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Quando mi chiameranno uomo?
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Quando mi chiameranno uomo?

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About this ebook

Birmingham, Alabama, profondo sud americano.
Attraverso i racconti dei suoi parenti neri e bianchi, Sarah conosce la realtà della schiavitù, della segregazione e delle lotte per i diritti civili.
E conosce il blues, la musica che ha aiutato e ancora aiuta gli afroamericani ad affrontare la vita.

Sarah è figlia di una donna dalla pelle color cioccolato e un uomo così bianco che si scotta senza mai abbronzarsi, due americani dell’Alabama costretti a lasciare il Sud, perché l’amore tra bianchi e neri in questa parte d’America non era accettato. Sarah, quindi, nasce e cresce in Francia. Quando la madre muore, la giovane va a Birmingham, in Alabama, per conoscere la sua famiglia nera e bianca e ascolta le loro storie. Storie che parlano di schiavi, di segregazione, delle lotte dei neri per la conquista dei diritti civili, e di blues. Storie che descrivono la forte tensione razziale dell’America di oggi e i sottili meccanismi del razzismo americano. Storie che hanno sempre un blues di sottofondo, perché, sin dai tempi della schiavitù, questa musica ha aiutato il popolo afroamericano ad affrontare la vita in un paese in cui i neri continuano a essere cittadini di seconda classe.
Questo libro è basato su storie vere e fatti storicamente documentati. I personaggi sono di fantasia.
LanguageItaliano
Release dateDec 8, 2018
ISBN9788833282084
Quando mi chiameranno uomo?

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    Quando mi chiameranno uomo? - Francesca Mereu

    Yolanda.»

    I

    Il mio viaggio a Birmingham

    Sarah

    Lo specchio del mio minuscolo appartamento parigino rifletteva l’immagine di una donna con una massa di capelli color miele dai ricci indomabili, la pelle ambrata e gli occhi verdi.

    Mi chiamo Sarah. Sono alta, snella. Dicono sia bella, come lo sono le persone di razza mista. Sono, infatti, il frutto dell’amore, di un grande amore, tra una donna dalla pelle color cioccolato e un uomo così bianco che si scotta senza mai abbronzarsi.

    I miei genitori sono americani, nati in mondi diversi della stessa area metropolitana di Birmingham, in Alabama.

    Sono trascorsi quasi due anni dal giorno in cui la mamma è morta di cancro e poco più di un anno da quando ho chiuso la valigia che mi sarei portata a Birmingham. Ci avevo infilato poche cose: vestiti leggeri, scarpe e un paio di jeans. Ci sarei rimasta un paio di settimane, pensavo...

    In borsa custodivo l’urna che conteneva parte delle ceneri della mamma: un piccolo vaso azzurro di ceramica con venature dorate. La mamma l’aveva scelto con cura in un mercato di Parigi, per conservare i collari di tutti gli animali domestici che avevamo avuto. C’era quello di Charlie, un bassotto dolcissimo; di Titti, la gattina che la mamma aveva trovato in strada; e anche quello di Jimmy, un bastardino preso in un canile. A volte la mamma li teneva in mano e sorrideva, ricordando gli aneddoti della vita dell’animale a cui il collare era appartenuto. Se la mamma avesse potuto scegliere il contenitore per quello che rimaneva di lei, sono sicura, avrebbe scelto quello.

    Sono nata e cresciuta a Parigi. Mio padre è docente di letteratura inglese all’Università di Parigi, mia madre, invece, scriveva opere teatrali. Pezzi così belli che a leggerli sembra di sentire la musica della sua Alabama, l’odore dell’erba bagnata dopo un temporale estivo, di respirare l’atmosfera di quello stato del profondo Sud ricco di bellezza e di contraddizioni.

    La mamma ha vissuto per più di venti anni in Francia, ma mai ha ambientato una sua opera nella patria di Molière. Non riusciva a liberarsi del Sud, di quella terra che aveva lasciato volentieri, ma che era rimasta fonte della sua ispirazione. Le mancavano i blues improvvisati da suo padre nelle calde sere estive di Birmingham. Quella musica che arriva diritto in fondo all’anima per sanare la tristezza e far uscire le emozioni.

    Da bambina mi avevano portato poche volte in Alabama, e quando chiedevo loro perché non visitavamo più quel posto, di cui la mamma tanto scriveva, mi rispondevano che io dovevo crescere libera, lontana dai pregiudizi. Così gli abbracci della mia famiglia nera e bianca li ricevevo in Francia.

    Solo ora capisco perché. Non è stato facile per la mamma e la sua famiglia essere di colore in America. Nel Sud.

    La mamma aveva ragione: nel Sud ogni persona è un personaggio e in ogni angolo è nascosta una storia da raccontare.

    E io ho raccolto tante storie. Storie di schiavi, e di blues, e di città magiche abbandonate.

    Birmingham, dicembre 2017

    J.B Lenoir (chitarrista e cantautore blues, 1929-67)

    Alabama Blues (1965)

    I never will go back to Alabama, that is not the place for me

    You know they killed my sister and my brother,

    and the whole world let them peoples go down there free

    I never will love Alabama, Alabama seem to never have loved poor me.

    Non tornerò mai più in Alabama, non c’è posto per me

    Hanno ucciso mia sorella e mio fratello,

    e il mondo intero ha lasciato libere quelle persone di laggiù

    non amerò l’Alabama, l’Alabama sembra non avere mai amato quelli come me.

    II

    La città magica

    La storia di nonna Margareth

    Nonostante i miei settantacinque anni, ho la memoria buona, Sarah.

    Come avrai notato, sono la più nera della famiglia. Mio padre diceva che ero così nera che scintillavo di blu, pace all’anima sua.

    Lui e la mamma erano nati color tabacco, la pelle dei meticci. Io invece ero l’unica dei loro tre figli a essere venuta nera. Nera come la pece. Il papà era convinto mi fossi accaparrata i geni migliori, quelli puri dei nostri antenati d’Africa, mica quelli imbastarditi dai vari miscugli, spesso violenti, avvenuti da queste parti.

    Il Signore mi ha, insomma, fornito di un ottimo bagaglio genetico e non mi dimentico di ringraziarlo la mattina quando mi alzo e tutte le domeniche nella mia chiesa. Perché io la messa della domenica non me la perdo. Devo stare proprio male, perché succeda.

    Sono nata a Birmingham, la città che Martin Luther King, nel 1963, ha chiamato la più segregata d’America. E io il dottor King l’ho conosciuto, ma di questo, Sarah, ti racconterò più avanti...

    Crescere nel Sud è stata una sfida per tutti quelli con la pelle nera, non importa di quale gradazione. Io, però, ho perdonato. Non ho dimenticato, ma ho perdonato, perché chi si affida alle mani dell’Onnipotente non può serbare rancore nell’anima.

    The Magic City

    Come tante città in America, la nostra ha una storia recente, ma molto intensa. È nata nel 1871, Birmingham, quando dieci ricchi latifondisti del Sud comprarono una valle selvaggia, sognando di trasformarla nel primo centro industriale di uno stato di piantagioni di cotone.

    Le diedero il nome di Birmingham in onore della città industriale del Regno Unito, ma tra di loro la chiamavano con affetto The Magic City, la Città Magica.

    La città che per magia nasceva dal nulla.

    Da bravi uomini del Sud, utilizzarono, come era d’uso al tempo, manodopera dalle prigioni statali. Erano reclusi che lo Stato dell’Alabama affittava per pochi dollari. Si trattava perlopiù di ex schiavi da poco emancipati (la schiavitù era stata abolita da otto anni). Persone finite in prigione per futili motivi. Perché in quegli anni, se si aveva la pelle nera, bastava perdere il lavoro per essere accusati di vagabondaggio, o d’essere pigri, reati che spalancavano le porte del carcere. Anche se si dimenticavano le infinite regole della segregazione (ed erano tante!), la prigione era assicurata. Insomma, ogni scusa era buona per mettere in gabbia un nigger, perché allo stato dell’Alabama conveniva così. Altrimenti dove avrebbe trovato uomini da dare in affitto per rimpinguare le casse? E così gli ex schiavi continuavano a lavorare gratis per i loro padroni. In poche parole, eravamo liberi solo sulla carta.

    Come sai, ho passato la vita ad assistere anziani bianchi. Avrei voluto studiare, ma quando sono cresciuta, negli anni Quaranta e Cinquanta, chi finiva otto classi era fortunato.

    I tuoi bisnonni avevano un negozio di ferramenta nella Quarta Avenue North, il distretto commerciale nero del downtown, il centro della città¹.

    Gli affari andavano bene. Decisero così che noi figli avremmo continuato la loro attività e che la troppa istruzione non ci avrebbe aiutato a vendere più viti e bulloni.

    Ho finito le superiori in una scuola superaffollata, solo per neri. Si chiamava la Scuola Industriale ed era il primo istituto superiore per afroamericani in città. Ci insegnavano materie pratiche, ossia tutto ciò che in futuro ci avrebbe aiutato a servire meglio i bianchi. Imparavamo a leggere, a scrivere e a far di conto, ma la storia, la filosofia, la letteratura erano dottrine a noi proibite. Di nascosto, però, gli insegnanti ci facevano corsi di storia, geografia, letteratura. Ci insegnavano persino a suonare il jazz e a leggere la musica. A me è rimasta la passione per la storia. Soprattutto quella della mia città, di cui sia io sia la nostra famiglia siamo stati protagonisti.

    E dunque i lavori di costruzione di Birmingham iniziarono sei anni dopo la fine della guerra civile tra il Nord e il Sud (1861-1865) e, con la vittoria dei nordisti, anche da noi entrò in vigore la legge fatta approvare dal presidente Abraham Lincoln, che dichiarava la schiavitù illegale.

    Una città che nasce era una meraviglia anche a quell’epoca.

    Migliaia di schiavi appena affrancati arrivarono a Birmingham. Sognavano una nuova vita lontano dalle piantagioni e qui c’era bisogno di manovalanza.

    Otto anni dopo l’inizio dei lavori, The Magic City aveva una popolazione di più di ventiseimila abitanti.

    Dalla Red Mountain, la Montagna Rossa, i signori della città osservavano che le ampie strade prendevano il posto delle foreste e i palazzi si alzavano a vista d’occhio. Sapevano che l’area era ricca di carbone e ferro, e già immaginavano le ciminiere fumanti degli stabilimenti che vi avrebbero costruito.

    «La prima città industriale del Sud», dicevano.

    Erano orgogliosi.

    Anni più tardi, sempre dallo stesso punto, ammirarono il fumo arancione del progresso che arrivava fin oltre il Tennessee e abbelliva The Magic City di tramonti dai colori incredibili: rosso fuoco con sfumature celesti, miste a bizzarri luccicori d’argento. Ma quei tramonti, noi, dal basso dei nostri quartieri, non li potevamo ammirare, perché Birmingham fin dalla sua nascita era stata progettata secondo le regole del tempo. Regole che imponevano una violenta segregazione nei confronti della popolazione di colore. La schiavitù era sì finita, ma era stata rimpiazzata dalla sua figlia più infame: la segregazione.

    La guerra civile

    Da bambina chiedevo sempre perché in tanti posti non potessimo andare, ma i grandi mi liquidavano con un vai a giocare o porta a papà/mamma/zia un bicchiere d’acqua. Un giorno, a quindici anni, mi feci coraggio e chiesi a Miss Daisy, la nostra insegnante non ufficiale di storia, com’era successo che noi, cittadini americani come i bianchi, dovessimo sottostare alle regole della segregazione. Il Nord aveva persino dichiarato guerra al Sud per liberarci, allora perché poco era cambiato?

    Miss Daisy sorrise, mi mise una mano sulla spalla.

    «I libri dicono che il Nord dichiarò guerra al Sud per mettere fine alla schiavitù, ma la verità è che a nessun bianco interessa del nostro destino», mi disse.

    Quanto aveva ragione! I veri motivi della guerra erano politici ed economici.

    E quando mai è andata diversamente?

    Non so quanta storia tu abbia studiato nella tua scuola in Europa; qui da noi la guerra civile viene liquidata con la leggenda del Nord che libera gli schiavi nel Sud. In realtà esistevano due Americhe: il Nord industriale e il Sud agricolo, e queste due Americhe competevano non solo dal punto di vista culturale e produttivo, ma anche da quello commerciale. Nel 1860 il Sud era più ricco di qualsiasi paese europeo, eccetto l’Inghilterra, grazie alla manodopera a costo zero degli schiavi, e nel Sud si produceva la maggior parte del cotone mondiale.

    Il Nord voleva che si adottassero delle barriere sulle merci da importare, perché temeva la concorrenza dall’estero nel mercato interno. Il Sud era invece per una politica commerciale di libero scambio, perché ai ricchi latifondisti conveniva – ed erano abituati a – comprare merci d’importazione con i soldi del cotone.

    Il Nord reclamava poi un governo centrale più forte, il Sud voleva invece un governo federale, che non si intromettesse negli affari dei cittadini. Con l’elezione del presidente Lincoln, votato dal Nord e che incarnava gli ideali del Nord, gli stati del Sud non si sentirono più garantiti a Washington. Uno dopo l’altro abbandonarono l’Unione e formarono una nuova nazione: gli stati Confederati d’America. E così, per tenere unito il Paese, iniziò la guerra civile.

    Il Nord gridava di combattere contro il Sud retrogrado e schiavista, un argomento, dal punto di vista morale, più coinvolgente di quello economico, e l’opinione pubblica mondiale anche allora aveva bisogno di credere in una buona causa. Anche gli stati dell’Unione, però, avevano costituzioni che discriminavano i neri, soprattutto per quanto riguarda il diritto di voto. Non erano insomma migliori degli stati del Sud.

    All’inizio della guerra, Lincoln era sotto l’influenza di due intellettuali: Thomas Jefferson, che voleva che i neri fossero espulsi dall’America per salvare il Paese, e Henry Clay, uno dei fondatori della American Colonization Society, una coalizione formata da abolizionisti e proprietari di schiavi, che aveva aiutato gli schiavi liberati a rimpatriare in Africa, nell’attuale Liberia. Gli abolizionisti credevano che i neri avrebbero trovato la libertà solo in Africa, mentre con il rimpatrio i proprietari di schiavi volevano liberarsi dei neri liberi, pericolosi perché potevano aiutare gli schiavi a ribellarsi.

    Lincoln aveva il suo piano di rimpatrio: voleva mandarci a Chiriquí, una provincia dell’attuale Panama, ed era furioso con quei neri che appoggiavano l’Unione e non volevano lasciare l’America. Solo dopo molte esitazioni, nel 1863, nel bel mezzo della guerra civile, firmò il proclama di emancipazione: l’Unione era in difficoltà e il presidente non poteva perdere i circa duecentomila neri che lottavano contro gli Stati Confederati per la loro e la mia libertà.

    Gli yankee² avevano promesso ai neri la stessa paga e lo stesso trattamento dei soldati bianchi. I nostri avi non s’aspettavano d’essere accolti con sorrisi e cortesie, ma pensavano che in un grande Paese almeno il salario dei soldati avrebbe dovuto essere uguale per tutti. I neri, invece, ricevevano sei o sette dollari meno dei soldati bianchi. Quando lo Stato del Massachusetts approvò il decreto che fissava quella misera paga, i reggimenti neri rifiutarono il denaro. Combattevano per la libertà e non per il guadagno, dissero. E così molti dei nostri antenati servirono l’Unione senza ricevere un penny. Eppure rischiavano più dei bianchi. Se li avessero catturati, i bianchi del Sud non ci avrebbero pensato due volte a ucciderli, o a rivenderli come schiavi. Quante storie ho letto e sentito di soldati neri inchiodati ai tronchi degli alberi, bruciati o sepolti vivi.

    Quarantamila neri sono morti durante quella guerra. Lo hanno fatto in nome di un ideale: la libertà. Perché la vita, se non si è liberi, che senso ha? E nessuno meglio di noi capisce il valore della libertà. Tante cose che erano scontate per i bianchi, noi non le potevamo fare. Non potevamo vivere dove più ci piaceva, cambiare lavoro, sposarci davanti al Signore, avere un cognome, alzarci e coricarci quando ne avevamo voglia, studiare, e anche — perché no? — fare niente e bere gin tutto il giorno. Troppe cose ci erano proibite.

    I bianchi ci avevano promesso che una volta liberi avremmo ricevuto un compenso che ci avrebbe aiutati a iniziare una nuova vita. L’aspettativa era che a ogni famiglia toccassero quaranta acri di terra e un mulo, il minimo indispensabile per sopravvivere nel Sud agricolo. Se dovevamo diventare cittadini americani, non avevamo forse diritto a quel piccolo aiuto? Per secoli avevamo lavorato solo per far arricchire i nostri padroni e quello era il minimo che ci spettava.

    Mai e poi mai quei giovani soldati avrebbero pensato che una volta finita la guerra sarebbero stati liberi, ma senza un soldo in tasca.

    La guerra civile finì nel 1865 con la vittoria dei nordisti. I confederati si arresero il nove aprile, Lincoln fu assassinato cinque giorni dopo. Gli successe Andrew Johnson, un democratico del Tennessee. Per lui, come per Lincoln, la guerra civile era servita solo per preservare l’Unione. Né più, né meno. Anzi, aveva subito detto che l’America era un paese per uomini bianchi. Per noi, insomma, non c’era posto.

    I neri furono sì affrancati, ma immaginati circa quattro milioni di schiavi liberi e senza un dollaro in una regione economicamente in ginocchio. Washington si dimenticò ben presto delle sue promesse e lasciò che il Sud tornasse alle sue tradizioni. Ex schiavi ed ex padroni furono lasciati a vedersela tra di loro, e il risultato fu un secolo di mezzadria, pregiudizi e segregazione.

    Abigail e Ceaser vanno a Birmingham

    Mio nonno paterno raccontava sempre la storia dei suoi bisnonni, Abigail e Ceaser, per illustrare le devastanti conseguenze della guerra civile nel Sud. Erano nati schiavi nella stessa piantagione dell’Alabama, attorno agli anni Quaranta dell’ottocento. Il loro padrone aveva mandato i suoi tre giovani figli a combattere contro gli yankee, perché il Sud doveva dare una lezione al Nord, diceva. Agli schiavi non aveva spiegato quello che succedeva per paura che qualcuno si mettesse grilli in testa. Abigail aveva però capito che qualcosa non andava, perché il padrone aveva proibito agli schiavi di fare capannello. Non sopportava nemmeno che due di loro conversassero sottovoce.

    I figli del padrone tornarono a casa in casse di pino gocciolanti di umori di corpi in decomposizione. La padrona non riuscì a sopportare il dolore e morì di crepacuore. E come ben si sa, le disgrazie arrivano sempre ben accompagnate. L’annata fu una delle peggiori nella storia della piantagione e il padrone perse moltissimo denaro.

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