Pura follia
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Nel giro di pochi giorni, nel suo quartiere avvengono strane sparizioni su cui indagano due gendarmi, e la stessa Pauline comincia a temere che il suo fidanzato abbia qualcosa che non va.
Ma non può immaginare fino a che punto.
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Book preview
Pura follia - Fabio D'Alessandro
Tavola dei Contenuti (TOC)
Copertina
Prologo
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
Un Noir di:
Fabio d’Alessandro
Pura Follia
ISBN versione digitale
978-88-6660-283-5
PURA FOLLIA
Autore: Fabio d’Alessandro
© CIESSE Edizioni
www.ciessedizioni.it
info@ciessedizioni.it - ciessedizioni@pec.it
I Edizione stampata nel mese di gennaio 2019
Impostazione grafica e progetto copertina: © CIESSE Edizioni
Immagine di copertina: Licenza Creative Commons CC0
(libero utilizzo, attribuzione non richiesta)
Collana: Black & Yellow
Editing a cura di: Pia Barletta
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale, pertanto nessuno stralcio di questa pubblicazione potrà essere riprodotto, distribuito o trasmesso in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo senza che l’Editore abbia prestato preventivamente il consenso.
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.
A Mary, la mia compagna di vita
che mi ha fatto capire che rinascere è possibile.
A mia madre,
una donna d’altri tempi con una corazza d’acciaio.
Prologo
«Provi a parlarmene.»
«Sarebbe la prima volta, lo sa?»
«Sì lo so, me ne rendo conto ed è per questo che ci tengo.»
«Va bene, le racconterò tutto, anche se temo che lei non mi crederà.»
«Facciamo così, lei proverà a raccontarmi la sua storia e io proverò a crederle.»
«D’accordo.»
«Un’ultima cosa.»
«Mi dica.»
«Sa che tutto dipende da quello che lei mi dirà e se le crederò?»
«Lo so bene, dottore.»
«Allora inizi, sono tutto orecchie.»
1.
Mi chiamo Armand ed ero un orologiaio fino a quando non mi successe qualcosa a cui ancora oggi stento a credere. Non ho mai raccontato a nessuno tutta la storia, sia perché quella voce me lo impediva, sia perché era talmente incredibile che nessuno mi avrebbe preso sul serio.
A un certo punto fui risucchiato e scaraventato in un vortice il cui turbine era impossibile da contrastare. L’unica via di scampo era assecondarlo e lasciarmi trasportare, con la speranza di sopravvivervi. Alla fine riuscii a convivere con il mio tormento, ad adattarmi al punto da sembrare normale agli occhi degli altri, tanto che anche io avrei potuto dire di non averlo mai vissuto.
Oggi non saprei dire di preciso quando tutto ebbe inizio, so solamente che quando me ne resi conto era ormai troppo tardi. Le radici della follia avevano già attecchito dentro di me, radici profonde e dure da recidere, giorno dopo giorno la loro ramificazione diveniva sempre più contorta e impossibile da districare. Prima ancora di capire cosa ero diventato, non avevo memoria degli atti bestiali che compivo. I miei misfatti mi tornavano in sogno sotto forma di incubi quando il mio inconscio rielaborava l’accaduto.
Ricordo che le imposte tremarono. Chiusi la porta con forza, con rabbia, come a inchiodarla per sempre, con l’intento di impedire che un domani si potesse riaprire. Nel momento in cui la porta s’incassò, in quel preciso istante, proruppe il fragore di un tuono che squarciò la notte. Credevo che quel tuono avesse dato il via a quanto sarebbe accaduto in seguito, come lo sparo dello starter in una corsa a ostacoli, invece mi sbagliavo perché scandì la fine di tutto.
Corsi giù per le scale mentre mi infilavo l’impermeabile. I piedi quasi non si distinguevano tanto erano veloci i passi. La mano destra scivolava sul corrimano aggrappandovisi a ogni cambio di gradinata.
Sull’ultimo gradino scivolai, ma grazie a un colpo di reni riuscii a restare in equilibrio. Aprii il portone accorgendomi solo in quel momento del nubifragio che veniva giù. Respirai odore di pioggia, di terreno bagnato. Mi abbottonai il soprabito e strinsi la cinta sui fianchi. Alzai il bavero e uscii nella notte buia sotto il temporale. Solo cinque gradini mi separavano dal marciapiede. Li discesi incamminandomi a passo svelto verso la macchina parcheggiata qualche metro più in là. Il passo svelto si tramutò in corsa. Gli schizzi delle pozzanghere mi impregnarono calzini e pantaloni. I capelli erano inzuppati, grosse gocce mi correvano sul viso confondendosi con quelle salate che mi sgorgavano dagli occhi.
Aprii la portiera dell’automobile per trovare riparo. Le gocce cadevano sull’auto come sassate. Il parabrezza era inondato e non era possibile scorgere oltre. Con le mani sul volante e la testa inclinata sul clacson, restai in silenzio per qualche minuto in compagnia del martellare incessante della pioggia. Trascorsero altri minuti, li lasciai passare senza rendermene conto. Mi sentivo rintronato come se una mina mi fosse esplosa sotto i piedi lasciandomi un fischio persistente nelle orecchie. In realtà il fischio lo sentivo davvero, ma pian piano si dissolse e ripresi coscienza di me. Girai la chiave d’accensione nel quadro, avviai il motore e partii senza meta. Stavo scappando, sarei voluto andare lontano dove nessuno avrebbe mai potuto trovarmi, ma dov’era questo luogo? Non esisteva. Volevo fuggire dalle cose che avevo fatto ma non potevo, quelle cose erano dentro di me e dovunque fossi arrivato le avrei portate con me. La strada era dritta, senza curve né ostacoli, nessun semaforo o incrocio. La pioggia ininterrotta mi impediva di vedere e capire dov’ero. Nonostante il tergicristallo corresse veloce sul parabrezza, l’acqua se ne riappropriava all’istante. Guidavo come in uno stato di dormiveglia, senza avere cognizione dello spazio e del tempo. In macchina c’era odore di abiti bagnati. Ebbi il presentimento di aver guidato per ore e macinato chilometri, in verità non sapevo quanta strada avessi percorso e non me ne importava. Avevo la bocca secca. Un cartello luminoso sul lato destro della strada mi destò dal torpore ma non riuscii a leggere la scritta. La strada era buia, la pioggia implacabile. Qualche chilometro più avanti intravidi delle luci e una scritta sul bordo della strada. Diminuii la velocità entrando in un parcheggio vuoto. Da una finestra di un hotel s’intuiva una sola luce calda che illuminava l’ambiente. Senza sapere bene perché, scesi dalla macchina ed entrai.
All’interno v’era un dolce tepore e quell’unica lampadina emanava una luce accogliente, rassicurante, si respirava un buon odore ma ancora oggi non saprei dire di cosa si trattasse. All’ingresso c’era l’enorme banco della reception e dietro uno scaffale con appese le chiavi delle stanze.
Sulla sinistra c’era la sala da pranzo, si intravedevano i tavoli apparecchiati nella penombra. Sulla destra v’era il bar e un salottino da dove proveniva quella luce. Non mi soffermai alla reception e mi diressi subito al bar dove ad attendermi c’era l’uomo che avrei poi conosciuto come monsieur Rasoir. Mi accomodai su uno sgabello scricchiolante guardando furtivamente l’uomo che avevo davanti, in piedi dietro al bancone, impettito come un tacchino e con lo sguardo furbo.
Mi diede il benvenuto offrendomi i suoi servizi.
Avevo stimato che monsieur Rasoir potesse avere circa cinquant’anni, era alto e magro, con un portamento impeccabile. I capelli neri ben pettinati all’indietro, il viso rasato e le mani curate, all’apparenza molto morbide, gli davano un aspetto distinto. Gli occhi e il sorriso gli conferivano l’espressione che si addice a chi sa il fatto suo, a chi ha visto il mondo e sa come vanno certe cose, a chi conosce già la risposta prima ancora che gli venga posta la domanda.
Passandomi la mano sulla fronte bagnata e tirando indietro i capelli fradici, chiesi che mi venisse servito un cognac Barriasson. Monsieur Rasoir non aspettava altro e, con movimenti fluidi da fare invidia a un serpente, prese