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Non ho fatto il militare
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Non ho fatto il militare
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Non ho fatto il militare

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About this ebook

Il protagonista, Michele De Luca, classe 1947, vive, studia e lavora a Milano. Assunto in banca, scopre che la valutazione aziendale è basata più sulla "piena disponibilità" dei dipendenti che sulla "meritocrazia".

Il giovane impiegato non accetta le imposizioni di stampo militare (obbedire senza discutere) ed ha un incontro/scontro con il Capo del personale; per reazione si ritroverà a svolgere attività sindacale. Il racconto segue Michele nella sua crescita culturale e ideale, nonché in alcune delle battaglie da lui condotte soprattutto con la parola, pronunciata o scritta. Il sindacalista si scontrerà con il "Giovedì nero di Milano" del '74, e incontrerà Vittorio De Sica. Michele dovrà confrontarsi con Capi del personale dalle caratteristiche molto diverse: l'autoritario, il nepotista, l'arrogante, il tagliatore di teste, il pacificatore. E con ognuno dovrà trovare il modo opportuno di rapportarsi.

Il racconto rappresenta un caleidoscopio di vari aspetti del mondo del lavoro, che vanno oltre la specificità del settore bancario.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateDec 10, 2018
ISBN9788827859193
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    Non ho fatto il militare - Mauro Del Giudice

    Indice

    1. IL COLLOQUIO

    2. MICHELE

    3. LA BANCA

    4. INSOFFERENZA

    5. STEFANIA

    6. INCONTRO-SCONTRO

    7. PLATONE E LA CURA DEL SORRISO

    8. LA SCOPERTA DEL SINDACATO

    9. PRIMI RISULTATI POSITIVI

    10. LA PRIMA ASSEMBLEA

    11. INTIMIDAZIONI E PERPLESSITA’

    12. LA SVOLTA

    13 I PRIMI RISULTATI

    14. DA QUALUNQUISTA A IMPEGNATO

    15. PICCHETTO SI’, PICCHETTO NO

    16. LA DIREZIONE CI RIPROVA

    17. LA GIORNATA DECISIVA

    18. SOCRATE E LA RICERCA DELL’ERRORE

    19. IL GIOVEDI’ NERO

    20. IL NUOVO CAPO DEL PERSONALE

    21. CONTRATTO UNICO IMPIEGATI-FUNZIONARI

    22. LO SCIOPERO A OLTRANZA

    23. INCONTRO CON VITTORIO DE SICA

    24. PROMOZIONI CLIENTELARI? FERMA TUTTO!

    25. MALA LINGUA

    26. NUOVO CAPO DEL PERSONALE E TRATTATIVA C.I.A.

    27. MEGLIO CAPO SEZIONE O VICE CAPO UFFICIO?

    28. UN QUARTO D’ORA AL GIORNO, TOGLIE LO STRESS DI TORNO

    29. AUMENTANO LE RESPONSABILITA’

    30. RIVOLTA CONTRO IL FREDDO

    31. LA LOTTA CONTRO IL FUMO

    32. MILANO DA MANGIARE

    33. LA BANCA CAMBIA, CAMBIANO I CAPI

    34. VERTENZA ANOMALA, VITTORIA STREPITOSA

    35. NUOVO CORSO, NUOVO CAPO DEL PERSONALE

    36. PAGELLINE AI FUNZIONARI

    37. NUOVI CONTRASTI NEL SINDACATO

    38. NONNO, FORZA, RACCONTA!


    NON HO FATTO


    IL MILITARE


    di

    Mauro Del Giudice

    2018

    Titolo | Non ho fatto il militare

    Autore | Mauro Del Giudice

    ISBN | 9788827859193

    Prima edizione digitale: 2018

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Marco Biagi 6, 73100 Lecce

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

    1. IL COLLOQUIO

    Ma tu, De Luca, hai fatto il militare?

    A pronunciare questa frase era stato il dottor Massetti, capo del personale della banca. Era un uomo sulla sessantina, di media statura e dalla corporatura massiccia, con grossi baffi, capelli corti brizzolati e un’espressione severa. Era seduto su una imponente poltrona di cuoio nero con un alto schienale, dietro una scrivania di legno scuro. Nel parlare si era sporto leggermente in avanti, fissando dritto negli occhi il giovane impiegato che gli stava di fronte, in piedi, al di là della scrivania.

    L’impiegato, Michele De Luca, rimase disorientato dalla secca domanda. Che cosa c’entra con quello che ho detto finora? – si era chiesto - Assolutamente niente! A meno che non abbia a che fare con la disciplina cieca e assoluta, credere e obbedire; fortunatamente di combattere non c’è bisogno. Lui aveva voluto quel colloquio con spirito costruttivo, per dare possibilmente una mano a migliorare i rapporti nel suo ufficio e quello gli rispondeva con una frase che aveva un vago senso bellicoso. E poi, a che titolo il capo del personale era passato improvvisamente a dargli del tu? Quasi quasi faccio altrettanto - pensò Michele - e vediamo come la prende.

    Comunque la domanda era semplice e, mentre continuava a rimuginare, il giovane impiegato si limitò a rispondere: No, non ho fatto il servizio di leva.

    Il dottor Massetti si riappoggiò comodamente sulla sua poltrona di cuoio nero e con un mezzo sorriso di compiacimento commentò:

    Ecco, adesso è tutto chiaro e poi, assumendo repentinamente un’espressione accigliata, concluse: Comunque, non sei obbligato a restare qui; se non ti va bene, te ne puoi sempre andare.

    Queste ultime parole fecero frullare nella mente di Michele una miriade di pensieri. Tutti negativi e sgradevoli. Aveva sperato di trovare orecchie attente e disponibili e invece, in buona sostanza, gli veniva consigliato di dare le dimissioni.

    E’ strano quanti pensieri possano frullare per la testa nell’arco di pochi istanti; è come quando uno cade dal grattacielo e riesce a ripensare a tutta la sua vita prima di spiaccicarsi al suolo. Michele, essendo giovane, non aveva molto da ricordare e aveva fatto alla svelta. La replica gli venne d’istinto, quasi senza pensarci:

    Mi spiace, ma io voglio trovarmi bene qui.

    2. MICHELE

    Michele De Luca era entrato in banca due anni prima, nell’aprile del ’70.

    Aveva 25 anni, era di media statura, con scuri capelli ricci e una barba folta ma ben curata. Si era diplomato in ragioneria frequentando la scuola serale. Per cinque anni, dopo il lavoro, aveva frequentato e seguito le lezioni per quattro ore ogni giorno della settimana, dalle 6 e mezzo fino alle 10 e mezzo di sera. Al sabato pomeriggio, altre cinque ore, dalle 3 fino alle 8.

    E di giorno lavorava, come molti altri ragazzi di quel tempo. Era l’inizio degli anni ’60 e anche a Milano non erano molte le famiglie che potevano permettersi di mandare i figli a scuola diurna dopo la licenza di terza media.

    Entrambi i genitori di Michele provenivano dal Gargano, dove le famiglie d’origine avevano una posizione economica alquanto agiata. La famiglia paterna, in particolare, possedeva terreni, immobili e si occupava di un florido commercio di agrumi che venivano esportati anche all’estero. Di tendenze liberali e con inclinazioni anche massoniche, la famiglia aveva potuto permettersi di non aderire al fascismo, nei cui confronti nutriva un non celato sentimento di ripulsa.

    Il padre di Michele, da giovane, era stato un gaudente; gli piaceva la bella vita e, non avvertendone la necessità, non aveva portato a termine gli studi. Nel tempo, anche a causa delle vicende nazionali connesse al fascismo, il patrimonio familiare si era progressivamente dissolto e i genitori di Michele si erano trasferiti a Milano; con la guerra e i bombardamenti avevano perso praticamente tutto e si erano dovuti arrabattare per sbarcare il lunario. Il padre, che aveva una discreta istruzione e in precedenza aveva lavorato come agente di commercio, non si voleva rassegnare a svolgere lavori di basso livello; così tentava, con scarsi risultati, di svolgere attività di rappresentanza rivolgendosi a quella cerchia di buone conoscenze che risalivano ai tempi in cui gli affari gli andavano bene. Questo non gli garantiva però un reddito sicuro e continuativo. La madre, invece, si dava da fare con lavori di cucito per famiglie benestanti.

    Michele era nato poco dopo la fine della guerra, nel ’47. I genitori erano già a Milano da anni ma lui era stato partorito al paese, Rodi Garganico, dove la madre era tornata momentaneamente. Era un terrone a tutti gli effetti, sebbene in casa nessuno parlasse in dialetto o avesse influenze dialettali. Dalla madre aveva ereditato una forte miopia progressiva che già da piccolo lo aveva costretto a portare occhiali con lenti spesse come fondi di bottiglia. Date le cattive condizioni economiche della famiglia, Michele aveva cominciato a lavorare a 14 anni, appena superati gli esami di terza media. Aveva iniziato facendo il garzone per un panificio di Viale Piave e poi per una drogheria di Corso Monforte. Faceva le consegne a domicilio, girando in bicicletta per le vie del centro, che all’inizio degli anni ’60 non erano così caotiche e trafficate come adesso. Il pericolo maggiore era costituito dalle rotaie del tram, alle quali doveva fare molta attenzione per non finirci dentro con le ruote della bici, specialmente nelle giornate di pioggia. Le consegne cominciavano alle 7 di mattina e non era per niente piacevole. Per fortuna il proprietario gli aveva concesso di utilizzare la bicicletta del negozio per andare e venire da casa, che era oltre Piazza Ascoli, e distava circa due km.; percorso che avrebbe altrimenti dovuto farsi a piedi, alla mattina presto. Di prendere il tram non se ne parlava nemmeno, costava troppo.

    Erano gli anni del boom economico e trovare da lavorare era facile, a Milano. Michele aveva cambiato spesso lavoro: apprendista presso un’officina, poi uno scatolificio e anche un’azienda di trasformatori; aveva fatto anche l’aiuto magazziniere presso una casa discografica, dove aveva conosciuto una giovanissima Orietta Berti, che a quell’epoca cantava le canzoni di Suor Sorriso. Lì aveva imparato ad apprezzare la musica di Bach, dopo averla sentita per giorni e giorni: un direttore tedesco della casa discografica l’ascoltava in continuazione, e di conseguenza anche Michele che, alla fine, aveva imparato ad amare la Toccata e fuga in re minore. Michele lavorava e intanto frequentava la scuola serale. A vent’anni era stato assunto alla Innocenti, storica azienda di Lambrate, produttrice della Lambretta. Si era diplomato nel ’69 e aveva spedito il suo curriculum a decine di banche milanesi, con l’intento di assicurarsi una maggiore retribuzione. Adesso la situazione è cambiata; la differenza di retribuzione tra le categorie si è notevolmente ridotta ma allora, negli anni ’70 il divario retributivo era molto forte e i bancari percepivano ancora le invidiate 16 mensilità.

    Dopo tante risposte negative, Michele finalmente era stato convocato per un colloquio. Si trattava della Banca MITAM, un istituto di credito di medie dimensioni, oltre 2 mila dipendenti e filiali in tutta Italia. Il giovane si era presentato, aveva compilato il consueto modulo con i soliti dati e risposto alle domande di rito; aveva poi fatto un primo incontro con un funzionario del Servizio Personale. Pochi giorni dopo, una segretaria l’aveva nuovamente chiamato per fissargli un appuntamento con il Capo del personale, il dottor Massetti. Probabilmente si trattava di un momento decisivo; Michele non voleva farsi troppe illusioni ma, nello stesso tempo, sperava ardentemente di essere assunto: per lui sarebbe stato un bel passo avanti.

    L’incontro con il Capo del personale durò una decina di minuti in tutto: principalmente gli furono fatte domande sulle sue aspirazioni personali e sui suoi interessi personali. Poi il dottor Massetti aveva chiamato il suo vice e ordinato di far preparare, dopo le consuete procedure preliminari, la lettera di assunzione.

    Michele pensò: Ormai è fatta! ed era euforico. Ovviamente sapeva benissimo che, finché non avesse avuto in mano la lettera d’assunzione, non c’era niente di sicuro però, si diceva, non c’era alcun motivo per cui la banca avrebbe dovuto fare marcia indietro.

    Dopo la visita medica presso un centro specializzato (a quei tempi non era ancora illegale) e un test psico-attitudinale presso l’università Cattolica, Michele era tornato al Servizio Personale per consegnare gli ultimi documenti. Fu ricevuto dal Vice, il quale, dopo aver acquisito la documentazione, lo aveva osservato perplesso e gli aveva chiesto: Signor De Luca, come mai ha ancora la barba? Lo sa che al Dottore non piacciono gli impiegati con la barba!.

    Fortemente imbarazzato, Michele aveva risposto che il Capo del personale, durante il colloquio, non vi aveva nemmeno accennato e che lui non poteva immaginare ...; gli assicurò che, comunque, avrebbe provveduto senz’altro a tagliare la barba: certo, nessun problema, ci mancherebbe, non si preoccupi.

    Tornato a casa con la sua ambita lettera d’assunzione in tasca, sotto la spinta dell’entusiasmo per il sospirato cambio di lavoro, si accinse all’opera richiesta. Non che ci fosse urgenza, doveva prendere servizio un mese dopo, ma tanto valeva portarsi avanti. Alla sera doveva incontrarsi con Barbara, la sua ragazza. Per farle una sorpresa, non le aveva detto che l’assunzione in banca era cosa fatta e quindi nemmeno del taglio della barba. E questa era stata davvero una sorpresa: Barbara, che l’aveva sempre visto barbuto, faceva letteralmente fatica a guardarlo in faccia, tanto il cambiamento di fisionomia era impressionante. Ma come si dice, per un posto in banca, questo e altro ...

    In quel tempo Michele lavorava presso la Innocenti, azienda meccanica e automobilistica in cui era stato assunto tre anni prima. Aveva iniziato come fattorino interno; praticamente era a disposizione di tutto il personale del servizio per ogni necessità di basso livello: fotocopiare documenti, spostare macchine da scrivere, ciclostilare comunicazioni e lavoretti simili. Non gli era andata male, aveva tempi vuoti che poteva utilizzare per studiare, senza che nessuno lo riprendesse. Dopo qualche tempo aveva cominciato ad aiutare alcuni impiegati nel loro lavoro ed era stato promosso impiegato. Impiegato di quarta categoria. A quel tempo, nel settore metalmeccanico come in tanti altri, c’erano due contratti separati, uno per gli operai e l’altro per gli impiegati. E gli impiegati erano divisi in cinque categorie: la quinta costituiva l’inquadramento minimo e la prima categoria era quella che precedeva il passaggio al ruolo di dirigente.

    Quel giorno Michele, con la lettera di dimissioni in mano, si era recato dalla segretaria dell’ing. Refossi:

    Francesca, ho bisogno di parlare con l’Ingegnere; puoi vedere se è libero?

    E’ in ufficio e non ha dentro nessuno; ma di cosa si tratta? gli aveva chiesto la segretaria.

    Devo presentargli la lettera di dimissioni

    Francesca si alzò dalla scrivania e andò davanti all’ufficio del capo; bussò e attese che dall’interno le arrivasse la risposta, socchiuse la porta e si affacciò sull’uscio; parlottò brevemente e poi si rivolse a Michele: Entra pure, l’ingegnere ti aspetta.

    L’impiegato entrò e il dirigente, dopo averlo fatto accomodare su una delle poltroncine di fronte alla scrivania, con tono cordiale gli chiese:

    Allora, De Luca, ci vuole lasciare? Pensavo che si trovasse bene qui da noi.

    E’ vero; però ho trovato un posto di lavoro più retribuito, molto più retribuito.

    L’ingegnere lo guardò incuriosito e incerto, poi si decise: Sono indiscreto se le chiedo che tipo di lavoro andrà a fare?

    Nessun segreto rispose Michele Ho trovato un posto in banca.

    In banca? Ed è vero che danno sedici mensilità, come dicono?

    Si, credo di si. Di certo so che lo stipendio sarà quasi il doppio di quello che prendo adesso. Lei capirà ....

    Oh si, capisco benissimo ... Poi l’ingegnere concluse complimentandosi con il dimissionario e augurandogli buona fortuna.

    3. LA BANCA

    Il primo di aprile Michele si svegliò presto. Era anche il primo giorno del nuovo lavoro e si sentiva leggermente agitato. Si alzò, andò in bagno e si fece la barba; nel giro di un mese era ormai diventato un rito mattutino. Aveva una barba ispida e doveva necessariamente raderla ogni giorno. Poi si vestì: giacca e cravatta, ovviamente; ovviamente, ma non naturalmente. Per Michele indossare la giacca, e ancora di più la cravatta, non era ‘naturale’. Normalmente si vestiva in modo sportivo e la cravatta gli dava proprio fastidio, un senso di costrizione. Chiaramente, a tutti i colloqui di lavoro si era presentato sempre in giacca e cravatta: sapeva bene che la prima impressione è quella che conta. Abitava in via Beato Angelico, appena oltre la circonvallazione esterna, e doveva recarsi in centro, via S. Margherita; doveva prendere servizio alle 8.25 e voleva essere sicuro di arrivare per tempo. Uscì quindi di casa alle sette e mezzo per prendere l’autobus e alle otto e dieci era già davanti all’ingresso della banca. Lo stabile era uno di quei vecchi e imponenti palazzi del centro, ben tenuto e dall’aspetto austero. Quella era la sede della Direzione Generale dell’istituto, dove si trovava anche il Servizio Personale, presso il quale si era già recato diverse volte per i vari colloqui. Questa volta la situazione era diversa; nelle occasioni precedenti l’agitazione derivava dalla preoccupazione di fare ‘bella figura’ per essere assunto; ora si trattava ‘soltanto’ di non fare cattiva impressione ai fini della conferma dopo i tre mesi di prova.

    Michele entrò e si diresse al terzo piano, il piano ‘nobile’ dove si trovava il Servizio Personale e lì attese finché un funzionario lo chiamò e gli disse di seguirlo. Fu condotto al secondo piano, in uno stanzone in cui una ventina di persone era seduta davanti a lunghi tavoli. Erano quasi tutti giovani, più o meno suoi coetanei, prevalentemente maschi. Il funzionario si avvicinò ad una persona dell’ufficio che occupava l’unica scrivania che si trovava nello stanzone e gli disse in modo sbrigativo: Signor Bandera, le presento il signor De Luca; è stato appena assunto e adesso è tutto suo. E rivolto a Michele: La affido al capufficio, ci penserà lui a dirle cosa fare; buona giornata e buon lavoro. Bandera era un tipo smilzo, molto serio e dallo sguardo attento; salutò Michele e gli fece fare il giro dell’ufficio, presentandolo agli altri impiegati. Poi lo informò sul lavoro dell’ufficio: Questo è il servizio che si occupa delle carte di credito, una nuova attività che è iniziata da pochi mesi. C’è molto lavoro perché è tutto in via di sviluppo e si fatica a star dietro a ogni cosa. Dopo di ché il capufficio gli affidò il primo lavoro. Prese una grossa scatola piena di schede e spiegò: Questi sono nominativi a cui dobbiamo inviare la carta di credito; le schede vanno messe in ordine alfabetico; ordine stretto. Prenda una delle sedie libere e si metta lì - e gli indicò uno spazio su uno dei lunghi tavoli - appena ha finito me lo venga a dire.

    Michele prese il pacco, cercò una sedia libera e prese posizione nello spazio assegnatogli. E cominciò a smistare le schede sul tavolo. Le schede erano di formato ‘A5’, ossia grandi come mezzo foglio normale e ognuna di esse era intestata ad una persona, con cognome, nome e indirizzo. Le schede erano tutte relative ad avvocati, di ogni città italiana; il pacco era enorme, sicuramente conteneva diverse migliaia di schede. Probabilmente era l’elenco nazionale degli iscritti all’albo degli avvocati. Michele le poneva sul tavolo, una alla volta, dividendole in base alla lettera iniziale del cognome: in alto a sinistra quelle che cominciavano con la ‘A’, subito sotto quelle con la ‘B’ e così via. L’impegno maggiore era quello fisico, consistente nello spostarsi da un punto all’altro dello spazio assegnatogli sul lungo tavolo, che ospitava altri due giovani intenti ad un compito analogo.

    Mentre era intento al suo compito, che non richiedeva un’attenzione particolare, Michele di tanto in tanto si guardava intorno, per farsi un’idea del posto in cui si trovava. L’ufficio era uno stanzone ampio, rettangolare, con sette/otto lunghe tavolate formate da più tavoli accostati. Ad ognuno di questi tavoloni vi erano due o tre giovani impiegati che maneggiavano schede simili a quelle assegnate a lui. E dappertutto, sui tavoli e per terra lungo le pareti dell’ufficio, pacchi e pacchi di schede. E un grande silenzio, nessuno parlava e l’unico rumore che si avvertiva era quello delle schede che venivano smistate e delle sedie che ogni tanto venivano spostate.

    Andò avanti così fino a quando, alle 12.30 il capufficio comunicò che era il momento della pausa-pranzo. L’ufficio lentamente

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