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Cinque pacchi di panbiscotto e tabacco
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Cinque pacchi di panbiscotto e tabacco

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Pensare che la guerra sia finita e diventare invece prigioniero di guerra per la dissenteria di un commilitone, che non si può abbandonare e che ti fa perdere il treno giusto, della salvezza.

Stendere con un pugno un militare tedesco armato, in Germania, e uscire vivo dalla prigionia.

Custodire una moneta da 10 lire per due anni, senza farsela beccare dalle varie perquisizioni, pensando di avere in tasca un piccolo capitale e ritrovarsi al rientro che non vale più niente, perché nel frattempo è intervenuta una svalutazione «insopportabile».

Sono queste alcune storie raccontate in un’intervista da Bortolo Re, alpino del 1923, reduce della seconda guerra mondiale, dopo aver superato i 90 anni e che si accinge a festeggiare, come dice lui, i suoi primi 95 anni.

Una vita impegnata a costruire una storia buona e dimenticare gli orrori della guerra ma che in vecchiaia viene rivisitata e raccontata con un ricordo lucido di luoghi, persone, date e avvenimenti. Dalla rielaborazione emerge che in fondo la prigionia non è andata così male e che anche il nemico aveva un’umanità e rispetto per chi sapeva farsi rispettare.

Un racconto della guerra della vita, «combattuta. Ma vorrei dire anche vinta».
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateDec 17, 2018
ISBN9788827861981
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    Book preview

    Cinque pacchi di panbiscotto e tabacco - Bortolo Re

    (1939-1945)

    Introduzione

    di Andreina Re

    No se vedéa l’ora de dimenticare. Dimenticare e basta. Morta lì. Credo che il nonno ce l’abbia messa davvero tutta per dimenticare l’orrore della guerra. Eppure col passare degli anni, a poco a poco, nei suoi discorsi con noi nipoti l’argomento della sua prigionia è affiorato con sempre maggiore pregnanza, tanto che il testo che segue è solo una piccola parte dei tantissimi episodi che sono emersi nel dialogo con lui. Ricordo, ad esempio, tra le molte cose che non sono finite in questo testo, il disgusto ancora vivo per una patata marcia trovata per strada, morsa per fame, e il giuramento fatto a se stesso di non ridursi mai più a tanto. Nonostante il tentativo razionale della mente di liberarsi di quei ricordi, il corpo non ha dimenticato.

    Credo che sia questa la chiave di lettura più importante delle pagine che seguono. Nella Storia con la esse maiuscola, racchiusa in libri e manuali, non sempre si intravedono i mille rivoli delle storie individuali scaturite da quegli eventi. A fare da contrappunto alle strategie militari nazionali, alle grandi ideologie, agli accordi sottobanco, ci sono infinite tattiche personali che affiorano non appena si prova a guardare nella vita quotidiana della gente.

    Ciò che reputo eccezionale, in questo racconto, non sono tanto le soluzioni messe in atto da un soldato nemmeno ventenne che tenta di salvarsi la pelle dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quanto la capacità di restituire con – per me – inedita freschezza tutte le sfumature sensoriali di quella vita, le scelte da prendere che avrebbero condotto ad esiti diversi, la forza di rendersi protagonisti del proprio piccolo raggio d’azione. La memoria lucidissima del nonno ci riporta a un contesto molto materiale, dove teoria e ideologia pressoché non esistono: esistono solo il lavoro, gli ambienti, i bisogni primari, altri uomini.

    Non c’è alcun tentativo di rimaneggiamento del materiale raccolto, romanzandolo o verificando e corregendo date e sequenze. Il testo è stato trascritto letteralmente, lasciando al nonno il timone nel condurci nelle sue memorie di quanto avvenuto settantacinque anni fa.

    La prosa segue due stili differenti. Quando il racconto procede in chiave cronologica, il periodare si sviluppa per enunciati brevi, molto ritmati, come se nelle orecchie risuonassero ancora ordini ricevuti, sequenze a cui obbligatoriamente ubbidire, passi di marcia. Anche i personaggi mantengono la loro voce originale: gli ordini dei capi sono sempre dati in italiano, i discorsi con gli amici sono riferiti in dialetto. Quando invece il racconto diventa più personale, biografico, il discorso rallenta, procede per mille ripetizioni, si arricchisce di dettagli, ritorna continuamente sui suoi passi. La trama dei contesti si costruisce per piccoli progressi, come quando dopo anni si riapre un cassetto rimasto chiuso per molto tempo e gli oggetti contenuti sollecitano un reticolo di memorie raggomitolate i cui fili non sono facilmente districabili. Ognuno di noi conosce intimamente quel brivido di piacere che scaturisce dal rigirare fra le mani cose che pensavamo perdute o dimenticate per sempre. E se sulle prime i colori non si vedono bene, coperti dalla polvere, è proprio nel lento lavoro di rimaneggiarli e rimirarli, che la polvere si leva e lascia spazio ai dettagli originali.

    L’intervista da cui è partito il lavoro è stata registrata nella primavera del 2013; ad essa sono seguite alcune chiacchierate di approfondimento raccolte in quest’ultimo anno. In alcuni casi, per garantire fluidità e coerenza all’intero discorso, sono stati operati dei tagli che vengono segnalati con il simbolo [...]. Trattandosi di un’intervista, la voce del nonno è introdotta dalla lettera B., quella dell’intervistatore dalla lettera A.

    Nel racconto il riferimento va spesso a una data che ha cambiato il suo status di prigioniero: il 1 settembre 1944, data in cui narra di essere stato dichiarato Libero Civile. Si tratta di un evento molto poco conosciuto, ma importantissimo per tutti i militari che hanno condiviso col nonno l’esperienza di prigionia in Germania. Viene descritto bene da Mattia Vallerin nel suo saggio Storie e memorie di Internati Militari Italiani, pubblicato dalla sezione di Padova della ANEI (Associazione Nazionale Ex Internati).

    Il 20 settembre 1943 Hitler diffuse un ordine secondo il quale i militari italiani non dovevano più essere considerati prigionieri di guerra, ma indicati con il termine ‘Internati Militari Italiani’ (IMI). Questo atto, in apparenza, sembrava funzionale a tutelarli, riconoscendo la specificità della loro condizione. In realtà si trattò di uno stratagemma per differenziare gli italiani dagli altri prigionieri di guerra, sottraendoli alla tutela della Convenzione di Ginevra del 1929, che per loro prevedeva l’assistenza della Croce Rossa Internazionale. In questo modo, inoltre, gli italiani potevano essere costretti al lavoro manuale. [...] Il regime di Salò assunse il ruolo di potenza garante degli internati, avendo la possibilità di prestare loro assistenza. La complicata condizione, che riguardava più di mezzo milione di italiani prigionieri nel territorio controllato dall’alleato tedesco, rappresentava un problema per Mussolini e la sua credibilità. La RSI sostenne quindi un notevole sforzo per fornire agli internati cibo, indumenti e medicinali, istituendo a tale scopo, nel marzo del 1944, il Servizio Assistenza Internati (SAI). Tuttavia i vertici della Wehrmacht impedirono sempre che questa attività assistenziale fosse efficace, non dando informazioni relativamente al numero degli internati ed ai lager in cui si trovavano. Inoltre l’ente istituito da Mussolini doveva fare i conti con le grandi difficoltà di approvvigionamento che aveva nel Nord Italia [...] e non fu quindi in grado di dare un effettivo contributo al miglioramento della condizione degli Internati Militari Italiani. [...] Mussolini cercò di rimediare al problema facendo pressione sui vertici tedeschi affinché gli internati militari fossero trasformati in lavoratori civili. Infatti il Duce non era nelle condizioni di inviare nel Reich altri lavoratori italiani e non poteva di certo permettersi il ritorno in Italia di persone che si trovavano in condizioni di salute precarie e gli sarebbero state ostili. Dopo mesi di trattative, il 20 luglio del 1944 la richiesta venne accolta dal Führer. [...] Gli accordi siglati tra Hitler e Mussolini entrarono effettivamente in vigore nel settembre del 1944, quando il cambiamento di status dei prigionieri venne attuato coercitivamente. Per una parte degli internati (in particolare tra i sottoufficiali ed i soldati) ciò ebbe effetti positivi sotto il profilo alimentare - almeno fino all’inizio del 1945, quando la situazione tornò a farsi drammatica - e per il fatto che diminuirono i controlli ed aumentò la libertà di movimento. Nella maggioranza delle circostanze si trattò comunque di un cambiamento di facciata, considerando anche che il compito della sorveglianza degli IMI era passato dalla Wehrmacht alla Gestapo. Inoltre non si può ignorare che per gli ufficiali il passaggio a lavoratori civili rappresentava una vergogna, in quanto non veniva più rispettata la loro condizione di militari. I sottoufficiali ed i soldati, invece, diventando lavoratori civili rischiavano di apparire agli occhi degli Alleati come collaboratori del nemico tedesco, e, fatto non trascurabile, in questo modo essi perdevano il diritto a chiedere risarcimenti dopo la guerra.

    Nota linguistica

    La trascrizione del dialetto segue le linee tracciate da Silvano Belloni in Grammatica Veneta, con queste piccole eccezioni.

    Ho usato la x per rappresentare la s sonora a inizio parola, che nell’italiano non c’è: xe (è), xa (già), xo (giù), xaino (zaino), xovane (giovane) e così via.

    Tipica del dialetto veneto è l’assenza di consonanti doppie; tuttavia, ho mantenuto la doppia s usata per indicare la s sorda posta tra due vocali, anche laddove la doppia non è presente: stassion, invesse, etc.

    La l posta tra due vocali a volte è presente e a volte cade. In quel caso, l’elisione è stata segnalata con un apostrofo: ad esempio, mi’itare per militare.

    Per effetto di metafonesi (fenomeno molto frequente nella lingua veneta per cui la vicinanza di una i nella sillaba finale trasforma anche le vocali delle sillabe precedenti) nel testo compaiono indifferentemente le varianti tedeschi/tedischi/tidischi. Il criterio adottato nella restituzione è la trascrizione letterale di quanto ascoltato.

    Il testo originale scivola continuamente tra l’italiano e un dialetto spurio sorto da una matrice vicentina su cui si è innestato il parlare del Friuli occidentale. La lingua del nonno è duttile, mutevole a seconda degli enunciati: coesistono iera/gera; gavémo/ghemo e un’infinità di altre microvarianti che ho cercato di mantenere intatte trascrivendole fedelmente.

    Al fine di rendere apprezzabile il testo anche all’esterno della cerchia familiare, il testo è presentato dapprima in versione originale e, a seguire, in italiano corrente. Gli apparati introduttivi, biografici e storici sono scritti in italiano.

    Note biografiche

    di Enzo Re

    Bortolo Re nasce a Fara Vicentino il 19 ottobre 1923, da Pietro e Anna Squarzon. La famiglia contadina ha casa in collina. È secondo di 7 fratelli, primo di 5 maschi.

    All’inizio del ‘43, in piena seconda guerra mondiale, viene chiamato alle armi e dopo la consueta preparazione viene inviato in appoggio alle truppe. Ma la destinazione è incerta perché ormai gli americani stanno risalendo la penisola. Arriva così l’8 settembre e non si sa più da che parte stare. Così, assieme a diversi commilitoni viene fatto prigioniero e deportato in Germania a lavorare nelle fabbriche di armi.

    Da qui il racconto della sua storia.

    Sopravvissuto e liberato, nel ’45 ritorna in patria e riprende la vita contadina. Nel ’53 convola a nozze con Silvia Corradin ed esce dalla casa paterna per fondare la sua famiglia. Prima in via Tre Ca’ a Breganze e poi in Costa.

    Nel 1957 emigra in Friuli con moglie, due figli, due vacche e poche suppellettili ma in una casa di proprietà, con stalla e cinque campi di terra in via Roiata in comune di San Quirino.

    Nel 1962 sottoscrive un mutuo a riscatto con l’Ente Tre Venezie per un podere di 11 ettari, casa e stalla nuove, in località Villotte di San Quirino. Il trasloco viene fatto con cinque figli, una falciatrice, un carro e i bovini sono diventati nove.

    Poi è arrivato il trattore e la meccanizzazione e l’auto. Nel tempo è stato messo mano anche ai fabbricati. La casa è sempre quella, ma attorno sono comparsi capannoni e stallone e la campagna, dopo l’arrivo della zona industriale, ha modificato la sua geografia.

    Dall’allevamento di vacche si è passati ai bovini da carne e poi principalmente ai vigneti.

    La famiglia si è allargata. Tutti i figli si sono sposati. I nipoti sono 9 e i pronipoti 6.

    È stata una vita di sapiente lavoro e di crescita ragionata.

    Oggi si merita questo libro e tutta la festa dei suoi famigliari.

    Cinque pacchi di panbiscotto e tabacco - Testo originale

    1.  Prima della guerra

    A. Tuo papà aveva fatto la prima guerra mondiale, giusto? Aveva proprio combattuto al fronte?

    B. Lui, del ’98, non ha fatto tanta guerra. Ha fatto il Piave, sì. Iera genio pontieri. E luri iera adéti a fare i ponti. In una note teribile, che i tidischi voleva passare il Piave, luri ga rifato il ponte tre volte. Me par de verlo contà.

    A. No, no.

    B. I faséa un ponte de barche. Barche, dopo i faséa un colegamento, passava a pìe, no? Luri faséa il ponte parché ghe iera questi qua che scapava, capìssito? Par farli passare, no? Ma i tidischi voléa passare. E no i voleva farli passare. E butava xo il ponte. E lo rifaséa. Tre volte so ‘na note. Soto e bombe. Sì, lu iera del genio pontieri che sarìa stà un’arma specialista insoma. Me par che i gavéa un ingegnere anca che dirigéa, sempre ufficiale maggiore, un ingegnere del mestiere po’! [...]

    A. Ma voi da piccoli avevate una piccola campagna, no?

    B. Sinque campi e mèso. Due ètari de tera.

    A. Ma stavate benino o pativate un po’?

    B. No, non mancava del mangiare. Dopo, vestire iera un po’ carente. Comunque, no xe che semo stà mal vestìi noi. Iera qualche fameja che stava tanto pèso de noi. Manco industrialisata, capìssito? Me mama iera coretissima, anca una roba da poco, la iera coreta. Naltri ‘ndavimo sempre vestìi ben. Difati gò na foto. Naltri sempre ‘ndà vestìi coretamente. Qualche altro iera più sbandato. Sempre colpa de’e done, eh? Perché ghe iera na familia poco distante da noi, lu iera uno o due giorni ala setimana sempre imbriago. El gavéa diese fioi.

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