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Cento Chimere
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Cento Chimere

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About this ebook

Sono trascorsi più di trent’anni da quando è stato pubblicato l’album “Aspettando che sia mattino”. Era il 1987 e pochi conoscevano il nome di Pippo Pollina. Oggi, dopo aver raggiunto il successo, con centinaia di esibizioni dal vivo e importanti collaborazioni con grandi artisti di fama internazionale, il cantautore palermitano racconta la sua storia. Anno dopo anno, il suo percorso segue le tracce dei suoi dischi: sedici album per altrettanti capitoli, ciascuno dedicato ad una particolare fase della sua crescita artistica e personale, passando attraverso l’iniziale sconforto dei teatri vuoti, fino alla trionfale esibizione all’Arena di Verona, intrecciando il proprio cammino con nomi come Van Morrison e Tracy Chapman, duettando con Franco Battiato, Nada Malanima, Giorgio Conte e molti altri. Scopriremo anche il complesso rapporto con la sua Sicilia e con l’Italia intera, intensa ispiratrice di sogni e visioni, ma anche terra ostile, incapace di intuire per tempo le potenzialità di un grande artista che è stato, invece, accolto con entusiasmo dalla Svizzera, dove vive da molti anni, e dagli altri paesi di lingua tedesca, in cui ha venduto centinaia di migliaia di copie dei suoi dischi. Cento chimere è il titolo scelto per la versione italiana della sua autobiografia, scritta con la stessa mano che ha dato vita agli straordinari testi delle canzoni che migliaia di suoi fan hanno imparato ad amare profondamente. Il libro è stato già pubblicato in Austria, Svizzera, Germania, Liechtenstein e Lussemburgo, vendendo migliaia di copie, con il titolo “Verse fuer die freiheit”.

Pippo Pollina nasce a Palermo nel 1963 da una famiglia borghese di origini contadine. Cresce e studia nel capoluogo siciliano frequentando, negli anni ottanta, la facoltà di giurisprudenza e l’accademia “Amici della musica” con studi di chitarra classica. Impegnato nell’allora nascente movimento antimafia, collabora al mensile catanese “I siciliani” fino all’omicidio ad opera di Cosa Nostra del suo direttore storico Giuseppe Fava. Insieme ad altri musicisti palermitani, fonda il gruppo Agricantus con il quale lavora fino alla fine del 1985, in sei anni di intensa attività concertistica in Italia e all’estero, e seminaristica nelle scuole medie e superiori della Sicilia.
Pippo Pollina lascia l’Italia alla fine del 1985 per intraprendere un viaggio senza una meta precisa. Dopo tre anni di giro del mondo, approda in Svizzera, dove oggi vive, nella città di Zurigo.
Ha all’attivo un canzoniere di circa duecento brani, incisi nel solco di ventidue album. Oltre quattromila concerti in Italia, Germania, Austria, Francia, Svizzera, Olanda, Svezia, Belgio, Egitto e Stati Uniti.
Ha collaborato artisticamente con nomi del calibro di Franco Battiato, Inti-Illimani, Konstantin Wecker, Linard Bardill, Nada, Georges Moustaki, Schmidbauer & Kälberer, Charlie Mariano, Patent Ochsner, Giorgio Conte e molti altri.
Svariati premi della critica in rinomate rassegne musicali, sia in Italia che all’estero, lo indicano come uno dei depositari della tradizione della grande canzone d’autore italiana.
Vive a Zurigo con sua moglie Cristina.
LanguageItaliano
Release dateDec 21, 2018
ISBN9788899706517
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    Cento Chimere - Pippo Pollina

    Massimiliano

    Prefazione

    di Nando dalla Chiesa

    Pippo Pollina. Il nome e il cognome. Basta il loro accostamento per risvegliarmi una miscela di sentimenti. Suoni, memorie, camicie bianche, piazze, teatri e brindisi tra amici. Vedo un ragazzo palermitano che impara a suonare la chitarra da coetanei un po’ più grandi, in un’aria che sa di Inti-Illimani. Che a un certo punto abbandona la sua isola, la Sicilia dei mandorli in fiore e del sangue, pur amandola disperatamente. Che pratica il volontariato più umile per riscattarla, in nome di un intellettuale-giornalista ucciso a Catania la sera prima dell’Epifania, più di trent’anni fa, perché la mafia uccide d’estate, come dice il titolo di un bellissimo film, ma uccide pure d’inverno. Vedo la sua generazione, che ho conosciuto e amato da vicino, vestita senza ambizioni griffate e armata dei primi zaini in spalla. Voglia di avventura e di viaggi, vent’anni dopo il sessantotto. Non per conoscere il mondo come allora, ma per scappare dalle esplosioni di violenza vigliacca contro i giusti. Per fuggire da un mondo dove meriti e talenti vengono soffocati, contando infinitamente di più le amicizie e le parentele, comprese quelle politiche.

    Vedo quel ragazzo cresciuto che cerca fortuna in un altro Paese, portando nello zaino i doni più preziosi che la natura gli ha dato: il genio creativo e il ritmo della poesia cantata. Che egli mette istintivamente al servizio del suo bisogno di libertà. Non solo della libertà propria, ma della libertà di tutti, come testimoniano le sue canzoni più belle, da cui spuntano volti e mani di eroi della musica che non tace nemmeno di fronte alle dittature e di romantici cavalieri medievali della vita contemporanea.

    Lo vedo suonare negli spazi delle metropolitane, dove nessuno si ferma a incantarsi davanti alle melodie o alla purezza degli occhi, come tante volte ci è stato raccontato dai giornali che accade. Teatri pieni per mesi per il nome in cartellone, e passanti indifferenti se quello stesso nome si trasforma per gioco un giorno in musicista sconosciuto, infilato nelle frenesie di massa del mattino presto o del tardo pomeriggio.

    Poi vedo quel giovane, non più ragazzo, riscuotere successi con i suoi dischi e i suoi concerti. Attirare migliaia e migliaia di amanti del suo genere. Un genere tutto particolare, personalissimo, che ondeggia tra il rock, il folk e il cantautorato più classico, infiorato da qualche reminiscenza di ritmi ispanici. Vedo svizzeri e tedeschi e italiani conoscerne le parole, senza che sia una star, poiché non ha avuto quel destino, almeno non per ora. E di parole belle, sorrette da musiche dolci o dure, malinconiche o aggressive, ne ha scritte proprio tante, basta sfogliare questo libro per rendersene conto, per incontrare la ricchezza e la complessità della sua biografia, fatta di immagini, fulmini di dizionario ed emozioni, un impasto che lievita e si torce, per poi restituirci sempre lui, il cantautore che scorre il mondo da migrante, perché in fondo è quella la sua anima.

    Lo conobbi una sera a Roma. Non ne avevo mai sentito parlare, mi dissero bene di lui amici cari, esattamente della sua generazione e della sua isola. Vieni a sentirlo, non te ne pentirai. Uno spazio piccolo, duecento persone, forse nemmeno, ma mi accorsi subito che cantava soprattutto per chi era fuori di lì; in fondo a noi era dato di sentirlo, ma non eravamo noi il suo vero pubblico. Avvertii la forza della sua voce, che scaturiva da un cuore libertario e insieme timido. Volli conoscerlo e ci guardammo in faccia, e poi ci raccontammo tra birre grandi e bionde. I suoi amici che erano anche i miei; poi lui con il viso dai lineamenti appuntiti, io con il viso dai lineamenti rotondi. Più giovane e acerbo lui, io con alle spalle una storia che l’Italia conosceva, purtroppo, e che era la stessa da cui lui era scappato via. Per questo mi guardava con qualche indecifrabile forma di rispetto, mentre io lo rimiravo con l’innata simpatia che si deve a un hidalgo. Mi affascinò e mi conquistò quella sua scelta orgogliosa di tenersi il nome che raccontava la storia della sua terra. Pippo, appunto. Ho sempre pensato che, se fosse dipeso da un grande manager, quel nome gliel’avrebbero fatto cambiare. Meglio chiamarsi Frank o Jimmy o Paul, per avere successo in un mondo che ripudia le antiche tradizioni, e che – soprattutto se sei rock – chiede un tocco trasgressivo già dal nome. Lo hanno fatto in tanti, per decenni. Lui no. Sfrontatamente Pippo, indiscutibilmente Pippo, per portare sul palco le sue origini e la sua infanzia, le telefonate con la madre lontana, il nome che torna e si inscrive nei cuori di chi ci vuole bene.

    Scrissi poi di lui in un libro. Lo chiamai menestrello, e voleva essere un affettuoso complimento. Ma a pensarci quasi vent’anni dopo, non era quella la parola giusta per spiegare il suo vivere nel mondo dell’arte e della rivolta sociale, poiché questo scorre alla fine sotto le sue parole e anche sotto i gesti con cui domina il palco. Penso che gli stia meglio hidalgo, appunto, termine che usai una volta per raccontare un calciatore poeta della mia adolescenza. Oppure il termine chansonnier, che meglio disegna le profondità della cultura che una chitarra o un piano possono evocare.

    La chitarra, il piano. Sono i due strumenti con cui Pippo Pollina riveste la sua poesia, la rabbia e la dolcezza. Lo si può vedere, anche nelle immagini dei suoi cd, accomodato su uno sgabello con i lunghi capelli e con le dita magre, che slittano o picchiano sulla tastiera (e certe volte picchiano davvero), oppure in piedi chino verso la sua chitarra, da cui ricava ritmi trascinanti. Così risultò il più amato dal pubblico – fu fatto referendum popolare – alla prima edizione del Mantova Musica Festival, l’anti-Sanremo, il festival dell’eresia. Quell’anno, era il 2004, il festival nazional-popolare era stato dato infatti in trofeo, in qualità di direttore artistico, a un cantante che vantava le sue frequentazioni con un noto e potente clan mafioso siculo-americano. Apparve davvero troppo a me e pure ad altri, anche nell’Italia delle connivenze. Così nacque quell’esperienza sociale e musicale a un tempo in cui sembrò stabilirsi una specie di selezione naturale per potere accedere nelle file dei liberi e forti. Il festival dell’eresia, infatti, aveva contro il governo, ma aveva contro anche la massima industria culturale del Paese, la Rai. Quella contro cui nessun intellettuale, nessun artista ama schierarsi. In tanti musicisti progressisti si tirarono indietro, con le motivazioni più strambe.

    Pippo tornò il ragazzo innamorato di una Sicilia e di un’Italia diverse, senza nemmeno l’odore della mafia. E, proprio lui che se ne era andato lontano, fuori confine, promise un viaggio simbolico a ritroso con cinque parole che non ho mai dimenticato: Nando, vengo anche a piedi. Il pubblico dell’eresia lo accolse con entusiasmo, molti lo scoprirono proprio come io l’avevo scoperto a Roma, in mezzo a giganti come Gino Paoli o Bruno Lauzi. Fu un successo. Civile, musicale, anche umano.

    Ci siamo purtroppo rivisti poche volte. Le sue scorrerie italiane non incrociano quasi mai le mie. Lui a suonare, io a parlare. A presentare i libri che scrivo, ascoltando spesso la sua musica. Il giorno del falco, certamente. Ma anche quei versi bellissimi, quel Signore, da qui si domina la valle. Per sentirmi accanto, mentre denuncio i mali del mio Paese, la voce di un amico, la sua voglia di libertà, la sua capacità di accorrere accanto a chi sfida la mafia, il razzismo, le ingiustizie. Per cantare la vita. Eccola dunque, la miscela. Ecco che cosa mi suscita nell’animo o nelle ruote della memoria il suono accostato di quelle due semplici parole: Pippo Pollina. Buona lettura a tutti.

    Nando dalla Chiesa

    ASPETTANDO CHE SIA MATTINO

    Linard Bardill era roccioso come le montagne del cantone dei Grigioni da cui proveniva. Il suo era un italiano colorato, a volte traslato da altri idiomi: il tedesco, sua lingua madre, e il romancio che aveva imparato dai nonni ancor prima che dai genitori. Non seppi mai se fu più la tenerezza nel vedermi così magro e apparentemente indifeso oppure la curiosità per la mia voce acerba a indurlo a raccogliermi dalla strada in quei lontani giorni del marzo del 1986. So soltanto che non potrò mai restituirgli, ammesso che ne abbia la necessità, neanche la metà di ciò che lui mi ha dato. Imbracciava la chitarra con rudezza, con quelle sue mani squamate e dilaniate anni prima dalle fiamme di un incendio dal quale riuscì a salvarsi la vita per miracolo. Mi guardava negli occhi e cantava in maniera intuitiva e forte, scandendo le sillabe come solo gli svizzeri tedeschi riescono a fare e ricamando delle melodie semplici ma efficaci che ti entravano nelle orecchie senza sforzo. Da teologo verace e idealista quale era, sognava la rivoluzione non violenta, quella Gandhiana o quella dei neoecologisti, nascondendo la fierezza del suo elvetismo dietro un repertorio di canzoni di protesta contro gli speculatori e i politici compiacenti del segreto bancario svizzero: il totem al quale l’Elvezia deve la sua recente fortuna.

    Linard Bardill fu, sotto un certo aspetto, uno dei miei primi maestri. Mi spiegò un metodo. Mi permise di dare un’occhiata a un sistema culturale diverso e, per me, a tratti incomprensibile.

    Mi diceva: «Compare, se vuoi sopravvivere da queste parti, ti devi organizzare. Scrivere e cantare bene è una cosa, ma se nessuno lo saprà, servirà a poco.»

    Un giorno, tornando dal supermercato, depose il sacco della spesa sul tavolo. Ricordo ancora l’odore fragrante del pane. Mi guardò e mi disse: «Ecco il numero di telefono di Andy Corner, ha uno studio di registrazione niente male qui vicino. Quattro giorni di lavoro intenso, tre di registrazione e uno di missaggio, e il gioco è fatto. Vai a suonare in strada giorno e notte fino a quando non metti da parte il necessario. Se ti manca qualcosa, l’aggiungo io. Okay?»

    Aspettando che sia mattino nacque così, chiamando a raccolta una manciata di amici di quel tempo che prestarono le loro voci e i loro strumenti senza chiedere nulla in cambio. Si chiamavano Anne Gigy al violoncello e Christine Müller ai flauti. E poi ancora Linard, che cantò in un paio di canzoni, e quella stessa Rosie Wiederkehr che sarebbe diventata, qualche anno più tardi, la straordinaria voce solista del mio primo gruppo, gli Agricantus. Luzern, la cittadina della Svizzera centrale, che all’epoca aveva tre quotidiani indipendenti ma non l’università, quel luogo che dopo le diciassette vedeva spopolare le sue strade fino a rasentare il deserto all’ora di cena, mi aveva adottato raccogliendo la mia freschezza e la mia musica per le sue piazze ordinate, che sembravano venire da un altro pianeta. Era novembre del 1986.

    Ma chi ero io, a quel tempo? Perché mi trovavo lì? Ma soprattutto, qual era il contesto da cui provenivo?

    Avevo lasciato l’Italia un anno prima senza alcun progetto chiaro. L’agendina con qualche numero di telefono sparso per l’Europa e poco più. Solo molto tempo dopo capii che la decisione di allontanarmi definitivamente dal mio Paese l’avevo già presa in maniera inconsapevole.

    Amavo la mia città, Palermo, in modo quasi ossessivo e, direi, pericoloso. Avevo un livello di identificazione con essa che mi aveva indotto ad esaminarla sotto il profilo storico e politico, a studiarla dal punto di vista dell’archeologia e della toponomastica. Ne conoscevo il centro storico, semidistrutto durante la seconda guerra mondiale, con maniacale precisione, cogliendo nel suo stato di abbandono quel fascino irresistibile che tutte le cose ignote e misteriose possiedono: quasi nessuno dei miei coetanei di allora, infatti, aveva idea dell’incredibile storia della nostra città.

    Nell’Italia degli anni ottanta, tuttavia, Palermo faceva notizia solo ed esclusivamente per le stragi di mafia. Tutti i giorni, Cosa Nostra, che viveva una guerra interna fra le sue varie componenti (i corleonesi vincenti e i palermitani perdenti), si rendeva protagonista di una mattanza senza uguali nella sua storia centenaria. In poco meno di un decennio, vi furono tremila morti, tra cui giornalisti, amministratori locali e regionali, sindacalisti, funzionari di polizia, magistrati.

    La forza della criminalità organizzata, tale a quel tempo da spadroneggiare e sostituirsi alle istituzioni, si basava su due elementi portanti: quello economico, dato dal traffico delle droghe pesanti, e quello politico. Negli anni settanta e ottanta, infatti, la mafia contribuì in maniera rilevante a frenare l’ascesa delle forze delle sinistre, grazie al controllo dei voti nell’Italia meridionale. In virtù della sua capillare presenza nel territorio del Mezzogiorno, di fatto Cosa Nostra impedì al Partito Comunista Italiano di arrivare a percentuali che lo avrebbero portato dritto al governo nazionale e che il Bel Paese finisse, quindi, per rappresentare un pericoloso avamposto del socialismo internazionale in pieno Mediterraneo. Una macchia rossa nel cuore dell’Occidente europeo. In cambio, i partiti di governo italiani, la Democrazia Cristiana e i suoi alleati, furono costretti a chiudere gli occhi, le orecchie e tutto il resto, lasciando a Cosa Nostra la liceità di fare e strafare. Le coste siciliane divennero il porto franco, dove l’eroina di tutto il mondo arrivava senza che vi fosse alcun controllo. Le città occidentali dell’isola erano i luoghi dove la droga veniva raffinata, lavorata e poi smistata, per ripartire tranquillamente verso i mercati internazionali.

    Era tempo di guerra fredda: l’Europa veniva da un decennio incandescente in cui la rivoluzione giovanile dei costumi e della politica aveva trovato, nella deriva terroristica delle Brigate Rosse, in Italia, e delle Baader Meinhof, in Germania, uno sbocco antidemocratico e lacerante. Le dittature in Sud America, con le svolte autoritarie in Cile e in Argentina della metà degli anni settanta, costituirono un campanello d’allarme che non mancò di suscitare serie preoccupazioni nei paesi europei, dove la forza delle sinistre era significativa.

    In Italia, il cosiddetto compromesso storico di berlingueriana memoria, va quindi probabilmente inquadrato in questa prospettiva: i comunisti italiani sapevano che una loro maggioranza risicata, insieme a forze politiche affini, non sarebbe stata sufficiente per un governo stabile e accettato senza remore, che in un momento storico di tale incertezza, la pace e l’equilibrio sociale sarebbero stati a rischio. Il pericolo di un’Italia governata dai comunisti avrebbe significato, in sostanza, l’acuirsi di uno scontro politico e ideologico a livello internazionale, in un frangente in cui la corsa al riarmo nucleare da parte degli USA e dell’URSS vedeva una forte accelerazione.

    È così, quindi, che l’idea del segretario del PCI, Enrico Berlinguer, di proporre un patto con i partiti di centro per la formazione di una sorta di governissimo (il compromesso storico appunto) va intesa come lo sforzo di volontà di non mandare il Paese ad uno scontro nel quale, come si vide in America Latina, gli Stati Uniti non sarebbero stati a guardare.

    Poi, come la storia racconta, improvvisamente tutto cambiò. Il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse mise l’Italia in ginocchio. Sull’altare dell’emergenza nazionale vennero accantonati progetti e sperimentazioni politiche e l’idea del compromesso storico fu abbandonata per sempre. Un governissimo con i comunisti non piaceva alle correnti democristiane avverse ad Aldo Moro anche perché sempre di più, nel proscenio del teatro politico italiano, si profilava la figura di un personaggio che avrebbe cambiato gli equilibri negli anni a venire: Bettino Craxi.

    È probabile che sulla morte di Aldo Moro non sapremo mai tutta la verità e che, dietro questa vicenda, si nascondano scenari inquietanti. Avvenimenti che una buona parte dei protagonisti politici di allora si è portata, in silenzio, dentro la fossa.

    Sta di fatto che la presenza della criminalità organizzata, di forze occulte e di poteri deviati all’interno di segmenti delle istituzioni italiane era, a quel tempo, forte e chiara, assolutamente leggibile nelle decisioni governative e nei movimenti dei politici più in vista: Bettino Craxi, Giulio Andreotti, Arnaldo Forlani solo per fare qualche nome.

    Fino all’inizio degli anni novanta, questi personaggi rivestirono le più alte cariche dello Stato, ma con la caduta del muro di Berlino, videro disintegrarsi la loro influenza e il loro potere, al pari dei boss corleonesi di Cosa Nostra.

    Ma andiamo per gradi.

    La magistratura italiana, presenza scialba e all’ombra del potere politico fino alla fine degli anni sessanta, con la rivoluzione dei costumi del decennio successivo, produsse una generazione di nuovi interpreti della giurisprudenza, intenzionata a rivendicarne l’indipendenza. Sarà un caso, ma proprio a seguito della fine del comunismo sovietico, a partire dagli inizi degli anni novanta, grazie alle indagini di un gruppo di giudici fra Milano e Palermo, si pose la parola fine al potere di quell’oligarchia che aveva tenuto in pugno l’Italia a partire dalla fine della seconda guerra mondiale.

    Con le cosiddette indagini Mani pulite, a Milano, durante le quali emersero i vari sistemi di corruzione e di finanziamento illecito dei partiti, e quelle relative a Cosa Nostra, in Sicilia, si ruppero gli argini. Tutto ciò che gli Italiani ben sapevano, ma avevano accettato di sopportare per quieto vivere, emerse in maniera dirompente: i partiti tradizionali vennero travolti da uno scandalo dopo l’altro, i relativi politici di punta dovettero dimettersi e alcuni di loro furono processati per direttissima, Craxi non accettò il giudizio delle corti e si rifugiò in Tunisia, sottraendosi al carcere, Andreotti fu incriminato per mafia e la cassazione confermò il giudizio di colpevolezza fino al 1980 (pena non applicata perché il reato cadde in prescrizione).

    Era la fine di un’epoca, ma anche l’inizio di un declino politico e culturale senza precedenti. Per parafrasare lo scrittore siciliano Giuseppe Tomasi di Lampedusa, la fine dei gattopardi e l’arrivo delle iene.

    Tornando a me, vista da Palermo, dagli occhi di un giovanissimo studente liceale e poi di un universitario poco convinto, l’Italia era in preda ad un manipolo di governanti senza scrupoli che, per mantenere le proprie posizioni di potere e di privilegio, erano disposti a barattare la propria storia, la propria cultura e il futuro delle generazioni a venire con mercenari, mafiosi e faccendieri.

    Non era facile, in Sicilia, a quel tempo, organizzare un’opposizione che fosse tale. Avevamo capito il ruolo di Cosa Nostra e il patto scellerato con pezzi di istituzioni deviate, ma non c’erano prove. Nessuno parlava. Nessuno rischiava.

    Giuseppe Fava era un uomo affascinante. La barba e i capelli scompigliati, abbigliamento mai di moda e un bell’eloquio, con l’accento forte della Sicilia orientale, quello catanese o siracusano che si usavano nei film degli anni ottanta. Ciò che mi colpì di lui fu l’amore che nutriva per la nostra storia e il nostro popolo. Mi ritrovai nelle sue parole, nei suoi racconti, nelle sue inchieste sull’emigrazione, nei ritratti che disegnava con precisione, ma soprattutto nel forte romanticismo che emergeva da ogni aggettivo, da ogni metafora, da ogni descrizione della Sicilia. Lo incontrai personalmente solo tre volte, a Sant’Agata Li Battiati, quel sobborgo di Catania dove c’era la redazione del suo giornale, I Siciliani.

    Avevo scoperto quella pubblicazione quasi per caso. Un compagno di lotta sul fronte antimafia me l’aveva segnalata come un’iniziativa editoriale nuova e rivoluzionaria: si parlava addirittura di Cosa Nostra e di politica. Fino a quel momento, nel mondo della carta stampata, soltanto Mauro De Mauro, cronista del quotidiano palermitano L’Ora, e Mario Francese, suo collega del Giornale Di Sicilia, avevano trattato la materia con intraprendenza e perizia. Entrambi furono assassinati a distanza di qualche anno. De Mauro scomparve nel nulla, mentre Francese fu freddato da un killer.

    La redazione del mensile I Siciliani era formata da un manipolo di giovanotti di belle speranze e di buona educazione umanistica. Dalle loro penne si intuivano letture di ottimi scrittori e un idealismo lontano mille miglia dal bagaglio cinico e a volte visionario di Leonardo Sciascia, il grande letterato di Racalmuto, che non disdegnava di pennellare squarci di realtà e di suscitare polemiche dalle pagine del Corriere Della Sera. Si chiamavano: Riccardo Orioles, Miki Gambino, Claudio Fava (figlio di Giuseppe) e Antonio Roccuzzo. Scrivevano con grande impegno e un disprezzo tangibile e naturale per ogni tipo di lecchinaggio politico.

    «Come posso aiutarvi?» chiese Fava con un sorrisone che la sapeva lunga. Conosceva esattamente i motivi per i quali eravamo lì.

    Andai a trovarlo nell’estate del 1983 insieme ad un paio di colleghi universitari con cui avevo prodotto un giornalino in ciclostile dal titolo Dedalus. Ci occupavamo di arte e di letteratura, di politica e di antimafia. Volevamo fare esperienza, collaborare, magari dare una mano per la distribuzione del giornale. Fava accettò e, poco dopo, le nostre piccole indagini fecero parte di un inserto all’interno del mensile, una decina di pagine che chiamammo, appunto, I Siciliani Giovani.

    Appresi dell’assassinio di Giuseppe Fava quasi subito, da una telefonata del mio grande amico Francesco Vitale. Era il 5 gennaio del 1984. Ci dissero di non andare al funerale, perché i parenti avrebbero preferito una cerimonia sobria, ristretta all’intimità della famiglia. Rispettammo quella che apparve una richiesta legittima.

    Il giornale I Siciliani continuò le pubblicazioni, ma senza la forza narrativa di Fava e la sua capacità di convertire in energia positiva ogni accadimento anche contrario non fu facile andare avanti. Pochi mesi dopo, il giornale chiuse i battenti e le nobili penne che l’avevano scritto si separarono divergendo in altre esperienze e altri luoghi.

    Era il 1984. Durante l’estate avevo fatto la mia prima tournée all’estero, con la musica degli Agricantus. Alcuni concerti in Austria, a Salisburgo, Innsbruck e Vienna, e poi addirittura, invitati dal Partito Comunista dell’ex Repubblica Democratica Tedesca, marcai presenza al festival della canzone politica di Berlino Est. Tornai motivatissimo e fortemente impressionato da quell’esperienza mitteleuropea: avevo conosciuto tanti giovani che si interessavano alla vita culturale in Italia e avevano le stesse passioni che animavano i miei sentimenti. Al contrario, in Sicilia, stentavo a trovare una compagnia adeguata alle mie aspettative e il clima diventava sempre più irrespirabile, man mano che il

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