Letteratura tecnica sulla scultura lapidea: Dal Rinascimento al Neoclassicismo
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Attraverso le testimonianze di Leonardo, Vasari, Cellini, Borghini, Boselli, Félibien, Baldinucci, Winckelmann, Falconet, Fantoni, Cavaceppi e Milizia sono descritti gli strumenti e le tecniche della scultura lapidea attraverso l’operato degli artisti di quattro secoli.
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Letteratura tecnica sulla scultura lapidea - Simona Rinaldi
Bibliografia
Premessa
La recente partecipazione a un’impresa editoriale collettiva per l’aggiornamento del glorioso volume di Corrado Maltese sulle tecniche artistiche, ha sollecitato il riesame della bibliografia sulla scultura, in quel caso definita «litica» (dal greco ‘lithos’, pietra), per la ricognizione storica condotta a partire dall’arcaismo greco.
Con una certa meraviglia si è potuto rilevare la permanente disattenzione sulla letteratura tecnica relativa alla scultura, che si è così scarsamente arricchita di nuovi studi, da rendere ancora pienamente valida la bibliografia raccolta nel 2011.
Da tale constatazione è emersa l’utilità di recuperare e riordinare gli studi condotti in passato sull’argomento, sfrondandoli e aggiornandoli, raccogliendo le principali testimonianze trattatistiche a partire dal Quattrocento fino al primo Ottocento, con l’intento di agevolarne la consultazione e favorirne lo studio comparato.
Avviandosi il discorso dal Rinascimento, volto a recuperare l’antico anche attraverso la rilettura delle fonti classiche come Plinio e Vitruvio, è parsa maggiormente appropriata la dizione di scultura lapidea derivata dal latino (‘lapis, -idis’, pietra) anche se essa non si incontra mai nella letteratura dell’epoca.
Utilizzato già da Boccaccio, il termine ‘lapideo’ si qualifica in mineralogia come sinonimo di ‘litoide’, andando pertanto a qualificare la totalità dei materiali lapidei classificati. Si sarebbe allora potuto adottare il termine ‘pietra’ per una indicazione generica, ma se tale è il significato comunemente accolto, in realtà la mineralogia identifica con questa dizione alcune particolari specie litoidi, giungendo alla identificazione dei materiali, definiti genericamente rocciosi, in base alla loro provenienza e individuandone tre principali tipologie: le rocce magmatiche, le rocce metamorfiche e le rocce sedimentarie.
Le rocce magmatiche, dette anche ignee o vulcaniche, sono rocce formatesi per solidificazione, attraverso il raffreddamento di magmi incandescenti. Esse sono caratterizzate da notevole durezza e appartengono a tale classe le tipologie come: granito, porfido, basanite, diorite così come le pietre dure e preziose. All’interno di ciascuna tipologia si distinguono altre varietà specifiche: tra i graniti si differenziano il granito verde, il granito rosso egiziano, il granito bianco e nero, granito enfotide verde, granito della colonna, granito uadi; tra i porfidi sono distinguibili il porfido rosso antico, il porfido verde, il porfido serpentino nero; la diorite egiziana.
Le rocce metamorfiche sono invece rocce che hanno subìto modificazioni in seguito a mutamenti di temperatura e pressione (metamorfismo) e si caratterizzano per una durezza media come nel caso di quarzite, ardesia, scisti. Appartiene a tale classe il marmo, che rappresenta la tipologia più diffusa nella scultura occidentale, e che si differenzia a sua volta in numerose varietà dalla diversa colorazione: tra i marmi di colore bianco i più utilizzati fin dall’età classica sono il marmo pentelico, il pario, e il lunense (più noto come marmo di Carrara). Tra i marmi colorati e screziati sono diffusamente impiegati: il cipollino, il rosso antico, il verde, il nero belga, il brecciato giallo.
Le rocce sedimentarie derivano infine dalla sedimentazione di rocce preesistenti (magmatiche o metamorfiche) che si sono disgregate mediante processi di vario genere. Sono caratterizzate da una scarsa durezza e vi appartengono le tipologie più tenere da lavorare, come: travertino, arenaria, breccia, tufo, peperino, alabastro gessoso, alabastro cotognino, giallo antico, nero antico [1] .
Naturalmente le classificazioni condotte nei moderni studi mineralogici non trovano una immediata corrispondenza con la letteratura artistica, ma per adottare un lessico non troppo lontano da quello degli autori antichi e al tempo stesso corretto dal punto di vista scientifico, si è preferito ricorrere alla dizione di scultura lapidea, che richiama peraltro la nozione dei lapidari medievali, raccolte letterarie in cui si descrivevano numerose varietà di pietre, specialmente rare e preziose, adottate anche in medicina per le loro virtù curative
[1] L. Lazzarini, La determinazione della provenienza delle pietre usate dai Romani, in I marmi della Roma imperiale, a cura di M. De Nuccio, L. Ungaro, Marsilio, Venezia 2002, pp. 223-265.
1. Cronologia e terminologia
A differenza di quanto avviene per la pittura, la scultura non dispone di una vasta letteratura tecnica e non si conoscono trattazioni ad essa dedicate fino al XV secolo, quando Leon Battista Alberti pubblica il De statua [1] .
Benché il testo albertiano non abbia una specifica finalità tecnica, ma sia anzi il tentativo di nobilitare la scultura ponendola al pari della pittura, attraverso la teorizzazione del suo fondamento geometrico-proporzionale, il trattato fornisce la prima descrizione di uno strumento di misura che tre secoli dopo sarà stabilmente adottato dagli scultori.
Si apre così tra gli anni Trenta e Cinquanta del Quattrocento la discussione teorica sulle modalità operative della scultura lapidea, che si approfondisce nei secoli successivi dal XVI al XVIII, raggiungendo l’apice nel 1802 quando sono contemporaneamente pubblicati i testi di due scultori: Francesco Carradori e Johann Gottfried Schadow [2] .
Entrambi compendiano le fondamentali innovazioni introdotte da Antonio Canova nell’organizzazione della sua bottega, articolando l’esecuzione scultorea in tappe predefinite, ciascuna delle quali affidate agli scultori specializzati che lavoravano al suo fianco. Al tempo stesso tuttavia, i testi di Carradori e Schadow rappresentano la tappa conclusiva della letteratura tecnica sulla scultura in pietra.
Come infatti emerge dai carteggi di Canova, sin dal 1818 lo scultore inglese Francis Legatt Chantrey gli inviava il disegno di un nuovo strumento di misura denominato «macchinetta» o «crocetta», che sarebbe stato prodotto su scala commerciale dal 1822 [3] . Tale strumento, ideato tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento con un brevetto ancor oggi conteso tra Londra e Parigi [4] , modificò per sempre le modalità operative della scultura in pietra, poiché nel consentire il rapido e preciso trasferimento dei punti di misura dal modello al blocco da scolpire, meccanizzava l’esecuzione scultorea riducendola a una mera copia del modello.
Con la sua introduzione gli scultori individuarono la fase creativa artisticamente rilevante nella sola realizzazione del modello in argilla, delegando le successive fasi della lavorazione sul marmo agli operatori specializzati.
Nell’arco cronologico tratteggiato dalla redazione quattrocentesca del De statua albertiano alle testimonianze primo-ottocentesche di Carradori e Schadow, si sviluppa il dibattito teorico sulla scultura che sin dal suo apparire coinvolge rilevanti problematiche terminologiche.
L’etimologia latina del termine scultura (derivata dal verbo sculpere) sta a indicare l’arte di ricavare oggetti mediante intaglio o incisione, accogliendo l’interpretazione di Plinio in riferimento alla lavorazione dei materiali lapidei. Ma lo stesso Plinio designa con il termine statuaria l’esecuzione di statue fuse in bronzo, distinguendola da «quella arte che i greci chiamano plastica» [5] . In un passo successivo, nel ribadire la diversa terminologia adottata per la scultura, la statuaria e la plastica, Plinio pone quest’ultima, ovvero la modellazione in argilla, alla base sia della statuaria bronzea che della scultura lapidea [6] .
Tale tripartizione è ripresa dal Ghiberti nei suoi Commentari (1447-1452) che tuttavia non rivolgono una specifica attenzione alla tecnica della scultura lapidea, limitandosi a riferire l’affermazione di Plinio che «chiama il lavorare di creta madre dell’arte statuaria ovvero di scultura» [7] , suggerendo l’idea che statuaria e scultura potessero intendersi come sinonimi.
Un capovolgimento totale della terminologia classica è viceversa offerta da Leon Battista Alberti che intitola De statua il suo trattato dedicato alle arti scultoree, concentrandosi esclusivamente su quella lapidea.
Nel separare nettamente l’arte del «porre» che ritiene concernente la manipolazione di cera, stucco e argilla, dall’arte per «levare» relativa all’intaglio lapideo, Alberti precisa l’operatività di quest’ultima: «come che togliendo via quel che in detta materia è di superfluo, scolpiscono & fanno apparir nel marmo una forma o figura di huomo la quale vi era prima nascosa, & in potentia. Questi chiamiamo noi Scultori» [8] .
Con tale definizione risulta negata la tripartizione pliniana, cui l’autore sostituisce il binomio porre-levare, da correlare all’intento fondativo perseguito dall’Alberti di formulare una teoria dell’arte del tutto alternativa al racconto di Plinio, come esplicitamente affermato nel De pictura: «non come Plinio recitiamo storie, ma di nuovo fabrichiamo un’arte della quale in questa età, quale io vegga, nulla si truova scritto» [9] . La pertinenza di tale affermazione deriva anche dalla persistente incertezza sulla datazione del De statua, redatto secondo alcuni prima del De pictura, ma secondo altri come ultima trattazione dopo il De architectura.
In ogni caso la modifica terminologica dell’Alberti appare interamente accolta da Pomponio Gaurico nel 1504 che intitola De sculpura il suo trattato interamente dedicato alla fusione bronzea [10] . L’etimologia classica del termine risulta così del tutto sovvertita da Gaurico, che nel suo lessico piuttosto confuso alterna i riferimenti alla statuaria, alla sculptura, all’ aurifice sculptor, pur mostrando di accogliere come modello i trattati di retorica antichi nella struttura dialogica del suo testo.
Per quanto Gaurico sembri ignorare il testo albertiano, sono stati in realtà rintracciati dei rimandi al De statua [11] , con cui in ogni caso il De sculptura condivide la medesima sorte. Entrambi i testi rimangono inascoltati per tutto il Cinquecento, da quando Baldassar Castiglione recupera nel Cortegiano (1526) l’autorità di Plinio e la scultura bronzea torna ad essere indicata con il termine di «statuaria» e la scultura lapidea assume la designazione di «marmoraria» [12] .
Tale recupero è ribadito da Benedetto Varchi che assegna alla statuaria il significato inequivocabile di arte del bronzo, richiamandosi esplicitamente alla testimonianza pliniana: «dicono tutti et affermano che la scultura senza alcun dubbio è più nobile, prima allegando Plinio, il quale dice che l’arte della scultura, che i Latini chiamano marmoraria, fu molto innanzi della pittura e della statuaria, cioè del gittare le statue di bronzo» [13] .
Nel tentativo di conciliare gli autorevoli recuperi di Castiglione e Varchi con la concezione espressa da Michelangelo che seguiva viceversa l’opinione dell’Alberti, la testimonianza vasariana giunge a formulare, per quanto in alcuni punti confusamente, il significato moderno del termine scultura.
Vasari infatti definisce dapprima la scultura come arte del levare, facendo un’immediata associazione del termine con la lavorazione dei materiali lapidei secondo l’impostazione pliniana. Ma riferendo al contempo la distinzione albertiana tra arte del porre e arte del levare, giunge a concludere che la medesima definizione di scultura si applica a «tutte le figure, di qualunque sorte si siano, o intagliate ne’ marmi o gittate di bronzi o fatte di stucco o di legno, avendo ad essere di tondo rilievo» [14] .
Da Vasari in poi appare risolta la problematica etimologica relativa alla scultura, il cui termine risulta esteso nella sua ampia accezione alla produzione artistica tridimensionale quale ancor oggi la intendiamo.
Va tuttavia brevemente accennata la profonda modificazione intervenuta nei testi redatti dagli scultori cosiddetti contemporanei, il cui esame risulta attualmente un settore ancora del tutto inesplorato.
Gli scultori del Novecento infatti, nella progressiva disintegrazione dei confini tra pittura e scultura, focalizzano maggiormente la loro attenzione sulle riflessioni estetiche e le finalità espressive, lasciando assai poco spazio per la descrizione tecnica che è comunemente tralasciata come se fosse ininfluente. E tuttavia proprio questa totale assenza dovrebbe indurre a valutarne in profondità il significato, avviando la comparazione delle testimonianze da essi fornite. Peraltro, da una preliminare indagine bibliografica condotta, tali testimonianze risultano tutt’altro che scarse, e quindi anche il solo dato quantitativo sta a indicare un interesse precipuo degli artisti a indirizzare la discussione critica sulle tematiche a loro avviso maggiormente significative. Naturalmente i contributi non sono forniti da tutti i più famosi scultori del XX secolo, ma la bibliografia raccolta fornisce in ogni caso un panorama sufficientemente articolato, che ci si augura possa diventare oggetto di ulteriori ricerche future [15] .
[1] L.B. Alberti, De statua, a cura di M. Collareta, Sillabe, Livorno 1998.
[2] F. Carradori, Istruzione elementare per gli studiosi della Scultura, Tipografia Società Letteraria, Pisa 1802; J.G. Schadow, Die Werkst ä tte des Bildhauers [Lo Studio dello scultore] (1802), in F. Carradori, Istruzione elementare per gli studiosi della scultura (1802), a cura di G. C. Sciolla, Canova, Treviso 1979, pp. 54-63.
[3] H. Honour, Canova’s Studio Practice. I. The Early Years; II. 1792-1822, in «The Burlington Magazine», 1972, CXIV, 828, pp. 146-159; 829, pp. 214-229, in particolare I, p. 154, nota 60.
[4] Secondo M.T. Baudry, La Sculpture: Méthode et vocabulaire, Imprimerie Nationale, Paris 1978, p. 178, l’invenzione della macchinetta è alternativamente da attribuire a Nicolas-Marie Gatteaux (Parigi 1751-1832) o a John Bacon (Southwork 1740 - Londra 1799).
[5] Plinio, Storia Naturale, V, Mineralogia e storia dell’arte-Libri 33-37, a cura di A. Corso, R. Mugellesi, G. Rosati, Einaudi, Torino 1988, lib. XXXV, 35.
[6] Ivi, XXXV, 156.
[7] L. Ghiberti, I Commentarii, a cura di L. Bartoli, Giunti, Firenze 1998, I, 8.
[8] L.B. Alberti, Della Statua, in Opuscoli morali di Leon Battista Alberti Gentil’huomo Fiorentino […] Tradotti, & parte corretti da M. Cosimo Bartoli, appresso Francesco Franceschi Sanese, Venezia 1568, p. 290.
[9] L.B. Alberti, De pictura, a cura di C. Grayson, Laterza, Bari 1975, lib. II, 26.
[10] P. Gaurico, De sculptura (1504), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1999.
[11] E. Di Stefano, Pomponio Gaurico e l’estetica della scultura, in «Aesthetica Preprint», 2001, 9, pp. 9-22, in part. p. 10.
[12] B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, a cura di G. Preti, Einaudi, Torino 1965, p. 82-83.
[13] B. Varchi, Lezzione nella quale si disputa della maggiorana delle arti e qual sia più nobile, la scultura o la pittura fatta da lui publicamente sulla Accademia Fiorentina la terza domenica di Quaresima, l’anno 1546, in Due lezzioni, di M. Benedetto Varchi, sulla prima delle quali si dichiara un sonetto di M. Michelangelo Buonarroti. Nella seconda si disputa quale sia più nobile arte, la scultura o la pittura, con una lettera d’esso Michelagnolo e più altri eccellentissimi pittori e scultori sopra la questione sopradetta, appresso Lorenzo Torrentino impressor ducale, Firenze 1549, p. 40, consultabile online sul portale della Fondazione Memofonte: http://www.memofonte.it/ricerche/trattati-darte/#benedetto-varchi (ultimo accesso 14/02/2018).
[14] G. Vasari, Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, appresso Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, p. 52.
[15] Ordinate alfabeticamente, si tratta delle testimonianze dei seguenti scultori: Constantin Brancusi, Aforismi, a cura di P. Mola, Abscondita, Milano 2001; Alexander Calder, Scritti e conversazioni, a cura di R. Venturi, Abscondita, Milano 2009; Alik Cavaliere, Taccuini 1960-1969, a cura di E. Pontiggia, Abscondita, Milano 2015; Camille Claudel, Corrispondenza, a cura di A. Rivière, B. Gaudichon, Abscondita, Milano 2005; Pietro Consagra, Vita Mia, Skirà, Milano 2017; Marcel Duchamp, Ingegnere del tempo perduto. Conversazione con Pierre Cabanne, Abscondita, Milano 2009; Alberto Giacometti, Scritti, a cura di E. Grazoli, Abscondita, Milano 2001; Leoncillo Leonardi, Piccolo Diario (1957-1964), in Leoncillo Leonardi, cat. mostra a cura di G. Carandente (Spoleto 1968), Edizioni Alfa, Bologna 1969, pp. 73-94; Arturo Martini, La scultura lingua morta e altri scritti (1945), a cura di E. Pontiggia, Abscondita, Milano 2001; Henry Moore, Sulla scultura, a cura di A. Salvini, Abscondita, Milano 2002; Auguste Rodin, La lezione dell’antico, a cura di S. Esengrini, Abscondita, Milano 2007; Auguste Rodin, L’arte. Conversazioni raccolte da Paul Gsell, a cura di L. Quattrocchi, Abscondita, Milano 2013; Auguste Rodin, Le cattedrali di Francia, a cura di P. Martore, Castelvecchi, Roma 2017; Medardo Rosso, Scritti sulla scultura, a cura di L. Giudici, Abscondita, Milano 2003; Adolfo Wildt, L’arte del marmo (1921), a cura di E. Pontiggia, Abscondita, Milano 2002.
2. La selezione dei testi e delle edizioni
La letteratura tecnica sulla scultura in pietra è stata selezionata ordinandola cronologicamente e scegliendo le edizioni che si ritengono maggiormente significative: un criterio quest’ultimo del tutto soggettivo che richiede qualche precisazione.
Nel caso del primo testo costituito dal De statua di Leon Battista Alberti, l’edizione scelta è quella pubblicata nel 1568 da Cosimo Bartoli che fornisce la prima traduzione in volgare dell’opera scritta in latino dall’Alberti. Essendo ancora in discussione la datazione certa del testo che, come si è accennato, è assegnata alternativamente prima, durante o dopo la pubblicazione dei più noti testi dell’Alberti sulla pittura e sull’architettura [1] , l’edizione del Bartoli ha rappresentato il punto di riferimento esclusivo per i lettori dal Cinquecento fino alle traduzioni moderne. Nella consapevolezza della migliore interpretazione fornita dagli studi critici più recenti condotti sui testi albertiani [2] , la scelta dell’edizione cinquecentesca del Bartoli deriva in sostanza dal fatto che fu letta da tutti gli scultori e i trattatisti nel periodo qui preso in considerazione.
Cronologicamente successivi alla trattazione albertiana, gli appunti di Leonardo sulla scultura si rintracciano in vari manoscritti contenenti annotazioni sparse, la cui raccolta ancora valida risulta quella ottocentesca curata da Richter [3] , mentre a partire da Giorgio Vasari, la scelta si è orientata sulle prime edizioni dei testi.
Per la testimonianza di Giorgio Vasari in particolare, si fa direttamente riferimento alla prima edizione torrentiniana