst des Konfessionskundlichen Instituts Bensheim» LXVIII, 2017, pp. 90-95; Kirchengeschichte 500 Jahre Reformation, Numero speciale della rivista «Verkündigung und Forschung» LXII, 2017, spec. pp. 77-92.

    [3] A modo di sintesi si veda: Reformationsforschung in Europa und Nordamerika: eine historiographische Bilanz anlässlich des 100. Bandes des Archivs für Reformationsgeschichte // Reformation research in Europe and North America: A Historical Assesment, in «Archiv für Reformationsgeschichte» C, 2009; P.G. Wallace, The long European Reformation : Religion, Political Conflict, and the Search for Conformity, 1350-1750, 2 ed., Palgrave Macmillan, Basingstoke 2012 (trad. ital. della 1 ed. del 2004: La lunga età della Riforma, Il Mulino, Bologna 2006); E. Cameron, Nearly 500 years and still Counting: The Reformation in Recent Scholarship and Debates, in «The Expository Times» CXXVI, 2014, pp. 1-14.

    [4] Pieni di indicazioni, che possono integrare vari luoghi del testo, sono i seguenti saggi: S.G. Bárczay, Ecclesia semper reformanda. Eine Untersuchung zum Kirchenbegriff des 19. Jahrhuderts, EVZ, Zürich 1961; G. Maron, Zum Gespräch mit Rom. Beiträge aus evangelischer Sicht, Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht, 1988 («Was heisst Reformation», pp. 14-29; «Reform und Reformation», pp.. 45-71); T. Mahlmann, „Ecclesia semper reformanda". Eine historische Aufklärung, in Theologie und Kirchenleitung. FS für Peter Steinacker, a cura di H. Deuser et al., Elwert, Marburg 2003, 57-77; T. Mahlmann. „Ecclesia semper reformanda": eine historische Aufklärung. Neue Bearbeitung, in Hermeneutica sacra: Studien zur Auslegung der Heiligen Schrift im 16. und 17. Jahrhundert. FS Bengt Hägglund zum 90. Geburtstag, a cura di T. Johansson, R. Kolb, J. Anselm, De Gruyter, Berlin 2010, pp. 381-442; S. Xeres, Ecclesia semper reformanda. Un itinerario storico, in «Teologia» XXIX, 2004, pp. 152-179; M. Busch, Calvin and the Reformanda Sayings, in Calvinus sacrarum literarum interpres. Papers of the International Congress on Calvin Research, a cura di H.J. Selderhuis, Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht, 2008, 285-299; E. Campi, Ecclesia semper reformanda. Metamorphosen einer alterwürdigen Formel, in «Zwingliana» XXXVII, 2010, pp. 1-19.

    2. La concezione medievale della reformatio ecclesiae

    C’è appena bisogno di sottolineare che il verbo reformare nel latino classico ha due accezioni fondamentali: «tornare a una forma primitiva», oppure «rendere migliore» [1] . Entrambi i sensi confluiscono nella letteratura cristiana antica, sebbene prevalga il secondo. Pertanto anche il sostantivo reformatio è usato per lo più nel senso di emendazione, rinnovamento. Negli scritti di Tertulliano, Ambrogio e Agostino ricorre l’espressione refomatio in melius per Deum con una connotazione etica che si riferisce tendenzialmente al rinnovamento della condotta di vita dei fedeli, ma che si arricchisce via via di sfumature ecclesiali. L’antico adagio « ecclesia semper reformanda », che da qualche anno in qua viene riesumato con insolita frequenza negli ambienti ecclesiastici, benché venga più volte attribuito ad Agostino, non è attestato nei suoi scritti, mentre vi compare la locuzione « reformatio ecclesiae », riferita per lo più alla riacquisizione della forma originaria in vista dell’avvenire [2] .

    L’idea di reformatio divenne rilevante, anzi fu introdotta nella storia europea da una forza di prim’ordine, uno dei fattori decisivi del cristianesimo occidentale: il movimento monastico. Nel contesto delle riforme monastiche dell’Alto Medioevo il verbo reformare assunse ben presto un significato proprio e specifico, affine a quello dell’italiano emendare, rinnovare; il sostantivo reformatio seguiva il significato del verbo ed esprimeva l’idea dell’ emendazione, del rinnovamento [3] . In fondo Benedetto da Norcia (480-547), oppure Benedetto di Aniane (750-821), a cui Ludovico il Pio affidò il compito di estendere la regola benedettina a tutti i monasteri del regno franco, furono dei «riformatori», in quanto non fondarono il monachesimo, ma si impegnarono in riforme per arrestare e contrastare il rilassamento della disciplina e riportare al primitivo rigore la vita dei religiosi regolari. Dalla svolta del millennio nuove ondate di riforme monastiche percorsero l’Europa. Si pensi alla riforma cluniacense, così chiamata perché ebbe la sua origine nell’abbazia benedettina di Cluny, in Borgogna, ma che nel X e XI secolo con la sua fitta rete di monasteri rinnovò profondamente la vita monastica europea per ricondurla alla sua ispirazione originaria. Oppure si pensi alla riforma cistercense del XII, che fu vivacissima di fervore spirituale ed ebbe non poco influsso nella storia del pensiero medievale attraverso un animatore di eccezionale vigore intellettuale quale Bernardo di Chiaravalle. Si pensi ancora ai domenicani, l’ordine dei predicatori fondato da Domenico di Guzmán nel 1206, oppure ai francescani, l’ordine dei frati minori che ebbe origine dal gruppo di seguaci di Francesco d’Assisi, costituito a partire dal 1208, cui si aggiunsero nel 1212 le monache clarisse. Sia le riforme monastiche, sia la fondazione di nuovi ordini ebbero effetti positivi non solo nella purificazione e nel risveglio della vita monastica, ma anche nella vita della chiesa. Infatti, l’aspirazione alla perfezione evangelica rappresentò uno stimolo a combattere due gravi mali che affliggevano la chiesa medievale: la simonia e l’immoralità del clero secolare.

    Proprio per questi motivi, dal secolo XII l’Occidente cristiano divenne un magma ribollente: albigesi, catari, valdesi, i seguaci di Arnaldo da Brescia, gli Umiliati aprirono la contestazione all’interno del corpus christianum [4] . Il messaggio profetico di Gioacchino da Fiore (1145-1202) passò come soffio d’una nuova età dello Spirito, ed ovunque la difformità della chiesa dal modello apostolico fu additata dai predicatori del popolo che invocavano la renovatio, la reformatio come fatto istituzionale e di costume [5] .

    La stessa chiesa ufficiale era consapevole della decadenza morale in cui era caduta e tentava di porvi rimedio. Sotteso a quella che è comunemente nota come «riforma gregoriana», ossia l’ampio e articolato processo di trasformazione interna della Chiesa e di ripensamento dei suoi rapporti con l’autorità temporale avvenuto tra gli anni Quaranta del secolo XI e i primi due decenni del secolo successivo, vi era l’anelito di ritornare alla purezza della Chiesa primitiva, di ricreare la ecclesiae primitivae forma. L’eredità gregoriana raggiunse il suo apogeo con Innocenzo III (1198-1216). L’accorato appello alla reformatio ecclesiae in capite et in membris, con cui egli aprì il quarto concilio lateranense nel 1215, rimase inascoltato. Inoltre, il lungo periodo avignonese del papato, dal 1309 fino al 1378, iniziò l’inesorabile declino della Chiesa latina che fu all’origine del Grande Scisma di Occidente (1378-1414), il quale lacerò la cristianità occidentale, dividendola in due, per un tempo perfino in tre obbedienze papali, ognuna delle quali giurava sulla legittimità del proprio pontefice e della propria gerarchia ecclesiastica.

    In questo clima di tempesta, che addirittura invitava ad essere interpretato in chiave apocalittica, la tanto necessaria e vagheggiata reformatio ecclesiae in capite et in membris diventò quasi un motto popolare per indicare un’impresa che non avrà nessuna possibilità di successo [6] . I concili di Vienne (1312), Costanza (1414-1418), Basilea (1431), Firenze (1439) ed altri ancora ricercarono tutti la riforma della Chiesa, senza tuttavia realizzarla a causa di una gerarchia e di un papato per molti versi non all’altezza delle sfide del tempo [7] . È degna di rilievo la definizione del termine reformatio data da Giovanni di Segovia (c. 1395-1458), l’autorevole segretario del concilio di Basilea. La riforma – egli asseriva – si concreta attraverso la «moralizzazione dei costumi, onde estirpare i vizi e progredire nelle virtù». [8] Ciò che il teologo spagnolo suggeriva era in sostanza un intervento contro la dilagante corruzione ecclesiastica e il ripristino delle virtù cristiane. La sua concezione della riforma della Chiesa, in fondo, non era dissimile dal modello proposto nella Reformatio Sigismundi, un anonimo manifesto politico messo in circolazione all’epoca del concilio di Basilea e attribuito falsamente all’imperatore Sigismondo, nel quale si auspicava una trasformazione radicale dell’assetto sociale dell’impero e una forte azione di moralizzazione della chiesa [9] .

    Ma intanto con i predicatori del Christus pauper, come John Wyclif (c.1331-1384) e i Lollardi in Inghilterra, Jan Hus (1369-1415 ) in Boemia, o Savonarola (c. 1452-1498) a Firenze, il dissenso diventava eresia socio-religiosa [10] . Da questa parte, non si attendeva più la renovatio ecclesiae in capite et membris, ma ci si ispirava piuttosto al precetto evangelico di «scuotere la polvere dai propri calzari». Dinanzi ad una condizione compromessa irrimediabilmente, spuntava l’idea dell’esodo dalla chiesa divenuta il faraone-anticristo.

    Anche gli umanisti e le università sentirono i tempi. Non sarebbe difficile allineare gran copia di testi, lungo tutto l’arco del secolo XV o gli albori del XVI, da cui traspare, anche se in modi diversi e perfino opposti, la convinzione che la renovatio era in atto o era imminente e che i tempi erano maturi anche per il rinnovamento della Chiesa. È sufficiente qui ricordare alcuni umanisti illustri come Lorenzo Valla (1405/1407-1457), Giannozzo Manetti (1396 -1459), Francisco Jiménez de Cisneros (1436-1517), Johannes Reuchlin (1455-1522) , Lefèvre d’Etaples (1455/60-1536), John Colet (1467-1519), Thomas More ( 1478 - 1535 ), Juan Luis Vives (1492-1540) e soprattutto Erasmo ( 1466 / 1469 - 1536 [11] . È vero che alcuni di essi si arroccarono nella difesa del passato, come il cardinale Jiménez de Cismeros, che fu bensì il promotore della monumentale Bibbia Poliglotta Complutense , la prima edizione stampata di Bibbia multilingue della storia, ma ebbe anche tanta parte nella riorganizzazione della Inquisizione spagnola; oppure Thomas More, il quale impiegò tutte le mirabili risorse del suo pensiero per difendere la tradizione, compresa l’autorità papale e la venerazione delle reliquie che, come autore di Utopia, sembrava un tempo rifiutare; lo stesso Erasmo, l’intellettuale che più di ogni altro scosse le fondamenta del grande edificio della Chiesa rinascimentale, rimase sempre al margine della bufera del suo tempo. Tuttavia non di rado si sottovaluta nella storiografia sulla Riforma che furono gli umanisti cristiani ad affermare la preminenza della Scrittura sui suoi commentatori prima ancora che esplodesse il moto riformatore, fornendo innanzitutto gli strumenti filologici, linguistici e storici per facilitarne la comprensione e cogliere il senso autentico del testo. Si pensi alle Adnotationes in Novum Testamentum del Valla (1444; pubblicate postume da Erasmo nel 1505), al De rudimentis hebraicis (1506) di Reuchlin, la prima grammatica ebraica pubblicata da un cristiano, al Quintuplex Psalterium di Lefèvre d’Étaples (1509), all’edizione critica del Nuovo Testamento di Erasmo, noto appunto con il nome di Novum Instrumentum (1516), tutte opere di cui si servirono ampiamente i Riformatori nel loro lavoro esegetico [12] . In secondo luogo, gli umanisti condussero con energia la loro battaglia contro la teologia di matrice scolastica. Senza addentrarsi nell’esemplificazione, basti ricordare due opere impossibili da ignorare per coloro che in quel tempo aspiravano ad un profondo rinnovamento ecclesiale. La prima è il diffusissimo trattato del Valla, De falso credita et ementita Constantini donatione (scritto intorno al 1440, ma pubblicato per la prima volta a Strasburgo nel 1506), con il quale l’autore non soltanto smascherava lo straordinario mendacium che per secoli aveva permesso alla Chiesa di giustificare il proprio potere temporale, ma facilitava in maniera non trascurabile lo sviluppo di un nuovo metodo teologico e della stessa teologia, avvicinandola alla Scrittura [13] . La seconda opera è la Ratio seu methodus compendio perveniendi ad veram theologiam di Erasmo, che avrebbe dovuto fungere da introduzione alla seconda edizione del suo Nuovo Testamento, ma che fu pubblicata come saggio autonomo nel 1518. Sebbene editorialmente separati, i due testi sono correlati tra loro e veicolano un unico messaggio: l’insofferenza nei confronti delle tradizioni ecclesiastiche e dei teologi scolastici e l’esigenza di ancorare lo studio della teologia nella Bibbia, da lui definita icasticamente sacra ancora [14] . Considerato in senso più lato, infine, l’umanesimo cristiano denunciò coraggiosamente il modus operandi ecclesiale, come fece ad esempio Erasmo nel suo celebre Enchiridion militis Christiani, sostenendo la necessità di un rinnovamento radicale della coscienza cristiana mediante il ritorno alle fonti del cristianesimo.

    Il 3 maggio 1515, all’apertura del V concilio Lateranense, l’orazione inaugurale fu pronunciata dal priore generale degli Agostiniani Egidio da Viterbo (1469-1532). Egli non illustrò proposte concrete all’assemblea, ma azzardò la profezia che una nuova età stava per schiudersi, nella quale la Chiesa sarebbe stata restituita alla sua povertà, purezza, castità, santità, insomma alla sua perfezione originaria. Il papa Giulio II e i padri conciliari avrebbero dovuto essere i principali agenti della rinascita [15] . La svolta tanto attesa non ci fu e, se mai, fu una svolta del tutto contraria alle attese, perché non si ebbe o il coraggio o la capacità di aprire un

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