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Le notti dell'angelo
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Le notti dell'angelo

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About this ebook

A Federico piacevano le storie di fantasmi, mentre Arianna le aveva sempre considerate un insulto alle persone scomparse. Eppure, adesso sta succedendo qualcosa che non sa spiegarsi. Federico è ormai morto da mesi, assieme al loro bambino mai nato, e lei non riesce a farsene una ragione, a trovare un motivo per continuare a vivere. Poi, una notte si trova a vagare nei corridoi dell’accademia dove lui studiava e lo sente suonare; si precipita nella loro aula e lo vede. Senza chiedersi se sia sogno o realtà, gli corre incontro, ma non riesce a toccarlo; lui non ricorda niente, se non la nenia che egli stesso aveva composto per il figlio.
-Chi sei? Perché sei qui a quest’ora della notte?
Una domanda che potrebbe essere rivolta ad entrambi e di cui nessuno conosce la risposta, celata nella storia di quei sedici mesi trascorsi insieme. E Arianna comincia a raccontare, nel timore di doversi nuovamente separare da lui, una volta che avrà ricordato.

Sei  notti. Ad Arianna sono state concesse sei notti per quell'addio che le era stato negato, per ripercorrere il suo amore troppo intenso e troppo breve di ragazza.
Sei notti per riconciliarsi con quella stessa vita che le aveva tolto tutto e per accettare un’incomprensibile realtà: essere ancora viva non è una colpa, ma è stato l’ultimo dono di quella parte di lei che non c’è più. E non deve essere sprecato.
 
LanguageItaliano
Release dateDec 13, 2018
ISBN9788829573981
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    Le notti dell'angelo - Eleonora Semplici

    notte

    Prima notte

    Se fra tanto tempo

    ci incontreremo ancora

    ti dirò ogni cosa

    se potrò ancora guardare dentro ai tuoi occhi

    ti dirò ogni cosa,

    sarò la tua sposa

    amami per come sono

    amami così anche da lontano

    amami amore mio celeste

    perché io ti amo

    e ti amerò per sempre

    Per sempre, Giorgia

    Una melodia dolce come il primo raggio di sole su una neve candida e pura. Le emozioni che cantavi per un dono inatteso risuonano ancora nel cuore delle mie colpevoli notti di solitudine. Cerco di ricordare ancora la tua voce, le tue mani che danzavano gioiose sopra quel piano. Ma tutto ciò che mi rimane è l’amaro di una realtà effimera, inafferrabile, perduta per sempre. Mentre vago fra le aule vuote, ad occhi chiusi, mi sembra di poter assaporare ancora il tuo profumo. Il tuo corpo che mi possiede, mi riempie del tuo amore. Allora era tutto così scontato: nei miei giorni pieni dei tuoi sorrisi, dei tuoi baci, delle carezze dei tuoi sguardi credevo non potesse esserci spazio per altro. Eppure ad ogni battito dei nostri cuori mi sentivo diversa. Sempre più tua. Tu sempre più mio. Se quel giorno, avvolta fra le tue braccia, mi avessero detto che la mia felicità mi sarebbe stata strappata senza pietà, non lo avrei mai creduto. Era tutto così intimamente nostro: l’intensità folle del nostro sprovveduto amore; i nostri occhi di diciassettenni già troppo profondi; il figlio che cresceva dentro di me, protetto dalle nostre mani intrecciate. Come potevo credere che avrei continuato a vivere privata dell’anima, se me lo avessero detto? Ad accompagnare le lacrime, che ora scendono lungo solchi già percorsi all’infinito, è ancora lo stridere di un motore qualsiasi in un maledetto giorno qualsiasi. Se quell’uomo fosse stato più attento alla macchia di rossetto sulla camicia. Se la moglie non avesse deciso di fare il bucato. Se lui non avesse dimenticato l’auricolare a casa dell’altra. Se non avesse ricaricato il cellulare il giorno prima. Se, mentre litigava con la moglie, non gli fosse scivolato il telefono nell’abitacolo. Se in un tiepido giorno di aprile non avessi voluto il gelato di quel bar. Se solo ci fossimo fermati ad ammirare il bambino in quella carrozzina. Adesso nostro figlio avrebbe la sua stessa espressione pura sul visetto assonnato. Adesso staremmo passando la notte in bianco, estasiati del nostro miracolo. Non voglio più sentire gli echi del mio cuore svuotato. Voglio che l’aria racconti ancora le tue note a questi corridoi impenetrabili e alla loro visitatrice clandestina. Lo voglio così tanto, che adesso mi sembra vero. Ecco la prova che sto impazzendo. Ma è una follia così dolce, che ora riesco a percepire distintamente la tua voce. Suoni sopiti riemergono dal baratro del mio animo. Così profondo che non ne avevano ancora toccato il fondo. Mi lascio guidare, trascinare, fino alla porta dietro la quale ti vidi davvero per la prima volta.

    Dono nascosto dentro lei

    rivelaci presto il nostro amore

    Così forte per le nostre piccole vite,

    cresci felice nei nostri abbracci.

    Nutriti della dolcezza di tua madre,

    dissetati delle mie lacrime di padre.

    Dormi ora, al sicuro nei tuoi sogni.

    Noi veglieremo su di te

    Anche quando il sole rischiarerà le ombre.

    Apro la porta e sono investita da un fascio di luce viva, pallida, ma avvolgente. La emana l’essere che siede al piano e che al mio impercettibile movimento ferma la sua melodia. Lo fisso in quegli occhi che a lungo hanno giocato con i miei, quando fra noi scorreva ancora la vita. Non provo nessuna particolare emozione. Mi avvicino, mentre ricambi, incuriosito e in attesa, il mio sguardo. Sei tornato? Oppure non mi hai mai lasciata davvero?

    — Chi sei? Perché sei qui a quest’ora della notte?

    Anche la voce è la tua. Mi lascio carezzare dalle tue parole, in silenzio, senza degnarti di una risposta. Adesso mi sento p iù forte: sei qui, davanti a me. È stato tutto un terribile incubo. Allungo la mano, decisa a sfiorarti il volto e poi baciarti e abbracciarti e perdermi nel tuo calore. La poso sulla tua guancia, ma sento solo aria. Un po’ più fredda del normale, ma inconsistente, sfuggente. La tua morte. Non posso toccarla, ma è ormai così tangibile! Se c’era qualcosa che ancora non si era rotto, ora si è spezzato irrimediabilmente.

    — Nooooo!

    Guardami. Guardami attonito mentre cado nella disperazione più nera. Mentre urlo il mio dolore fino a rimanere senza fiato. Fermami. Abbracciami. Assicurami con una paziente cantilena che è tutto un errore.

    — Mi dispiace. Sembra proprio che tenessi a me. Eppure tutto ciò che ricordo è questa sorta di filastrocca. Non so nemmeno perché sono ancora qui.

    Sei qui per lo stesso mio motivo: sono sei mesi che tu e il tuo bambino mi avete lasciata. È questo il nostro rimpianto. Forse sei tornato per consolare la mia ferita. Forse quando ricorderai, verrai di nuovo strappato via da me. Per sempre. No, non posso permetterlo. Godrò di questa tua ignoranza e ti terrò legato alla mia solitudine attraverso i fili del nostro amore sopito. Saremo ancora insieme.

    — Sai che sei bella quando sorridi? Le fossette ai lati della bocca ti illuminano il volto.

    — Non è possibile. Ma allora non hai dimenticato!

    — Perché? Te l’avevo già detto?

    Certo. Mille volte. Con la stessa emozione della prima.

    — Quando mi hai chiesto se potevi baciarmi.

    Il tuo bacio. Ognuno più sincero del precedente.

    — Dunque ti amavo. Ascolta: forse sono qui per un motivo preciso. Forse proprio per aiutare te. Però se non ricordo… Quando suono, mi appaiono delle immagini confuse; sento che se riuscissi ad afferrarle potrei toccare una felicità infinita. Ti prego, raccontami di noi.

    — Ma così te ne andrai di nuovo. Non voglio. Non è giusto.

    — Ti prego. Non è giusto che io sia ancora su questo mondo. Non chiuso in questa stanza. Non senza sapere chi ero e perché non lo sono più.

    È la prima volta, da quando ti conosco, che mi chiedi qualcosa per te. Non posso dirti di no. Non mi è concesso.

    All’inizio non potevamo vederci. Ma è certamente stato un colpo di fulmine. Per quanto devastante ed incontrollabile.

    Era l’inverno dei nostri sedici anni. Studiavi al conservatorio, in queste stesse aule, con una mia carissima amica. Al termine di un concerto ero venuta a cercarti dietro le quinte: avevi rifiutato la sua dichiarazione ed io ero infuriata.

    — Complimenti: bel faccino e bella musica. È indubbiamente facile rimanere ingannati.

    — Ci conosciamo?

    — Sfortunatamente conosci la mia amica.

    — Ah, ho capito. Mi dispiace, ma non riesco a sentirmi colpevole per aver rifiutato una ragazza che non mi interessa. Anche perché ho ben altro da fare che pensare all’amore.

    — Direi, però, che c’è modo e modo. Avresti potuto essere più gentile.

    — Non è mia abitudine essere gentile con persone di cui non mi importa nulla.

    Non riuscivo a pensare ad altro se non a quanto fossi cafone.

    — Certo, chiederti di essere sensibile è forse troppo. E se cercassi di essere perlomeno civile? In una società civile, mi sembra quantomeno una logica conseguenza.

    — Io non capisco perché ti arrabbi tanto. Non sarò mai interessato alla tua amica. Non le ho forse fatto un favore evitando di illuderla?

    In quel momento tentai di confrontare quelle parole con le emozioni che si leggevano nei tuoi occhi: erano un vortice di scintille e colori; vivi, caldi, passionali. Come potevi porti in modo tanto freddo?

    — Certo, ho capito: sei una persona vuota, che non è nemmeno in grado di gioire per l’amore ricevuto. Mi intristisce stare a parlare con te.

    Tornai a casa, lasciandoti solo nella tua convinta solitudine. Però non riuscivo a smettere di pensare ai meravigliosi sentimenti che nascondevi dietro quel gelo apparente. Pensavo che se ti avessi visto ancora, solo una volta, magari sarei riuscita a capirti.

    Senza capirne realmente il motivo, presi l’abitudine di venire ad ascoltare le tue prove. Ogni giorno, nascosta nell’ombra, tentavo di afferrare i tuoi pensieri più profondi dalle note che aleggiavano nell’aria. Ma le aule erano sempre affollate di suoni e melodie, così il mio esperimento fallì miseramente. Nonostante questo, non potevo e non volevo in nessun modo rinunciare a raggiungerti. Era un sentimento che cresceva ad ogni istante, ma che ancora non riuscivo a connotare come amore, nascosto com’era dalla maschera dei tuoi segreti.

    Quando giunse Natale era, in realtà, trascorsa solo una settimana dal nostro incontro, ma la mia era diventata un’ossessione. Così, sebbene fossi convinta di trovare la scuola deserta, mi recai ugualmente al mio appuntamento quotidiano. Passeggiavo per i corridoi, godendomi l’atmosfera festiva emanata dalle aule colme del silenzio tipico delle vacanze, quando da una di queste giunse una musica flebile, che diventava sempre più forte avvicinandomi; mi accostai alla porta in silenzio, per non disturbare il pianista, ed ascoltai. Un’armonia devastante di amore, passione e tormento mi sconvolse l’anima, toccandomi nel profondo. Mentre seguivo il filone di tristezza che teneva unita l’intera esecuzione, non tentai nemmeno di frenare le lacrime: c’era qualcosa di struggente, che imponeva la sua presenza e non permetteva di essere ignorata. Stavo ancora tentando di dare un ordine a quel groviglio di sensazioni, quando tutto cessò e vidi la tua ombra allungarsi sul pavimento, vicino alla mia.

    — Non credi sia contro ogni buona norma del vivere civile spiare le persone?

    Non accolsi la tua provocazione: avevo ascoltato la tua essenza e ora volevo solo capirti.

    — Nei corridoi fa freddo. Entra.

    — È meravigliosa. L’hai composta tu?

    — Naturalmente. Ma già lo sapevi, no? Bel faccino e bella musica. E poi che altro? Ah, ecco: il vuoto. Mi sono ricordato bene?

    — Sbagliavo. Tu… tu hai dentro una ricchezza talmente sconfinata che sembra dover scoppiare da un momento all’altro. Perché ti ostini a donarti solo alla musica?

    — La musica non tradisce.

    — Certo che no, ma non è in grado di amare. Sa solo farsi amare.

    Mi osservavi offeso, colpito al cuore del tuo mondo.

    — Eppure mi sembra che tu abbia pianto.

    — Io ho pianto per i tuoi sentimenti. Perché ho capito che la tua musica non è altro che il tuo specchio.

    Mi facesti cenno di continuare, con un sorrisetto sarcastico che denotava sicurezza. Ma nei tuoi occhi, ancora i tuoi occhi, temevi che mi stessi avvicinando troppo a te.

    — È dannatamente bella: così coinvolgente e profonda. Mi prende in ogni parte del mio essere e mi turba. Però è triste. Incompleta.

    Tu riprendesti a suonare, senza cessare di guardarmi. Io fui nuovamente scossa da un brivido e mi dovetti appoggiare al piano, per non esserne sopraffatta.

    — Dunque io ti turbo. La mia tristezza ti sconvolge e sono incompleto. Un quadretto convincente in cui specchiarsi la vigilia di Natale.

    Ora avevi perso la tua arroganza ed eri indifeso, scoperto.

    — Dovevo immaginare che fossi più pericolosa delle altre. Certo non credevo che questo brano fosse così esplicativo.

    Solo, il ventiquattro Dicembre. Lo ero anch’io, è vero. Ma io cercavo te. Tu cosa cercavi? Se non fosse stato amore, di certo sarebbe stata la follia a pronunciare per me quella domanda.

    — Come festeggi stasera?

    — Come? Cosa c’entra questo adesso?

    Assolutamente niente. Non sapevo cosa risponderti, mi limitai a sorriderti come una sciocca. Anche tu sembravi esserti sciolto.

    — Credo che rimarrò qui. In fondo non è male comporre in solitudine in una notte così magica.

    — Non dovresti trascorrerla in famiglia?

    — E dover scegliere tra mio padre e mia madre? No, grazie.

    Ecco: adesso non sapevo nemmeno sorriderti. Mi avevi di nuovo spiazzata. Però io volevo assolutamente colmare il tuo vuoto. Che presunzione, vero?

    — Accompagnami al piano-bar qui accanto.

    Con il tuo volto ora pericolosamente vicino al mio mi dicesti di non volere la mia pietà.

    — Non ti sto offrendo la mia pietà, ma un’occasione per completare la tua musica.

    — E se anche accettassi, non dovresti trascorrere la notte in famiglia?

    Eri caduto nella mia dolce trappola, così mi accinsi a chiudere la tastiera del piano.

    — Sembra che il locale sia proprio di mio padre: quando si dice il destino, eh?

    Quella fu la prima volta che ti vidi ridere. Non avrei mai immaginato che una spensieratezza tanto sincera potesse nascere sul tuo volto. Di certo da quel momento in poi non avrei saputo farne a meno. Mentre lasciavamo l’edificio, fiera della mia vittoria, non potei evitare di rimanere felicemente perplessa di fronte alla serietà con cui mi sottoponesti il tuo improvviso dilemma.

    — Dovrei portare un regalo per i tuoi?

    Godetti dell’imbarazzo che si dipinse sulle tue guance infreddolite quando afferrai fra le mie le tue preziose mani coperte dai guanti.

    — È un piano-bar. È Natale. Basta che porti queste e un bel sorriso smagliante. Sarai perfetto.

    Quando arrivammo, mio padre si stava già destreggiando fra alcolici e analcolici: come al solito c’erano molte famiglie, che però se ne andavano, di norma, subito dopo la mezza notte.

    — Ciao tesoro: Aiutami, ti prego! Non c’è nessuno che canti…

    — Ciao papà! Guarda un po’: ho portato i rinforzi. Lui è… Scusa, come hai detto di chiamarti?

    — Non l’ho detto. Sono Federico, piacere di conoscerla.

    — Il piacere è tutto suo. Io sono Arianna. È un pianista professionista, sai papà?

    — Ottimo! Auguri e grazie di essere venuto. Tu lascia perdere le rime e preparati a riscaldare l’atmosfera.

    — Certo papà. Subito papà. Scusalo, di solito è un tesoro, ma con così tanti clienti… Ti va di accompagnarmi?

    — Un invito disinteressato, insomma.

    Non avevo mai cantato tanto in vita mia: esaurimmo tutto il repertorio, esibendoci senza sosta per quasi due ore. Poi, allo scoccare delle ventiquattro chiudemmo con il bis di un immancabile «White Christmas». Senza alcuna modestia, accogliemmo gli applausi, dirigendoci al bancone fra gli auguri dei clienti.

    — Dai, sai che sei davvero brava? E poi hai una bella resistenza per essere così magrolina.

    — Ignorerò la totale sfiducia iniziale che emerge dal tuo complimento e ne terrò in considerazione unicamente gli elogi.

    Era stato stupendo; su quel piccolo palco, fra le famiglie in festa, eravamo diventati un tutt’uno con la musica: il tuo piano e la mia voce uniti in un unico, indimenticabile regalo di Natale.

    — Auguri papà! Che successone, eh? Tra poco tua figlia spicca il volo.

    — Auguri ragazzi! Siete stati veramente… boh. Non saprei come definirvi. Mi avete emozionato. Ehi, piccola: stai diventando sempre più brava. Stasera ho rivisto tua madre.

    Credo che fino ad oggi nessuno mi abbia ancora fatto un complimento più bello di quello.

    — Insomma. Io ho fatto del mio meglio, ma di certo questo locale era abituato a ben altro. Sai, quando mia madre cantava, le pareti tremavano.

    — Tua madre…

    — Mh. Lavorava in banca. Due anni fa è rimasta coinvolta in una rapina. L’avevano presa come ostaggio. In realtà avevano preso una donna incinta, ma lei si è offerta di sostituirla. Però è finita nel peggiore dei modi.

    — Mi dispiace. Non… non si direbbe.

    — Davvero? Che bello! Sai, mio padre è molto fragile. È sempre dipeso da lei. Ovviamente anch’io soffro da morire, ma ho ereditato la sua forza…

    — … e la sua voce, a quanto pare.

    — E la sua voce.

    Devo, ancora una volta, ringraziare mia madre, per avermi donato le ore che passammo a parlare. Non ho mai capito, e non ti ho mai chiesto, se fosse perché ti sentissi in debito di un segreto o se lo volessi davvero, ma quella sera mi raccontasti tutto: la separazione dei tuoi; la sfiducia totale nei rapporti di coppia; gli sforzi compiuti per non rimanere mai coinvolto e la musica. Quel mondo incantato e sicuro che si nascondeva dietro la falsa immagine che avevi creato di te.

    — Non capisco perché ti stia raccontando tutto questo. Temo che tuo padre ci abbia fatto bere un po’ troppo.

    Concludendo così la tua confessione, ti abbandonasti fra i morbidi cuscini dei divanetti: il locale era ormai quasi vuoto, ad eccezione dei vecchi amici di papà che si esibivano a turno in canzoni stonate. Guardai tutto il mio mondo, chiuso fra quelle mura e dominato nell’ombra dall’immagine di mia madre sorridente, pudicamente appesa nel retro. Forse il giorno in cui fu scattata quella foto anche lei si sentiva come me: veramente felice, dopo due anni di lacrime sopite. Volsi lo sguardo al tuo volto rilassato e sereno come quello di un bambino. Forse mio padre aveva davvero esagerato con l’alcool, o forse ti sentivi finalmente libero di sognare. Senza neanche rendermene conto, mi chinai su di te e baciai i tuoi folti capelli lisci e corvini.

    — È il più bel regalo che potessi ricevere.

    Eri tu. Lo scontroso ragazzo che una settimana prima credevo di detestare e che ora mi aveva concesso l’onore di far parte del suo sconfinato universo di luci ed ombre. Quando il giorno dopo mi sono svegliata, tu stavi bevendo una tazza enorme di caffè, mentre parlavi con mio padre. Avevi la faccia ancora assonnata e piena dei segni dei cuscini.

    — Papà, potevi svegliarci! Abbiamo dormito sui divanetti!

    — Non lamentarti, tesoro; io ho dormito sul piano. Non crederai che ieri notte fossimo in grado di intendere e di volere?

    Mi guardai intorno e vidi sei o sette cadaveri di uomini sulla cinquantina giacere ancora inerti in giro per il locale. Erano appena le dieci.

    — Io ho dormito benissimo. Quel poco che ho dormito.

    Stavi ridendo, dietro la tua tazza, con la bocca sporca di schiuma. Istintivamente presi un tovagliolino dal bancone e ti pulii. Non c’era più imbarazzo fra di noi. Ormai avevamo svelato i nostri segreti, le nostre ferite. In una sola notte era cambiato tutto: dopo solo una notte eravamo pronti a sostenerci. Anche i tuoi occhi, se possibile, sembravano brillare ancora di più e si posavano senza timori su di me.

    — Tesoro, stavamo discutendo su altre possibili serate come quella di ieri: siete una coppia vincente e potremmo approfittare delle vacanze per buttare giù un bel programmino…

    — No, no, no, no, no. Non lo ascoltare. Tappati le orecchie. Questo è il suo classico colpo a tradimento: approfitta della nebbia di Orfeo e ti incastra.

    — Non preoccuparti. A guardarmi non si direbbe, ma mentalmente sono ben sveglio. Mi interessa. Ieri mi sono divertito molto, sai? Non avevo mai accompagnato nessuno. È bello suonare per altri al di fuori di me.

    Lo speravo. Desideravo così tanto che anche per te fosse stato unico: un incontro di anime.

    — Perfetto. Finalmente qualcuno che ragiona. Dicevamo: voi potreste aprire le serate con tre o quattro canzoni al massimo e poi lasciate il palco libero per i clienti. Giusto per accendere gli animi.

    — Oh mio Dio! Non ti basta il raggiro? Risparmiaci almeno le frasi sentimentali e patetiche.

    — Ottimo. Grazie ragazzi, vi adoro. Ora scusatemi, ma devo andare a svegliare quei vecchietti e dare una pulita al locale.

    La stessa scena ogni anno: lui che si avvicina di soppiatto ad ognuno dei suoi amici per strapparli al dolce sonno nei modi più crudeli. Una molletta sul naso, il solletico sotto un piede rimasto scalzo, il microfono gelato lungo la schiena, un bicchiere d’acqua fredda rovesciato in faccia, un palloncino superstite scoppiato vicino alle orecchie.

    — Capita spesso che, svegliandosi di scatto, alcuni facciano volare certe sberle… Mi sono sempre chiesta quanto siano davvero involontarie.

    — Eccone una. L’idea di tuo padre, però, non mi sembra tanto terribile come la dipingi: io la trovo un’occasione professionale fantastica.

    Eri così carino mentre tentavi di convincermi a fare qualcosa che adoravo.

    — Sarà che io sono abituata ad esibirmi qui fin da piccola e non lo trovo più così sorprendente. Eccitante sicuramente, ma non sorprendente. E comunque non preoccuparti: è solo il nostro modo di comunicare. Io sono entusiasta all’idea di aprire le serate di Natale e Capodanno.

    — Meno male. Credevo non ti fossi divertita ieri. Ma… senti: fin da piccola? Non era tua madre a cantare… prima che…

    — Tranquillo, non c’è problema. Certo che cantava mia madre. Io però ero il pezzo da esposizione: il pulcino dalla voce di usignolo in coppia con un angelo.

    — Dovevate essere bellissime insieme.

    — Ho il video di un compleanno di papà, se vuoi. Avevo quattro anni, credo.

    — Devo vederlo assolutamente! Vostro padre vi accompagnava con il piano?

    — No. Lui non ha mai saputo suonare. Né cantare. Questo posto l’ha aperto per mamma. Solo per lei. Di solito suona l’uomo che papà ha svegliato con l’acqua. Credo che siano amici di culla… Poverino! Ogni anno la stessa storia; è l’unico a cui è riservato un trattamento così crudele.

    Finendo il tuo caffè, ti guardavi intorno, sorpreso e ammirato di quanto l’amore potesse costruire.

    — Papà, noi saliamo; se vi serve una mano, non chiamateci assolutamente.

    Mentre lui mi ringraziava tentando di richiamare tutti all’ordine e tu protestavi perché volevi renderti utile, ti condussi al piano superiore, nella nostra piccola casa, fino in camera mia.

    — Stupendo! Siete subito sopra il locale! Ma come fai a dormire?

    — Non è un problema: le pareti sono insonorizzate. Poi abbiamo montato anche una porta da bunker, perché una volta sono saliti i ladri. Pensavamo di affittare la stanza degli hobby di mamma a qualche studente che possa pagarsi vitto e alloggio lavorando, però forse è ancora presto… Eccolo!

    Esitai per un istante con la cassetta stretta fra le mani. Lessi l’attesa nel tuo sguardo e mi feci promettere che non avresti riso. Naturalmente ridesti. In quell’occasione ero talmente emozionata, che prima di salire sul palco, che per me era enorme, ne combinai di tutti i colori. Prima di tutto rovesciai il succo di frutta sul vestitino nuovo color confetto. Ostentando la macchia tipica della figlia del barista, inciampai nel filo del microfono e caddi rovinosamente di faccia. Non contenta, nella caduta mi aggrappai ai pantaloni del pianista, che aveva voluto accogliermi in piedi, che scivolarono dolcemente sotto il mio inconsistente peso, fornendo la lieta vista della sua biancheria con tanto di orsetti. Perché poi aveva quei maledetti orsetti stampati sulle mutande?

    — L’esibizione, però, è stata memorabile: un «Happy Birthday» con i fiocchi.

    — Una furia! Eri una furia di quattro anni! Non ci posso credere! Ma come hai fatto?

    — Credimi: è più facile di quanto possa sembrare. Non è stato niente di straordinario. La prima volta che mi sono esibita, a tre anni, ho fatto la pipì sul palco e mamma ci è quasi scivolata.

    Estrassi la cassetta dal videoregistratore, leggermente offesa, ma estremamente felice per quella nuova intimità che si era creata fra noi. Di fronte alla mia reazione risentita, la tua risata si era affievolita, ma, dandoti le spalle, sentivo quanto ti stavi sforzando per trattenerti.

    — Scusa, scusa. Eri davvero carina! E avevi già una bella voce. Tua madre, poi, era così bella! Sembravate proprio… proprio…

    — … un angelo e il suo animaletto da compagnia.

    Di certo non ti potevi ritenere soddisfatto degli sforzi compiuti per evitare di ridere: totalmente vani.

    — Ora che ti sei calmato, vorrei chiederti una cosa. Premesso che puoi rimanere quanto vuoi, non credi sia il caso di farti vivo con i tuoi? Almeno oggi potreste stare tutti insieme. E stasera potrebbero venire a sentirci. Non si odieranno tanto da non poter trascorrere il giorno di Natale con te, spero.

    — Forse hai ragione. Anche ieri c’erano rimasti molto male. Però se penso che la pratica di divorzio è quasi chiusa e non so ancora da chi dei due dovrò andare a vivere…

    — Tu non pensarci. Se per un giorno loro possono sforzarsi di sembrare felici, puoi farlo anche tu. Non è detto, poi, che non lo sarete davvero.

    — Ci proverò. Però non dovremmo provare la scaletta per stasera?

    — Non cercare scuse: per quello basta che torni al locale per le sette. In fondo sono solo poche canzoni.

    Ero di nuovo riuscita a farti cedere. Pensai che forse mi stavo approfittando un po’ troppo della fiducia che cominciavi a riporre in me. Però mi dispiaceva vederti cedere senza lottare pur avendone la possibilità. Quindi ti buttai praticamente fuori di casa, lasciandoti con la promessa che mi avresti raccontato tutto quella sera stessa.

    Quel giorno, mentre tu lottavi con i tuoi nella gabbia in cui io stessa ti avevo spinto, tentai di capire cosa mi stava succedendo. Ero stata completamente rapita dal tuo mondo e volevo farne parte. Volevo arrivare a conoscere ogni tuo più piccolo difetto ed amarlo con tenerezza. Però volevo farlo gradualmente, accogliendo ogni nuova scoperta con rinnovata meraviglia. E improvvisamente mi trovai a chiedermi cosa ti avesse spinto a lasciarmi entrare nella tua vita. Perché avevi deciso di aprire proprio a me quella porta che avevi tenuta chiusa a tutti, nonostante vi bussassero con disperata insistenza?

    — Basta! Tanto per quanto mi sforzi, non riuscirò mai a capirlo.

    Non vedevo l’ora di cantare ancora con te.

    Quando giunsero finalmente le diciannove, mi sembrava che fosse passata un’eternità. La tua espressione diceva che lo stesso era valso per te. Purtroppo, però, per un motivo ben diverso dal mio. Quando ti chiesi cosa fosse successo, la tua risposta sembrò giungere da molto lontano, attraverso uno sguardo spento e glaciale.

    — Credevano che non sarei rientrato nemmeno oggi, così hanno pensato bene di andare a contendersi la casa al mare sul posto.

    — Sul serio? Mi dispiace tanto! Tu che hai fatto finora? Perché non sei tornato subito qui?

    Ero mortificata. Avevi subìto un’altra cocente delusione ed era solo colpa mia. Eppure dalle tue parole non trapelò alcun cenno di rancore né di rimprovero. Nonostante il tuo trauma di un nuovo abbandono, non potei fare a meno di apprezzare egoisticamente la tua dolcezza.

    — Ho preso il motorino e li ho raggiunti. In realtà non li ho nemmeno incontrati: appena mi sono trovato davanti alla porta di casa, ho sentito le urla di mia madre e ho lasciato perdere. Non so neanche quanto ho camminato lungo il bagnasciuga, ma a giudicare dal freddo che ho patito, la mia passeggiata deve essere durata parecchio.

    Osservandoti meglio, avevi il volto tremendamente rosso, le labbra molto screpolate e cerulee e i vestiti ancora leggermente bagnati, nonostante il vento che dovevi aver preso viaggiando in motorino. Solo le mani erano immancabilmente protette. Inoltre profumavi del mare d’inverno: pungente e malinconico, portava con sé tutta l’inquietudine delle onde che si infrangono sulle spiagge deserte. Chissà cosa avevi provato nel confronto con quell’essenza triste e incontrollabile tanto simile alla tua. Come ti sentivi nel fendere con la tua solitudine quei granelli di sabbia così vicini eppure così instabili? Mentre mi perdevo tra i miei pensieri, tu eri ancora lì, davanti a me. Tremavi, in attesa di conforto ed io, tradendo tutte le tue aspettative, rimanevo in silenzio.

    — Quindi hai una casa al mare? Che fortuna! Quando arriva l’estate mi ci porti? Piuttosto: dobbiamo cambiarti questi vestiti, se non vuoi ammalarti.

    Senza attendere una tua reazione, ti trascinai fino alla stanza di mio padre e cominciai a frugare nei cassetti in cerca di abiti della tua taglia. Dovetti risalire molto indietro negli anni, per ritrovare la linea perduta di papà.

    — Guarda questo: è un pezzo di antiquariato. L’aveva indossato il giorno di inaugurazione del locale. Forse è un po’ stretto di spalle, ma dovrebbe andare bene. Quando hai finito di cambiarti metti pure in lavatrice jeans e maglione.

    — Ma… e tuo padre?

    — Tranquillo, tranquillo.

    Chiusa la porta, rimasi appoggiata ad essa, immaginando che dall’altra parte tu stavi diffondendo il tuo profumo nella stanza e ti muovevi, non senza imbarazzo, fra gli oggetti che mi avevano vista crescere. Naturalmente, assorta com’ero, non mi accorsi che stavi per uscire e quando apristi la porta, per poco non ti travolsi.

    — Scusa, mi ero appisolata. Scendiamo a provare?

    Le canzoni allegre e spensierate che avevamo scelto poco si addicevano al tuo stato d’animo, ma ugualmente mi accompagnasti senza risparmiarti. Io non lo avevo dato a vedere, ma chiaramente ero dispiaciuta e preoccupata. Certamente non era però solo per questo che non riuscivo a staccarti gli occhi di dosso. Non era la prima volta che un ragazzo mi attraeva fisicamente, ma non avevo mai desiderato così profondamente una persona.

    Osservavo attentamente la piccola vena che si scorgeva fra i capelli un po’ sudati e che pulsava appassionatamente per la concentrazione. Muovendomi sul palco, sfioravo appena le tue spalle larghe, leggermente costrette nella giacca. I tuoi occhi chiusi non avevano bisogno di leggere gli spartiti, perché la musica scorreva dentro di te. Ma erano le tue mani ad eccitarmi in modo particolare: grandi, forti e affusolate, ma niente affatto femminili. Al contrario, emanavano sensualità ad ogni movimento, danzando con impeto su quei tasti.

    Non mi sentivo assolutamente inopportuna nel provare quelle emozioni, sennonché mi resi conto che indossavi gli abiti di papà. Allora mi sembrò di aver violato un’immagine quasi sacra: la tua bellezza di sfacciato amante della musica avvolta nel pudico affetto di mio padre. Pensai che apparivi così solo ai miei occhi, mentre per tutti gli altri eri un giovane e

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