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Il garzone del boia
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Il garzone del boia

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Ambientato nell’Italia dell’Ottocento, “Il garzone del boia” è la storia romanzata del più celebre esecutore di sentenze capitali dello Stato Pontificio, Giovanni Battista Bugatti detto Mastro Titta, raccontata dal suo aiutante, comprato per pochi soldi dalla famiglia di origine per farne il proprio garzone. 
Una visione assai diversa, a volte in contrasto con quella del proprio Maestro che vede il mestiere del boia come una vocazione, mentre per il buon garzone è solamente una scelta obbligata dalla quale fuggire alla prima occasione.
Gli eventi si susseguono tra le esecuzioni di assassini e le storie vissute dai protagonisti o raccontate dal popolino sotto la forca.
Il Maestro cresce il proprio aiutante iniziandolo anche alla lettura e alla scrittura, così che il romanzo presenta una doppia stesura.
Una prima, in corsivo, fatta dall’aiutante alle prime armi, con un linguaggio spesso forte e colorito e una seconda riscrittura, quando oramai avanti con l’età su consiglio del suo analista, riprende in mano questa storia per fuggire dai fantasmi che ancora lo perseguitano.
LanguageItaliano
Release dateDec 15, 2018
ISBN9788869631887
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    Il garzone del boia - Simone Censi

    paurosi».

    Per me l'avventura era iniziata così

    Partimmo di notte neanche fossimo stati fuggiaschi, ammantati in lunghe cappe, Mastro Titta aveva già preparato il carro, la mula Ortensia e tutto il necessario.

    All’epoca era un vero e proprio viaggio denso di pericoli e insidie, fatto di lunghi spostamenti per strade al di fuori di ogni controllo, dove qualsiasi incontro poteva rivelarsi arrischiato.

    Le strade erano poco servibili e si reggevano nel migliore dei casi sui lastricati che avevamo ricevuto in eredità dai romani, spesso divelte e smottate da intemperie, usura e radici di alberi.

    Questi, cresciuti lungo i cigli, andavano deformando la carreggiata con il rischio di far saltare una ruota o farla finire in un fosso se non si usava la massima cautela nel procedere.

    Ci volle il tempo per abituarmi, ricordo solamente che i primi anni arrivavo sempre con il sedere dolorante.

    La cosa peggiore era quando nelle strette strade di campagna, perché le vie percorribili erano sempre le stesse, s’incrociavano diligenze pubbliche, cavalli di posta o vetturini.

    Si rischiava sempre nel tentativo di passare entrambi, di finire in un dirupo.

    Avvolto nel pesante mantello mi addormentai dietro al carro e mi risvegliai che aveva già fatto giorno nell’alta valle dell’Aniene, con la città che sorgeva a scalinata su di una rupe rocciosa.

    Chiesi al Maestro se poteva fare una sosta per i bisogni del mattino ma lui rispose che dovevo scendere al volo e poi correre per riprendere il carro.

    La strada che stava percorrendo era più lunga ma sicura, però non ci si doveva fermare che se facevamo tardi sarebbero stati dolori con il Monsignor Fiscale.

    Scesi borbottando e andai a mingere sul ciglio della strada mentre lui a lenta andatura continuava ad avanzare.

    Stavo facendo il bisogno che dovevo quando a un certo punto vidi corrermi incontro un folle che usciva attraverso i campi mezzo nudo, tutto quanto sporco di sangue e con un coltello in mano.

    Per me l'avventura era iniziata così.

    Stavo lì che lo guardavo incredulo con il coso in mano mentre si avvicinava minaccioso, quando arrivato alla portata, Mastro Titta che in quanto a freddezza non aveva eguali gli assestò un colpo d’incontro all’altezza della fronte che lo fece ribaltare indietro e stramazzare a terra svenuto, mentre io mi ero già bello che bagnato le braghe.

    Non sapendo se la botta poteva risultargli fatale, una volta legato alla sponda del carro lo portammo direttamente ai birri e le autorità lo presero in custodia, identificandolo come tal Domenico Treca il merciaio del paese.

    Anche i birri di Subiaco che lo conoscevano bene, rimasero sconvolti dallo stato in cui si trovava il giovane, onesto e rispettabile cittadino, il quale ripresosi dallo svenimento ma ancora in fase di forte mancamento non dava nessuna informazione su casa gli era accaduto, se non il fatto che ripeteva ossessivamente la parola "vendetta".

    Pensarono tutti che fosse stato vittima di un grasseggio e che il sangue che aveva raggrumato fosse il suo, così insieme ai birri si decise che la cosa migliore da fare era quella di riportarlo a casa e chiedere alla moglie Felìcita se sapeva dare spiegazione alla cosa.

    Uno dei birri più anziani e in confidenza con il mio Maestro, mentre il Treca era di nuovo svenuto, bisbigliò che la moglie di quello era una delle donne più belle di tutta Subiaco e anche una delle più frequentate, lasciando intendere che il povero marito, testuale: «avea guai ad andar pe lo bosco, senza sbatte co le rame più vasse».

    Arrivammo trafelati all’uscio di casa del Treca con lui ancora in spalla, che non si era del tutto ripreso e non ricevendo risposta al ripetuto bussare, viste anche le numerose macchie di sangue lì nei pressi, i birri iniziarono a buttare giù la porta a spallate.

    Fu così che una volta entrati e seguite le orme lasciate a terra che si rincorrevano per tutta la casa come se qualcuno fosse scappato inseguito dal demonio, trovammo al primo piano, nella stanza da letto, il misfatto.

    Alla vista di tutta la gendarmeria e del gran trambusto causato per fare irruzione nella casa, più di un curioso s’andò accostando, cercando pure di entrare in casa del merciaio e salendo le scale.

    Felìcita, la moglie del Treca, stava a letto con un'altra donna più grande, identificata poi come sua sorella che era stata accolta in casa dalla coppia una volta divenuta vedova e rimasta sola.

    La cosa più sconvolgente era che in compagnia delle due donne che stavano distese e discinte, vi era un terzo allungato a lato del letto in una pozza di sangue.

    I birri cercavano in ogni modo di allontanare i curiosi accorsi per il tanto clamore, ma la gente che si era affollata attorno aveva già capito tutto e la notizia di bocca in bocca già si diffondeva.

    Il gallo nel pollaio del Treca era il giovane curato arrivato da non troppo tempo da quelle parti e stava un po’ troppo sbottonato per dare benedizioni e soprattutto un po’ troppo morto per portare argomenti a suo favore.

    Come il Treca si riebbe dinanzi a quel misfatto, gli risalì un impeto di rabbia e iniziò a biastimare e inveire contro il curato, la moglie e la di lei sorella.

    Vista la situazione un poco affollata e l’odore di sangue farsi pregnante in quella stanza che tenevano chiusa per evitare occhiate indiscrete di chi già si stava arrampicando sui tetti vicini, decisi che la cosa migliore era quella di attendere fuori il Maestro che mi riferisse sul da farsi.

    Così iniziai a fare la processione tra tutti i gruppi di curiosi che là davanti si erano radunati e che cambiavano discorso quando si accorgevano che l’aiutante del boia si faceva appresso.

    Ognuno diceva la sua e assommando tutte le versioni venne fuori quella popolare.

    Io, ad essere sinceri, ero sempre per il: Vox populi, vox Dei¹, ma Mastro Titta, in più di una occasione si dimostrò per: Nec audiendi qui solent dicere, Vox populi vox Dei, quum tumultuositas vulgi semper insaniae proxima sit.²

    A dire la verità Alcuino questa volta si sbagliava di grosso e ora vi spiegherò le ragioni di Isaia.

    A causa della gelosia del Treca, quando il marito era fuori città per i suoi commerci, Felìcita non rimaneva sola ma in compagnia di una sorella che era stata accolta in casa loro una volta rimasta vedova.

    Così Domenico era più tranquillo e le malelingue, che in questo genere di cose cercano sempre di metterci lo zampino, avrebbero smesso di sparlare alle spalle della donna.

    Ma non sempre le malelingue parlano senza fondamento.

    Le uniche visite che le due donne ricevevano erano quelle del giovane curato della parrocchia chiamato a guarire le ferite della vedova per la prematura dipartita di suo marito.

    Inutile star qui a riportare gli epiteti che il popolino malizioso associava a quelle donne e galeotte furono le ferite della vedova e della sorella se le cose presero la piega che presero.

    Molte in quel di Subiaco piansero la perdita del giovane prete.

    Col Monsignor Fiscale si risolse facile.

    Un solo viaggio, due piccioni, stessa forca, stesso cappio e soprattutto stessa paga.

    A proposito del secondo piccione.

    Il momento più brutto per uno che ha ricevuto la condanna a morte è la notifica, poiché apprendi che ti rimangono solamente poche ore.

    L’altro momento di maggior spossamento per i condannati è rappresentato dall’istante in cui ancora sul carro s’inizia a scorgere da lontano la forca apparecchiata.

    È come se la morte s’impossessasse anzitempo dei loro corpi tanto da poter scrutare nei volti segni istantanei d’invecchiamento.

    Salito sul carro il condannato va alla ricerca di un contatto con chi lo circonda, tenta di intavolare un dialogo, sente la necessità di raccontare la propria storia per l’ultima volta.

    Fu così che risolte tutte le pratiche ci ritrovammo all’interno delle carceri, Mastro Titta alla guida del carro ed io dietro a sorvegliare i condannati.

    Il Treca stava ancora svenuto, appoggiato di schiena sulla sponda del carro e di fianco a lui, seduto con la testa stretta tra le mani, tal Benedetto Nobili.

    Sulla strada tirava una brutta aria e il trambusto faceva spazientire anche la mula che tra tutti era certamente la più calma e assennata.

    I soldati non ci volevano far uscire dal portone a causa di un nutrito gruppo di popolani che stavano appostati fuori per prendere il prigioniero e linciarlo, sottraendolo così alla corda del boia.

    Non capivo bene quale dei due reclamassero ma a dir la verità mi sembravano entrambi abbastanza rassegnati alla loro fine.

    La luce filtrava attraverso gli spiragli del grande portone di legno che era battuto dalla gente inferocita, sentivamo le urla indirizzate ai prigionieri mentre i rinforzi dei soldati tardavano ad arrivare per sedare gli animi.

    Così sottovoce Benedetto Nobili iniziò a raccontare la sua storia, inizialmente come se la dovesse raccontare a se stesso e spiegarsi come aveva fatto a ritrovarsi in quella situazione.

    Poiché gli prestavo orecchio si risolse così di raccontarla a me.

    Dato che il Treca era un povero diavolo, per com’erano andate le cose e soprattutto per le corna, capii subito che i forcaioli fuori il portone volevano il Nobili, ritenendo che l’operato del boia fosse poca cosa per un assassino della sua risma.

    Eppure non sembrava di avere di fronte chissà che criminale.

    Era sempre stato un uomo buono e laborioso, chiaramente a detta sua, sempre timorato di Dio e della legge degli uomini.

    Capita anche ai migliori di smarrire la retta via e Benedetto Nobili non era certo annoverabile tra questi.

    Era stato innamorato della moglie ma l’avanzare dell’età e la situazione economica sempre più difficile, avevano portato i coniugi a separarsi, se non fisicamente certamente con gli affetti e con gli intenti.

    L’amore era finito e svanito quello la convivenza tra i due era sempre più logorante e burrascosa.

    Poi Benedetto perse il lume della ragione durante un forte litigio e arrivando alle mani con la moglie, non gli riuscì a spiegarmelo nei dettagli ma la uccise.

    Uccise lei e la sua comare che innocente si trovava solamente a casa di loro per una semplice visita di cortesia.

    Avendo ucciso la moglie, nel farfugliare del racconto mi sembra di aver capito che aveva battuto la testa in seguito ad uno spintone, doveva per forza ammazzare anche chi aveva assistito al misfatto e poteva con la sua testimonianza decretare la morte dell’assassino.

    L’unica cosa che gli venne in mente in quel momento era di simulare un incendio e fuggire, cercando in tutti i modi di crearsi un alibi per quel giorno, magari fuori città, magari per un impegno di lavoro.

    Così fece, raccolse tutto quello che di valore possedeva in casa e ne fece un fagotto, poi mise insieme tutto quello che c’era di facilmente infiammabile, tende, lenzuola e ammassò tutto quanto nella vicinanza dei cadaveri.

    Si diede uno sguardo intorno ma con la mente non era già più presente.

    La ragione aveva avuto paura e se l’era data a gambe.

    Appiccò il fuoco e fuggì anche lui.

    Quello che il Nobili non sapeva, ma ne venne a conoscenza poco prima che la corda gli tirasse il collo, fu cosa andò storto nei piani che aveva concepito.

    Lo capì tra gli insulti e gli sputi che partivano da quelli che si erano appressati sotto la forca, tra i quali spuntava su tutti il suo vicino di casa.

    Ercole, che abitava poco lontano da loro, era uno di quei vicini un po’ impiccioni, di quelli che sono sempre pronti a darti una mano sia ti serva sia non ti serva.

    Una volta accortosi del fumo non perse certo occasione e fece irruzione in casa spegnendo l’incendio sul nascere.

    Il risultato fu che l’incendio non prese per colpa dell’intervento del vicino e i cadaveri delle due donne rimasero pressoché intatti o abbastanza da poter testimoniare con la loro presenza l’avvenuto assassinio.

    Messo sotto accusa, il Nobili cercò in tutti i modi di spiegare che lui era fuori città ma quando uscì da casa dopo aver appiccato l’incendio, aveva corso come un matto e lo videro più persone in quello stato.

    Se fosse uscito a passo lento come soleva fare sempre, nessuno l’avrebbe mai notato, invece correndo come fosse stato inseguito dal demonio catturò l’attenzione di molti che lo incontrarono.

    Terminò il racconto nascondendosi il viso con le mani per la vergogna, proprio nel momento in cui la rissa fuori fu sedata e il portone del carcere si aprì.

    Scortati dai soldati andavamo incontro alla sua morte e già vedendo la forca da lontano, niente più mi disse.


    ¹                               Voce del popolo, voce di Dio Bibbia, Libro di Isaia 66,6.

    ²                               Non ascoltate chi dice che la voce del popolo è la voce di Dio, perché il rumore della massa è sempre vicina alla follia Alcuino da York.

    Appendice al capitolo

    Dai racconti di Mastro Titta: Una vedova tutt'altro che allegra!.

    È dura pensà che a Orvieto, cresciuto su una rupe de tufo prima che il Paglia e il Chiani se gettano sul Tevere, possa esse accaduta una storia simile. Morto il marito,Agostina Paglialunga rimase vedova con tre pargoli di cui uno da svezzare, ma lei era una donna forte e caparbia e non se ne fece un grande problema. Chi pe semplice godimento, chi pe volella in sposa, la cara Agostina avea il suo bel da fare con i corteggiatori, e ogni tanto a consolar la vedova qualche anima pia ce annava volentieri. La femmina accordò la preferenza a un gagliardo giovanotto macellaro che, dopo avella avuta più volte non s’era poi così convinto a volella accasare. Finché ce se diverte tutti bravi, poi alla conta non se r’trova nisciuno. Così tra l’usco e il brusco il macellaro mise avanti la scusa che co tre figli non sua non se l’avrebbe mai sposata, un po’ perché tre vocche da sfamà non erano mica bazzecole e poi le male lingue del paese chi le volea sentì? Lei la notte appresso, con la stessa ascia da macellaro che l’amante l’avea lasciato da arrotà, messi in fila tornò d’un tratto vedova senza figli. Mise i pezzi a bollì me na caldara e con la stessa acqua pulì a terra e l’ascia, poi trasse il tutto per spargerlo pei campi. Il giorno appresso disse che un fratello del defunto marito, avea portato lontano le creature e lei rimasta sola era pronta pe sposasse il macellaro. Non so se il macellaro era intenzionato a prendesela sta femmina n'demoniata, ma sicuro non se la sposò. Buon per lui. Forse il caso forse Iddio, i giorni a venire un grosso cane entrò in piazza con un osso in bocca e il medico del paese riconobbe l’osso come quello de un cristiano. Fatte le ricerche pe le campagne circostanti i birri trovarono li resti dei ragazzini e la donna messa alle strette, crollò e confessò il misfatto. La folla voleva avvicinasse pe fa giustizia da soli, na folla inferocita che s’era appressata a Orvieto da ogni dove, e Mastro Titta la dovette difenne. Come il cane fa con l’osso, appunto, altrimenti anche lì, nun se sarebbe guzzato un chiodo.

    Dagli

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