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Akiko. Le origini
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Akiko. Le origini

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About this ebook

Arti marziali e filosofie orientali si fondono in questo epic fantasy, dal sapore esotico.
Cosa succederebbe se un uomo sfidasse il Kami, o spirito, del Tempo? Quando Ashvin perse moglie e figlia, dette inizio alla sua personale guerra contro gli dei, dando il via a una concatenazione di eventi che fece nascere Akiko e la condusse al Ryūjinja, il monastero dove lei imparerà tutto sulle arti marziali e sulla sua anima.
In un viaggio tra epoche diverse, verranno svelate le macchinazioni del Monastero del Drago, un grande guerriero avrà una seconda possibilità e Akiko verrà istruita alla Via del silenzio.
LanguageItaliano
Release dateDec 20, 2018
ISBN9788833170381
Akiko. Le origini

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    Akiko. Le origini - Michela Cavaliere

    forma.

    Leggenda

    Nessuno aveva mai osato sfidarmi, prima di allora.

    Né i miei fratelli e sorelle, né i loro fedeli, tantomeno le creature che sapevano soltanto strisciare sulla terra.

    Non avevo figli.

    Al Kami del Tempo non era concesso averne. Cosa sarebbe mai successo se il tempo avesse avuto l’ardire di interrompersi, di ruotare all’inverso, di rallentare o accelerare?

    I figli erano una seccatura, lo avevo capito fin da subito guardando nel futuro i guai che alcuni miei nipoti avrebbero fatto ai loro creatori. Ero da solo a gestire l’ordine delle cose, creato dalla Madre più generosa e terribile dell’universo. Gli uomini sembravano aver trascurato il mio culto fin dagli albori, ero stato dimenticato dagli esseri umani che adoravano la pioggia che assetava la terra, il sole che scaldava i corpi, la luna che portava i sogni. Il tempo era diventato presto un concetto razionale da cui non poter trarre alcun beneficio o danno. Non avevo mai ricevuto nessuna invocazione, non avevo sacerdoti o custodi del mio culto, né templi, né oggetti che ritraevano i miei simboli. Non conoscevo noia o dolore, gioia o soddisfazione. Mia Madre mi aveva creato capace di resistere a tutto, resistere al Tempo, io stesso ero il Tempo, che scorreva regolare senza sentimenti. Ero trasparente agli uomini, dimenticato anche dai miei fratelli, eppure ci fu qualcuno che un giorno gridò il mio nome.

    Provò ad alterare l’ordine del Tempo.

    Fu egoista e, a suo modo, eroico.

    Lui cambiò la mia infinita esistenza.

    E la sua divenne leggenda.

    Prima parte

    Passato

    Matrimonio

    Mi sudavano le mani. Erano fredde e sudavano comunque, sentivo gocce fastidiose scendermi lungo la schiena che stavano inumidendo la veste dai toni leggeri. La percepivo appiccicata alla mia pelle e, mentre mi muovevo verso la porta, la sentivo staccarsi e riattaccarsi come la colla costosa che avevo comprato dai mercanti al mare.

    Era la più calda giornata d’estate, o almeno io la percepivo tale. Khanysha era bellissima e non solo come ogni donna il giorno del proprio matrimonio, lo era molto di più, splendeva di luce divina, il sole baciava il suo sorriso e i capelli brillavano. Mi disse a voce bassa, arrossendo un poco: «Stai benissimo».

    Mi persi quel giorno nei suoi occhi scuri, in quel sorriso, nel calore del suo bacio dopo la benedizione dell’alta sacerdotessa.

    Sono l’uomo più fortunato del mondo, pensai sentendo il cuore gonfio di amore e orgoglio.

    Avevo sposato la donna che il mio cuore aveva scelto da tempo. Bramavo tutto di lei. I baci, le sue mani sulla mia pelle, la sua anima a contatto con la mia. Quella notte era stata magica, non perché possedetti il suo corpo, così morbido e caldo, ma perché la sentii addormentarsi sul mio petto nel cuore della notte. Lei si fidava di me. Ed era per quello che riusciva a dormire così bene, senza incubi, senza ansie, senza tumulti della mente. Lei si fidava così tanto di me…

    «Non è più il tempo della fame e della sete, Ashvin caro», mi disse lei la mattina dopo, guardando dalla grande terrazza le nostre terre. «Ed è tutto per merito tuo, il nostro popolo ti deve la vita e la ricchezza».

    «Lo so», risposi io, facendole sollevare un sopracciglio.

    «Hai ottenuto tutto quello che un uomo potrebbe mai immaginare», continuò lei, guardandomi negli occhi, distogliendo la vista dalle nostre terre dorate e ricche di ruscelli d’acqua, piccole oasi di palme e decine di bancarelle. Oggi era giornata di mercato.

    «Hai ragione e hai detto bene», confermai io rassicurandola per pochi secondi. «Tutto quello che un uomo potrebbe mai immaginare… ma non voglio essere solo un uomo».

    «Cosa intendi dire?».

    «Io ho potere, Khanysha, molto potere», le poggiai le mani sulle spalle. «Ho studiato per tutta la mia vita, ho affinato le mie capacità e sono a pochi passi dal diventare leggenda: l’uomo che divenne dio».

    «Questa è blasfemia, Ashvin!», inorridì lei.

    «Blasfemia? Moglie adorata, sono soltanto consapevole delle mie capacità… potremmo avere tutto questo per sempre».

    «Mi fai paura, lo vedi che lo abbiamo già? Tutto quello che vorremmo avere è qui, sotto i nostri occhi», disse lei con quel tono che sembrava solo pacato, ma aveva in sé la fredda calma della leonessa che puntava la preda.

    Non riuscii a non sorridere.

    «Fidati di me, ho portato questo piccolo popolo alla grandezza, porterò noi all’eternità».

    Ero nato senza nulla al mondo, ma avevo un dono.

    La magia.

    Chiamata dai vari popoli in modi diversi, era sempre e soltanto la stessa cosa: capacità spirituale, energetica ovvero magia. Che provenisse dagli dei, dalla natura, dalle stelle, dal Sole o dalla morte, la magia nasceva come una piccola luce all’interno di pochi, pochissimi eletti nel mondo.

    Ero nato povero, in una casa che era difficile chiamare tale, composta da una stanza con un tavolo e una camera dove dormivo con altri cinque fratelli, mia madre e mio padre. Un’infanzia di fango e sudore, senza giochi, senza spensieratezza, dove l’unica cosa importante era sopravvivere. Ero il più grande, a cui veniva richiesto di portare dei secchi colmi di acqua tutti i giorni dal pozzo lontano due ore di cammino all’andata e due ore di cammino al ritorno. Odiavo quella vita, odiavo tutto e soprattutto odiavo essere consapevole che quella vita sarebbe stata la mia per sempre, come lo era per i miei genitori, come lo era per i nostri pochi amici e parenti.

    Avevo dentro di me la voglia di cambiare tutto, ma ogni giorno che fantasticavo sulla mia rivincita personale venivo ricacciato a forza nella mia sconsolata realtà. Non avevo modo di scappare da tutto questo, potevo solo sopravvivere e sognare. Così, nelle notti in cui non riuscivo a prendere sonno, uscivo dalla mia catapecchia e mi stendevo sulla terra umida, incurante del pericolo degli scorpioni giganti, delle formiche che entravano nei miei calzari; guardavo le stelle piangendo e pregando.

    «Salvatemi», chiedevo senza sosta.

    Eppure, nessuno mi ascoltava, anzi, tutto peggiorò quando mio padre si ammalò di una febbre che l’aveva portato al delirio e, nel giro di due giorni, se l’era mangiato vivo. Da quel momento, tutti nel piccolo villaggio morirono e io non potei fare niente, non potei salvare nessuno. Come avrei potuto?

    Mi ritrovai con il mio fratellino più piccolo tra le braccia, ansimante e talmente sudato da inzupparmi.

    «Ashvin, aiutami».

    Piansi ancora una volta, come tutti i giorni precedenti, mentre avevo osservato morire tutte le persone più care che si erano portate via con loro una parte del mio cuore.

    «Non so cosa fare», gli dissi singhiozzando come un bambino. Ma, in fondo, io ero un bambino.

    «Aiutami, non voglio morire», replicò lui, cinque anni di vita, consapevole che fra poco il suo spirito avrebbe lasciato quel corpicino così fragile.

    «Non lo so!», gridai stringendolo a me. «Non so cosa fare!».

    «Prega per me, come la… mamma», concluse chiudendo gli occhi con delicatezza.

    Poi lui si spense prima che potessi pensare o dire altro.

    Era morto anche lui tra le mie braccia e io ero rimasto solo, del tutto solo.

    «Dei!», urlai con tutta la mia voce. «Vi odio!».

    Piansi a lungo, spossato nel corpo e con l’anima sfracellata dal dolore, ma a un certo punto mi destai con una rabbia che avrebbe cambiato la mia esistenza.

    «Perché?!», poi gridai qualcos’altro, sgorgato dal profondo del mio essere: «Io ve la farò pagare!».

    Al tempo non mi fu possibile capirlo, tantomeno vederlo. Ma sono sicuro che la mia Ōra abbia vibrato così a lungo e in modo talmente potente da richiamare qualcuno da molto lontano.

    Apparve a pochi passi da me.

    Appena notai quella figura immersa nella notte, indietreggiai spaventato e sconvolto.

    «Chi…», biascicai. «Chi sei?».

    Lui si guardò attorno come alla ricerca di qualcosa e non diede peso alla mia domanda. Era un ragazzo poco più grande di me, dai tratti gentili, ma dagli occhi spietati. Quegli occhi non sembravano appartenere a un giovane.

    «Ho sentito la tua rabbia».

    Ero incredulo.

    «Vuoi vendetta per la tua famiglia? Per la tua vita patetica?», mi chiese come se mi conoscesse da tempo. «Desideri riscatto? Ti darò il potere per farlo, ma tutto avrà un prezzo, la tua felicità non sarà per sempre».

    Non era una domanda, lui aveva già deciso e io, comunque, non mi sarei mai opposto.

    In quel momento avrei desiderato qualunque cosa pur di uscire vivo da lì.

    Che sciocco…

    Fece i pochi passi che ci separavano, si inginocchiò alla mia altezza e pose la sua mano sul mio petto. La mia consunta maglia si lacerò all’istante e io iniziai a gridare dal dolore, un dolore immenso.

    Mille e più aghi di fuoco premettero sulla mia pelle ed entrarono dentro di me, bruciando ogni parte del mio corpo. Non so quanto durò, per me fu talmente straziante e lento da farmi sentire l’eternità. Poi lui staccò la mano e il mio sguardo cadde sul simbolo che avevo sul petto.

    «Cosa mi hai fatto?», domandai con un tono di voce che mostrava tutta la mia fragilità.

    «Ti ho dato quello che hai chiesto».

    Lo guardai incredulo, non sapendo cos’altro dire, anche se mi premeva una domanda che avrebbe decretato il mio destino: «Ma tu chi diavolo sei?».

    Lui sorrise e potei capire solo tempo dopo il motivo. Senza saperlo, avevo c’entrato il punto: chi diavolo era quell’essere? Ma la sua risposta non si fece attendere troppo e, con una voce che non dimenticai mai per il resto della vita, lui mi rispose: «Io sono Kowareta».

    Il primo mago

    Quello che mi disse dopo, stranamente, mi tranquillizzò. Non sapevo se credergli o meno, non ero sicuro di guardare negli occhi colui che mi aveva detto di essere e se quello che mi aveva fatto nel corpo mi avrebbe condannato o salvato, ma dentro di me sentii di poter respirare aria fresca. Era la prima volta.

    Avevo lasciato il corpo di mio fratello sotto un cumulo di pietre, di più non potevo fare per lui. Ero malnutrito, debole e confuso su quella che sarebbe stata la mia vita, ma quando finii di dirgli addio, Kowareta era ancora lì ad attendermi.

    «Sei pronto?».

    «Penso di sì», risposi io senza capire ciò a cui sarei dovuto essere pronto.

    «Tu sei il primo», continuò lui. «Dovrai allenare il tuo corpo, addomesticare la tua mente, rendere ferrea la tua volontà, ma prima di tutto hai bisogno di cibo, vestiti e quelle cure che una madre dà di norma ai figli».

    «Io qui non ho più nessuno», gli commentai con semplicità.

    «Certo, lo so, ma ti darò una nuova famiglia che possa crescerti con affetto e, nel frattempo, studierai le arti oscure». Mi tese la mano e io gliela strinsi con fiducia, cos’avevo da perdere? «Andiamo, ora».

    Fu quella la prima volta che volai. Mi sentii sollevato dall’aria e trasportato con estrema dolcezza sopra le abitazioni addormentate della mia terra natia, osservai grandi predatori dormire tra le fronde degli alberi e uccelli notturni andare a caccia. Per un bel pezzo nulla cambiò alla mia vista, ma quando fu quasi mattina e il sole stava per sorgere dietro le dune, cominciai a sentire suoni diversi, nuovi.

    «Dove siamo?».

    «Ai confini del tuo continente».

    Vidi le prime luci di una città durante il risveglio. Mi era stato raccontato, da un gruppo di mercanti che barattavano spesso con noi pelli, stoviglie e utensili con formaggi e speciali radici medicamentose, di agglomerati di case, villaggi su villaggi che vivevano nello stesso territorio; erano le città. Più mi avvicinavo più potevo notare case di due piani, palazzotti che non avevo mai osato immaginare, animali di cui non sapevo nulla e poi il primo amore della mia vita: «Il mare!», gridai di gioia.

    L’avevo sognato, l’avevo disegnato con un legnetto sul terreno di fronte a casa mia, mi ero fatto raccontare ogni particolare, il profumo, il colore e come appariva alla vista. Ma l’unica cosa che riuscii a pensare appena lo vidi fu all’immensità.

    «È infinito», dissi trasognato, mentre Kowareta ci faceva scendere ai confini della città.

    «Questa città si chiama Yased, è in forte crescita, ha un porto e commercia con diversi popoli confinanti», iniziò a spiegarmi. «Non averne paura, qui potrai incontrare gente di malaffare, ma anche brave persone che potranno aiutarti. Qualunque cosa tu voglia fare nella vita, qui è possibile, se vorrai imparare l’arte della spada, oppure a rubare, a contrabbandare o a fare il pane…», poi si girò a guardarmi proprio mentre imboccavamo una via brulicante di persone con cesti sulla testa, carretti e piccoli muli. «Impara tutto, ma di notte comincia a studiare le stelle, sviluppa tra le mani il potere che ti ho donato e non legarti a nessuno più del necessario».

    «D’accordo», gli risposi serio.

    Svoltammo in un’altra via, poi in una ancora più stretta dove i palazzi quasi si toccavano l’un l’altro.

    «Eccoci arrivati», aprì una porta e tre persone, una donna con la farina pure nei capelli e due bambini di circa tre anni si voltarono a guardarci. «Questa sarà la tua nuova famiglia».

    Loro annuirono, che ne fossero già a conoscenza? O che li avesse soggiogati con il suo dono diabolico? Non compresi affatto come riuscì a gestire tutto, ma a loro dette una busta piena di monete e si raccomandò: «Dovrà avere vestiti puliti, pasti adeguati e andare alla scuola dei ricchi, quei soldi basteranno per tutti voi. Aiuterà se sarà necessario e dovrai punirlo se trasgredirà le regole della città».

    La donna ringraziò crollando a terra, baciandogli le calzature sporche di polvere e promettendogli ogni cosa, quindi Kowareta si girò verso di me: «Non sai leggere, vero?».

    Scossi la testa. «Avrei voluto tanto imparare, ma al villaggio nessuno era capace, so contare, però».

    «Impara presto, poi inizia a leggere i libri che troverai nella tua stanza di sopra al momento giusto».

    «Libri?», come il mare, avevo fantasie molto colorite rispetto ai libri. «Per me?».

    Non rispose, fece un cenno quasi marziale con la testa, come a voler dire Ci siamo intesi, ragazzo! e uscì lasciandomi alla mia nuova famiglia.

    Quando il padre dei bambini tornò per pranzo portando pesce fresco che ancora si dibatteva nella cesta, capii di essere stato graziato.

    «Ti cresceremo bene, mi raccomando Ashvin», mi aveva rassicurato la donna. «Non fare mai qualcosa che ti porti a rischiare la vita, quell’uomo ricco vuole che tu cresca e impari tutto, ma smetterebbe di darci soldi se a te accadesse qualcosa di brutto, ce lo ha spiegato molto bene», sospese il discorso tremando per un attimo e portando le mani alle braccia, come a volersi confortare. «Tu mi sembri un bravo ragazzo, portaci rispetto e noi lo faremo con te».

    Era un discorso sensato e lo rispettai fino in fondo, ma mantenni la promessa fatta a Kowareta quel primo giorno della mia nuova vita: non mi legai mai a nessuno. Anche per loro, quella che tutti considerarono la mia nuova famiglia, provai riconoscenza e attenzione, ma mai affetto. Sembrava che il mio cuore fosse rimasto nella desolazione della morte dei miei cari e del mio fratellino che aveva implorato il mio aiuto nell’ultimo attimo della sua breve vita.

    Quando imparai a leggere, scrivere e parlare tre lingue, comparvero nella mia piccola stanza alcuni libri che avrebbero dovuto mettermi in allarme su quello che sarebbe stato il mio destino, ma allora la frenesia di imparare, tenerli in mano e fare bene mi condussero a un’immersione piacevole e piena.

    Cominciai con alcuni volumi sulla geografia del mondo, riconobbi nelle cartine disegnate con cura la mia terra, Yased e, con facili calcoli, riuscii a mettere il dito nel punto dove avevo lasciato la mia famiglia quella notte. Lì non era segnato nulla se non una vasta landa desolata, ma io ero abbastanza sicuro dei miei calcoli, forse Kowareta mi aveva portato in volo fino alla città perché io ne fossi a conoscenza. Quando la Geografia iniziò a stancarmi, passai alla Storia, ma c’erano cose che non capivo, troppe e fu un piccolo volume che mi attirò e che divenne quello su cui basai gran parte delle mie scelte nella vita.

    L’inizio recitava più o meno così: La guerra è di vitale importanza per lo Stato, è una materia di vita o di morte, è una scelta che può condurre alla salvezza o alla rovina. È dunque necessario che essa venga studiata meticolosamente. Quindi, bisogna considerarla tenendo presenti i cinque fattori fondamentali e analizzarla per ottenere le esatte valutazioni strategiche. Così, potrai definire la tua strategia.

    Fu quella parola, strategia, che mi tenne con gli occhi sognanti per parecchio tempo.

    Dovevo svilupparne una per vincere ogni mia battaglia, qualunque si fosse presentata nella mia vita.

    Il libro continuava.

    "Il primo degli elementi fondamentali è l’Energia; il secondo è il Cielo; il terzo è la Terra; il quarto è il Comando; il quinto è la Dottrina.

    L’Energia è tutto quello che induce il popolo a essere in armonia con i suoi capi, per la vita e per la morte, sfidando anche il pericolo estremo.

    Il Cielo è da intendere come l’azione complessiva delle forze naturali: il giorno e la notte, il cielo sereno e quello nuvoloso, il freddo in inverno, il caldo in estate, la necessità di condurre le operazioni in armonia con le stagioni.

    La Terra riguarda le distanze e se il territorio da percorrere è agevole o accidentato, se è spazioso o ristretto, e le eventualità di sopravvivenza o di morte che offre.

    Il Comando è inteso come le qualità di saggezza, di lealtà, di benevolenza, di coraggio e di severità del generale.

    La Dottrina è intesa come l’organizzazione e il controllo, la nomina di ufficiali adeguati al grado, ossia la gerarchia, e la gestione dei mezzi di sussistenza necessari all’esercito, ossia la logistica.

    Non può esserci un generale che non conosca i cinque elementi fondamentali.

    Chi li padroneggia, vince; chi non se ne cura, è annientato.

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