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La visita alle Arene delle 30 squadre Nba come giornalista di Gazzetta dello Sport e Sky Sport dagli Usa per raccontare i retroscena del mondo della pallacanestro americana e i vasi comunicanti dello sport statunitense. Un capitolo per ognuna delle 30 franchigie, oltre 50 interviste ai campioni Nba, i retroscena delle 224 partite Nba viste live con accesso agli spogliatoi.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateDec 7, 2018
ISBN9788827861561
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    30su30 - Riccardo Pratesi

    Indice

    ATLANTA HAWKS - State Farm Arena: pallacanestro tra il parco olimpico e il museo della Coca Cola nella capitale del Sud

    BOSTON CELTICS - TD Garden: tra tradizione e mago Stevens. Quando Datome…

    BROOKLYN NETS - Barclays Center: parvenu di classe tra patisserie e vodka. Bye bye ai ricordi New Jersey

    CHARLOTTE HORNETS - Spectrum Center: fra Duke e North Carolina prove di Buzz City

    CHICAGO BULLS - United Center: Jordan l’ha reso monumento. Poi la Windy City ha spazzato via Rose

    CLEVELAND CAVS - Quicken Loans Arena: il Regno di LeBron

    DALLAS MAVERICKS - American Airlines Center: il regno di Cuban governato da un tedesco. Nella terra del football

    DENVER NUGGETS - Pepsi Center: da Melo al Gallo. Montagne russe in Colorado

    DETROIT PISTONS - Palace of Auburn Hills: la casa dei Bad Boys ha chiuso. A Motor City si gioca midtown

    GOLDEN STATE WARRIORS - Oracle Arena: la plebea Oakland e il sangue blu di Curry. La tana dei mostri

    HOUSTON ROCKETS - Toyota Center: tutto è più grande in Texas, pure la barba di Harden

    INDIANA PACERS - Bankers Life Fieldhouse: Hoosier State, dove ogni casa ha un canestro

    LOS ANGELES CLIPPERS - Staples Center: storia da Paperino per l’altra LA. Colpa d’una maledizione

    LOS ANGELES LAKERS - Staples Center: anno 1 dell’era LeBron. E poi Kobe, Show Time e la meglio gioventù di Walton

    MEMPHIS GRIZZLIES - FedExForum: La chiamano Grindhouse. Tra fantasmi di Elvis, Beale Street e i Gasol

    MIAMI HEAT - AmericanAirlines Arena: dalla spiaggia in infradito. Tifosi turisti per LeBron/Wade. Ma ora?

    MILWAUKEE BUCKS - Bradley Center: dalle parti di Happy Days. Torneranno col Greek Freak?

    MINNESOTA TIMBERWOLVES - Target Center: il futuro è adesso. Skyway in cielo, cinema Butler sul parquet

    NEW ORLEANS PELICANS - Smoothie King Center: la Big Easy fa la difficile. Davis tra jazz e Bourbon Street

    NEW YORK KNICKS - Madison Square Garden: l’ombelico del mondo. Ma ai Knicks serve ancora pazienza

    OKLAHOMA CITY THUNDER - Chesapeake Energy Arena: il pubblico più universitario dell’Nba. E Seattle piange

    ORLANDO MAGIC - Amway Center: a Disneyland ci si divertiva di più con Shaq e Howard…

    PHILADELPHIA 76ERS - Wells Fargo Center: dopo Iverson sarà Trust the Process la risposta?

    PHOENIX SUNS - Talking Stick Resort Arena: Soli tra nostalgie di Nash e il raggio di speranza Booker

    PORTLAND TRAIL BLAZERS - Moda Center: tra il Quartier Generale Nike e il generale Lillard

    SACRAMENTO KINGS - Golden 1 Center: Cowbells nell’Arena da concerti. Con Cousins più stecche che acuti

    SAN ANTONIO SPURS AT&T - Center: Pop, il River Walk, l’anello di Beli e la lavagna di Messina

    TORONTO RAPTORS - Scotiabank Arena: the North. Da Bargnani a Jurassic Park, dopo Vincè e Vince

    UTAH JAZZ - Vivint Smart Home Arena: il tempio di Stockton e Malone e il tradimento di Hayward…

    WASHINGTON WIZARDS - Capital One Arena: all’ombra della Casa Bianca i maghi vogliono riapparire…

    L’AUTORE

    INTRODUZIONE

    Le trenta Arene Nba come fotografia del profilo sportivo dell’America. La loro visita come pretesto per il racconto dei diversi modi in cui è declinata la pallacanestro nelle città delle franchigie, nel loro Stato, tra i 50 statunitensi. Dallo storico Madison Square Garden di New York all’AT&T Center di San Antonio, Texas, terra della palla ovale. Dall’Oracle Arena dei Warriors, nella Bay Area, a casa LeBron, Cleveland. Un Maggiolone rosso per accompagnare il lettore on the road, l’accredito al collo per farlo entrare negli spogliatoi Nba, a conoscere i personaggi oltre la figurina. Poi gli aneddoti, il dietro le quinte dei canestri d’oltreoceano. Il concetto di franchigia itinerante in base al business, il sistema del tetto salariale come pari opportunità, una lega di giocatori, con allenatori di contorno. Anzi di stelle, col fischio arbitrale assicurato. L’approccio da show per il pubblico, alle partite, tra hot dog e soda, i fantasy games macchine da soldi, il giro di scommesse sportive da capogiro. I media americani, quelli dei podcast, ma pure del politicamente corretto. La vita a San Antonio e Sacramento, dove Spurs e Kings sono l’emblema della città, il primo e l’ultimo argomento di conversazione quotidiano. Quella a Minneapolis, dove i Wolves sgomitano per uno scorcio della vetrina riservata ai Vikings di Nfl e Cecilia Zandalasini s’è ritagliata uno spazio nella gloriosa storia delle Lynx. Poi le interviste mirate: Belinelli, Gallinari, Datome, Messina e Pascucci raccontano i loro spicchi d’America, dove hanno vissuto, giocato, allenato, fatto i dirigenti. E ancora le testimonianze di Fois, assistente sardo di Gonzaga University, e Cessell, ragazzo toscano cha ha giocato al liceo di McGrady, in North Carolina. Un affresco d’America completo, non solo quello dei milionari. E poi pallacanestro e football universitario raccontate dai 50 campus visitati, le partite Nfl dagli stadi: per contestualizzare la realtà sportiva dei giganti Nba in ogni città. Un capitolo per squadra, per le 30 franchigie. Un taglio reale, informato, quotidiano. Da insider con 224 partite Nba viste live da cronista. Senza filtri. Con fonti dirette, retroscena raccontati dopo averli visti coi propri occhi. Senza hotel a 5 stelle da realtà virtuale/occasionale o fanatismi coi paraocchi. Per chi è appassionato di Nba e di sport americani. Per chi è appassionato d’America o anche solo di viaggi. Per chi vuole fare 30/30. Senza sbagliare.

    ATLANTA HAWKS

    State Farm Arena: pallacanestro tra il parco olimpico e il museo della Coca Cola nella capitale del Sud

    Dominique Wilkins come emblema, e il passato prossimo di un Coach chiamato Bud, come la popolare birra americana. Gli uomini Hawks fanno molto Atlanta, la capitale del Sud degli Stati Uniti. I Falchi come vanto, dal 1958, dopo le planate su Milwaukee prima e Saint Louis poi. Atlanta col suo disincanto, i ritmi di vita lenti, l’affresco sbiadito, ma non certo dimenticato della guerra di secessione americana, vista dalla prospettiva di chi l’ha persa. Terra cantata da Luke Bryan, ragazzo di casa, uno dei simboli della musica new country. Nei testi, immancabili, le parole truck e boots: furgone e stivali. Gli Hawks declinati Atlanta hanno avuto tanti campioni: da Nique a Malone, da Maravich a Mutombo, ma non sono mai riusciti a vincere un titolo Nba. Wilkins ha una statua dedicata, davanti alla State Farm Arena. Ed è ancora in squadra": copre gli Hawks da anni per la televisione locale, in giro per gli States. In sala stampa lo scorgiamo di riflesso, incuriositi da una bionda appariscente, reporter televisiva. Trattasi di Olivia Harlan, figlia di Kevin Harlan, uno dei telecronisti di punta di Tnt, che tutto il mondo è Paese, quando si parla di nepotismo. Olivia ovviamente divide il tavolo con lui. Il prodotto di Georgia University, ad Athens, poi bandiera Hawks dal 1982 al 1994. Un atleta irreale, all’inizio dell’era degli atleti irreali Nba.

    COACH BUD E MR HILL – Wilkins, che ha pure giocato per Bologna, sponda Fortitudo, ai tempi di Basket City, nella stagione 1997-98, è l’anello di congiunzione tra il passato e il presente Hawks. Che, dopo la parentesi di Coach Budenholzer, o meglio, Coach Bud, prodotto della scuola di un altro allenatore Nba col cognome troppo complicato per i gusti di queste parti, Popovich, si chiama Trae Young. L’hanno preferito a Doncic al Draft, sono andati all in, come neanche in un casino di Vegas, sdoganata adesso in chiave sport americani, scommettendo sul nuovo Curry, come raggio di tiro e impudenza realizzativa. C’è una nuova proprietà: con Grant Hill come faccia giusta della franchigia. Figlio di un campione di football americano, Calvin Hill - per tante famiglie afroamericane non è scontato che il cognome sia tramandato di padre in figlio: tanti ragazzi prendono quella della madre che li ha allevati da sola, dopo che il papà naturale è sparito -, Grant è stato un fenomeno a Duke prima, e in Nba poi. Sette volte All Star durante una carriera professionistica durata 20 anni, ostacolata da mille infortuni. Ha dato lezioni di pallacanestro e di stile, dentro e fuori dal parquet. Di perseveranza. Gli è mancato un anello al dito, proprio come ad Atlanta. Provano a togliersi lo sfizio assieme, ora. C’è una nuova proprietà dopo che l’eterno conflitto razziale mai completamente risolto nella capitale del Sud degli Usa era riemerso di nuovo. Anche in ambito sportivo, dagli Hawks. Il precedente padrone, Mr Levenson, si era lasciato sfuggire via mail un compromettente: Basta con questa musica hip hop all’Arena, mettiamo su qualcosa che attragga 40enni bianchi alle partite. Anche le cheerleaders sono nere, come il 70% del pubblico. Il pubblico afroamericano spaventa il potenziale spettatore bianco, quello con i soldi, per cui fatichiamo in chiave abbonamenti stagionali. Apriti cielo. Aveva peggiorato le cose il General Manager, Danny Ferry, gloria di Duke come Hill (il circolo della pallacanestro pro Usa è piccolo, per esclusività) quando aveva letto la relazione di uno scout sull’inglese di origine sudanese Deng, obiettivo di mercato degli Hawks: Un bravo ragazzo, nel complesso, ma nessuno è perfetto. Ha un po’ d’africano in sé. Apriti cielo. Inevitabilmente, quando l’audio di quel commento (letto in riferimento a un’analisi altrui durante una riunione dirigenziale, non farina del sacco di Ferry) era divenuto di dominio pubblico, diffuso dall’Atlanta Journal-Constitution. Avventura finita per Ferry, una parentesi da giocatore a Roma, che pure da GM aveva fatto un capolavoro costruendo, pur senza accatastare stelle, la squadra col miglior record a Est nella stagione 2014-15. E cambio di proprietà dietro l’angolo. Dentro la faccia giusta: quella di Hill, nella cordata del gruppo acquirente capitanato da Tony Ressler. Hill, afroamericano, vincente, che parla forbito, politicamente schierato, sul campo, con la democratica Hillary Clinton durante la campagna presidenziale del 2016. L’Nba che aiuta a valorizzare la franchigia: all’All Star Game del 2015 vengono chiamati quattro Hawks. Oltre ai plausibili Horford e Millsap, pure gli intrusi Teague e addirittura Korver, scelto dal Commissioner Silver come rincalzo degli infortunati. Per entrambi la prima e verosimilmente ultima chiamata alla gara delle stelle. Ma così tutto il mondo Nba parla del fenomeno Hawks: micidiali senza stelle, grazie al gioco di squadra. Un progetto sportivo così promettente non va compromesso con scivoloni mediatici in una terra, per forza di cose, sensibile al razzismo come poche altre. Il passaggio di proprietà va in porto. Da allora gli Hawks hanno fatto come i gamberi: sono andati indietro, come risultati. Non per colpa di chi è subentrato: piuttosto quel gruppo di giocatori era andato oltre i propri limiti, aveva raggiunto le Colonne d’Ercole. Nonostante Coach Bud continuasse a predicare spaziature e campo allargato, a chiedere un passaggio in più, quello per il tiro migliore. Atlanta a Est è diventata Calimero. In quattro stagioni ha fatto il testacoda: da prima a ultima a Est. La strada per la risalita è lunga e tortuosa, ma se Young….

    NBA DI CONTORNO – In Georgia c’ero passato durante un viaggio on the road, nel 2006, partito da Washington, intesa come DC, e con capolinea Miami. Savannah m’aveva folgorato: sembra d’intrufolarsi dentro una pagina di Via col vento. Atmosfera decadente, crepuscolare, con l’enorme main street semi-deserta, negozietti sui due lati, ville da latifondisti sullo sfondo. Tanto caldo, poche persone in giro e quasi tutte afroamericane. Ma niente Atlanta, allora. Il mio impatto con il nido degli Hawks, allora chiamato Philips Arena, col vecchio sponsor, è invece datato 5 aprile 2013. Atlanta-Philadelphia. Non proprio una partitissima, con i 76ers in pieno The Process, allora, e gli Hawks che dovevano ancora spiegare le ali, solo sesta forza a Est. Vince Philly in trasferta, addirittura, con Evan Turner scatenato, dentro un’Arena piena solo per metà e non particolarmente coinvolta dalle vicende di serata. Pure la mia presenza all’Arena era una digressione episodica. Ero in città per le Final Four di college basket, piuttosto. Con Atlanta messa sottosopra dalla March Madness, dalla sua appendice d’aprile, quella che incorona la squadra campione. Louisville, Michigan, Syracuse e la Cenerentola Wichita State come semifinaliste: tifosi, soprattutto dal Kentucky e dal Michigan, che colorano di rosso e di giallo le vie cittadine. Prezzi alle stelle, alberghi che andavano prenotati mesi prima per non essere rapinati, rivendita di biglietti con cresta da grattacielo dei tifosi che aspettavano la loro squadra/alma mater, ma non l’hanno mai vista arrivare, eliminata durante le sfide a tabellone tennistico nel tabellone delle 68 invitate al Grande Ballo. Gli eventi di contorno, poi. Per me circoscritti al concerto di Sting, al Parco Olimpico. Semmai, come evento personalizzato, appunto, gli Hawks. E la visita al campus di Georgia Tech, quello dove ha giocato Bosh, la Yellow Jacket Nba più illustre, di recente. Con l’autostrada – trafficatissima – sopra la testa. Niente di indimenticabile, ma estremamente centrale per gli studenti. E Atlanta ha parecchie tentazioni da offrire a ragazzi da 18 a 22 anni. Avevo approfittato dell’occasione fornita dalle Final Four persino per andare a vedere la mia prima partita di baseball di sempre: Braves-Cubs. Quattro anni dopo quei Chicago Cubs che mi venivano descritti come il Brutto Anatroccolo dell’Mlb, avrebbero scritto una storia di sport indimenticabile, che avrei vissuto da americano, per residenza, emozionandomi davanti alla televisione. Comunque, tutti eventi che orbitavano attorno alle Final Four in quell’aprile 2013. Il piatto forte di primavera fu il trionfo di Rick Pitino e dei suoi Cardinals, trascinati dal carneade Hancock, miglior giocatore di quella Final Four. Il cui cognome, a distanza solo di pochi anni, viene semmai abbinato al film con Will Smith protagonista. Ma eroe per un giorno, allora. Eroe nel giorno più importante.

    PALLA OVALE - La finalissima universitaria si giocava al Georgia Dome, pochi minuti a piedi dalla Philips Arena. Tutto in zona: il CNN Center, la tv d’Atlanta famosa in tutto il mondo, persino il museo della Coca Cola. Visitato. Non vi scandalizzate: gli Usa non vantano esattamente Firenze o Venezia. In mancanza della Galleria degli Uffizi, il museo della bevanda nera dalla formula misteriosa rappresenta un giocoso diversivo, con assaggi di ogni gusto, in quantità, compresi nel prezzo d’ingresso. E trovate sempre la fila: gli Usa saranno poveri di storia rispetto al Vecchio Continente, ma quando c’è da vendere qualcosa per accumulare dollari sanno essere ricchi di fantasia. Accennavamo al Parco Olimpico, poi, sempre downtown. Quello dei Giochi di Atlanta del 1996, quelli col fuoco accesso da Alì, quelli di Michael Johnson imprendibile in pista. Quello dell’attentato terroristico da due morti e oltre 100 feriti, durante i Giochi. L’avrei poi rivisto e ammirato, quel parco, con più calma nell’inverno dello stesso anno. Stavolta di passaggio in città, prima di virare verso Nord, direzione Washington e New York. Ma d’inverno Atlanta è aeroporto affidabile: clima che evita le spiacevoli sorprese all’ordine del giorno negli Usa, la cancellazione dei voli per maltempo o, peggio, per gli effetti collaterali o persino presunti del maltempo. Quelli previsti dal protocollo a prescindere dalla sostanza. Per i quali scatta il commercio delle miglia in overbooking post cancellazioni/ritardi: le compagnie offrono futuri viaggi a chi lascia il posto al malcapitato che arriva di rincorsa. Gli acquirenti senza fretta non mancano mai. E nell’immediato s’accontentano della coincidenza aerea successiva o di rimbalzare a destinazione provenienti da un altro aeroporto, con tappa intermedia. Ma in quel fine novembre 2013 avevo osato troppo: arrivo con volo intercontinentale su Atlanta e, sfruttando le sei ore di fuso favorevole, azzardo la sortita dai Falcons, a vedere il football. Non erano i Falcons edizione 2017, quelli piegati al Super Bowl solo da un onnipotente Tom Brady al supplementare, ma la sfida tra Ryan e Brees, quarterback superlativi, era comunque da non perdere. Atlanta contro New Orleans, dunque, al solito Georgia Dome, quello delle Finals Four, casa dei Falcons sino al 2017. È di quest’anno il trasferimento al Mercedes Benz Stadium. Uno di quei casi in cui il fuso orario batte i ricordi: in testa restano l’ora abbondante di fila fuori dallo stadio perché prima di 90’ dal kick off proprio non fanno entrare, le reminiscenze di qualche lampo di Brees per il successo ospite e il pandemonio di una città pazza per il football più che per la pallacanestro, come tutta la Georgia. Terra soprattutto di palla ovale.

    SIPARIETTO IN SPOGLIATOIO - Ricordi nitidi invece su un episodio targato Hawks che mi è rimasto bene in testa, indicativo della quotidianità di uno spogliatoio Nba, ma pure dei media americani. La location è il Golden 1 Center di Sacramento. Dove gli Hawks perdono di un punto contro i Kings, nel febbraio 2017. Sull’ultima penetrazione a canestro Hardaway, guardia ospite, viene a contatto con tre avversari, e finisce per terra. Gli arbitri ingoiano il fischietto. Vincono i Kings. A fine partita lo spogliatoio di Atlanta regala ai cronisti impiccioni una scenetta tutta da gustare: oltre la metà dei giocatori, semi-nudi nell’andirivieni dalle docce, schierata dietro all’assistente video che riproduce sul computer l’azione incriminata. Tutti col fiato sospeso. Poi quando schiaccia il play, e rivedono il gioco, partono esclamazioni in coro non proprio da testimonial di beneficenza. Concesso ad Hardaway il tempo di rivestirsi, mi avvicino con cautela assieme all’unico collega di Atlanta che ha seguito la squadra in trasferta. Dunque era fallo? - chiediamo -. Di Barnes o di Cousins?. Hardaway è livido, fatica a parlare dalla rabbia, non ancora smaltita. Prima risponde che non vuole parlare, poi la voglia di sfogarsi, l’appiglio di ogni cronista in questi casi, ha il sopravvento. Hanno commesso fallo in tre, non è bastato per avere un fischio a favore. E ci è costato la partita. Curioso per queste latitudini, direte, ma nulla di nuovo. Ma c’è di più. Lasciando la sala stampa la butto lì divertito agli addetti stampa dei Kings: Era felice Hardaway, eh?. Lo stagista delle pubbliche relazioni Kings infatti da copione consueto era nello spogliatoio ospite per raccogliere le dichiarazioni e poi spedirle alla mailing list dei beatwriters dei Kings, ovvero i media che li seguono quotidianamente. La risposta dello stagista non è rivolta a me, ma direttamente al suo capo: Tranquillo, non ho messo nulla. Davvero, era furioso. Il suo boss chiosa divertito, dando per scontata l’omissione: Furibondo eh? Tutti dietro il computer a rivedere l’azione? Sì, facciamo anche noi così quando capitano queste cose…. Insomma, si fa finta di non aver sentito per evitare la multa dell’Nba a Hardaway, ed i conseguenti guai come pubbliche relazione con Atlanta. E infatti, mezz’ora dopo, a casa, ricevo l’email con i virgolettati ospiti: le parole di Hardaway sono riportate, ma senza la parte relativa agli arbitri. L’unica che faceva notizia.

    BOSTON CELTICS

    TD Garden: tra tradizione e mago Stevens. Quando Datome…

    Il fenomeno, al Garden, ce l’hanno seduto in panchina. Si chiama Brad Stevens. La tradizione dei Boston Celtics è una mistica: sono 17 gli stendardi da campioni Nba che pendono dal soffitto del TD Garden. Le maglie ritirate portano nomi di leggende del gioco: Cousy, Russell, Havlicek, Bird, ora Pierce. Il General Manager, Danny Ainge, rappresenta il trait d’union con una straordinaria messe di successi, paragonabile solo a quella dei Lakers. Boston vanta una squadra super competitiva pure adesso, reduce dalla finale di Conference a Est, piegata solo da LeBron. Kyrie Irving è lo scintillante nome nuovo che scalda i cuori di Beantown, Tatum il nuovo che avana, anzi salta, ma il fuoriclasse i Celtics lo esibiscono a bordo campo: Coach Stevens. Quarantaduenne con la faccia da eterno ragazzino, alla Curry, ma con la lavagnetta in mano. Occhi chiari e idee chiarissime. Eloquio da accademico e modi da lord inglese, ma non fatevi ingannare: ha il fuoco dentro, quando parla di pallacanestro. Non ha ancora il palmares di Red Auerbach (1950-1966, 795 vittorie e 9 anelli), ma su quella panchina, conquistata nel 2013, promette di mettere radici. E badate bene: il suo illustre predecessore ha vinto il primo della lunga sfilza di titoli solo al settimo anno. Poi non s’è più fermato….

    LA CITTÀ DEI CAMPIONI – La chiamano così, Boston, in America. Negli anni 2000 ha trionfato in tutti gli sport. I Celtics sono tornati al successo nel 2008 con Pierce, Garnett, Allen e Rondo trascinatori sul parquet e Coach Rivers in panchina. I Red Sox nel baseball hanno sconfitto la maledizione di Babe Ruth e hanno conquistato le World Series nel 2004, 2007, 2013 e 2018, dopo un digiuno di successi che risaliva addirittura al 1928. Fenway Park, ammirato da turista, è un tempio dello sport mondiale. Visitabile, a pagamento, e c’è sempre la fila: arrivano da tutta America, durante l’off season. Pedroia e Ortiz - il cui ultimo anno sul diamante è stato una passerella per gli stadi statunitensi sul modello di Bryant in Nba - sono venerati in città come dei pagani. Il dominicano, per tutti Big Papi, sfiora i livello di popolarità di Tom Brady. E poi c’è appunto lui: il miglior quarterback della storia Nfl, verosimilmente il miglior giocatore di football americano ogni epoca. Con la sua storia da sottovalutato, molto americana: scelto al Draft del 2000 con il numero 199, dietro sei pari ruolo. Brady, sposato con la modella brasiliana Gisele Bundchen, coppia super paparazzata, spesso in prima fila al Garden, dai Celtics, ha trascinato i New England Patriots a giocare otto Super Bowl. I trionfi sono cinque: 2002, 2004, 2005, 2015 e 2017. I Patriots giocano al Gillette Stadium (sì, le lamette da barba) a Foxboro, 30 miglia a sud di Boston. Ogni partita è un evento: tutto esaurito costante, prezzo dei biglietti esorbitante, ambiente favoloso per passione e competenza. Ho assistito a una sfida Patriots-Colts con la ciliegina sulla torta del confronto indiretto Brady-Manning: freddo polare, ma valeva la pena esserci. Poi ci sono i Bruins di hockey, che hanno alzato la Stanley Cup nel 2011. Coinquilini storici dei Celtics: giocano anche loro al Garden. Insomma, lo sport è sinonimo di successo a Boston. Le aspettative sono massime: attenzione e passione, e quindi pressione, costanti. Persino quando è stata ferita, nella maniera più feroce e brutale, Boston è stata ferita a mezzo sport. L’attentato terroristico dell’aprile 2013, 3 morti e 264 feriti, ha avuto come bersaglio la maratona cittadina. E gli sport sono stati veicolo dello spirito Boston Strong, inteso come comunione di forze e capacità di rialzarsi, dopo l’accaduto. Ma lo sport d’elite è solo una delle tante attrattive di Boston, città tra le più affascinanti degli Usa. Per chi scrive - 42 dei 50 Stati americani visitati come termine di paragone -, nella top 5 assoluta, con San Francisco, New York, San Diego e Miami. Di sicuro la più europea, tra quella americane. Con una storia più antica rispetto alla concorrenza nazionale: le tappe dell’indipendenza americana, la raffinatezza dei teatri, quella degli abitanti, almeno per gli standard statunitensi. E poi la suggestione del Quincy Market, la clam chowder (zuppa di vongole: occhio, dà dipendenza…), le scorpacciate di pesce al Legal Seafood, col bavagliolone del locale che ti consegna il cameriere. E Cape Code, per una gita sull’oceano fuori città. Specie se il capriccioso meteo locale, variabile come l’umore di una teenager, volge al bello. E poi la comunità irlandese, e quella italiana: Little Italy, nel North End. Boston se la tira con la sua eleganza, ma non scorda mai le sue radici proletarie. L’atteggiamento da colletto blu è ben rappresentato dagli eroi sportivi. Poco show e tanta sostanza. Un approccio tutto carne e patate: solido. Rappresentato come meglio non si può dallo slogan coniato da Coach Bill Belichick, dei Patrioti: matita all’orecchio da macellaio di borgata, in partita, ma idee di football meravigliose in testa: Do your job. Fai il tuo lavoro. A ogni giocatore viene chiesto di portare il mattoncino per la causa. Di fare il suo, senza eccedere in voli pindarici. La pallacanestro e il football giocato dai Celtics e dai Pats sono forgiati sull’esecuzione, sullo spirito di squadra, su passione e grinta. Si preferiscono i tuffi alle schiacciate. Le vittorie punto a punto alle esibizioni per le telecamere. Lo show time è lasciato alla West Coast, agli storici nemici di Los Angeles….

    VISTA DA DATOME – Nella gigantesca storia sportiva di Boston, nel grande mosaico della storia dei Celtics, una tessera ha saputo ritagliarsela il capitano della Nazionale, Gigi Datome. 18 partite giocate in maglia biancoverde (una in quintetto base, contro Milwaukee, con 22 punti segnati come ricompensa a Stevens per la fiducia) in stagione regolare nella stagione 2014-15, e l’appendice di tre apparizioni nei playoff. Datome era arrivato in Massachusetts sulla sirena della finestra di mercato invernale, assieme allo svedese Jerebko, nella trade che aveva riportato Prince a Detroit. Gigi ci racconta la sua Boston: "Una delle grandi città sportive americane. Nonostante i Celtics quando sono arrivato lottassero per un posto ai playoff - situazione poco migliore di quella che fronteggiavo a Detroit -, c'era una

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