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Vittoria amara
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Vittoria amara

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La Prima Guerra Mondiale vissuta attraverso gli occhi di una contadina, Martina, che nonostante la lontananza del marito Marco emigrato in America, riesce con il piccolo figlio Giacomo a resistere alla paura, la solitudine, la fame e alle aggressioni di un mondo devastato dal dolore.
Dal 24 maggio 1915 il piccolo paese contadino di Castello rimane come sospeso in un silenzio ovattato di paura e rabbia. Uno ad uno i figli partono per la guerra e terribile è il giungere del postino o l’avanzata dei Carabinieri. Tutti portatori di cattive notizie.
C’è chi va in guerra eroicamente, chi cerca di fuggire, chi ne torna mutilato nel corpo e nello spirito.
In mezzo la fame in una terra che ha bisogno di braccia forti e non di vecchi e bambini abbandonati e le lettere del marito non possono dare sollievo al tormento di Martina.
Lei che si carica sulle spalle tutto il peso della famiglia e della piccola comunità, vivendo minacciata ogni istante da Rinaldo, il possidente che forte della sua ricchezza la ricatta.
La storia attraversa anche le trincee della Grande Guerra raccontando l’intimo dolore dei fanti e l’umana miseria degli esseri umani. Le mitragliatrici scandiscono il tempo tra un battere e un levare di morte e distruzione. Si consumano così le vite di coloro che partiti per la Patria si perdono sul Carso.
LanguageItaliano
Release dateDec 21, 2018
ISBN9788899735746
Vittoria amara

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    Vittoria amara - Roberto Andreuccetti

    9788899735746

    CAPITOLO I. SOLITUDINE

    Squarci di azzurro facevano capolino in mezzo a batuffoli di nuvole candide, mentre le rondini avevano ripreso numerose a solcare il cielo con pirotecnici voli accompagnati da un veloce cinguettare.

    Il vento teso di libeccio stava riportando il sereno ed asciugava le pozzanghere dell’aia che erano sparse qua e là, dopo due giorni di pioggia intensa.

    Martina, con la canestra dei panni stava percorrendo lentamente ma con passo sicuro il sentiero impervio e costellato di pietre aguzze che dalle case di Castello scendeva verso la polla ed il lavatoio. Doveva risciacquare tovaglie, asciugamani, federe e lenzuola, ma soprattutto i panni degli uomini che erano stati lavati nella conca, ma che da quando aveva iniziato a piovere erano ammassati in un mastello nell’angolo della cucina.

    Martina era una donna ancora giovane, nonostante avesse già un figlio di cinque anni; aveva corporatura sottile ma armoniosa, un seno piccolo e sodo ed una cascata di capelli neri che teneva raccolti dietro la nuca. Gli zigomi erano pronunciati, gli occhi bruni e luminosi in un volto sempre aperto al sorriso ma con i lineamenti marcati che evidenziavano il carattere forte di una ragazza abituata a doversi reinventare di continuo la propria giornata.

    L’aria di quel pomeriggio di maggio era frizzante mentre alle narici arrivava intenso il profumo del glicine e del gelsomino.

    La campagna aveva indossato una variopinta veste; era il verde dell’erba e delle foglie nuove degli alberi il colore dominante, al quale si accompagnava il rosso dei papaveri sparsi nelle piane e l’azzurro dei ranuncoli e dei non ti scordar di me che occhieggiavano dai poggi. Ciuffi di ginestre elevavano la loro chioma in mezzo alle rocce sparse numerose nel vicino bosco di querce e di lecci.

    Martina, se pur immersa nei profumi e nei colori del mese di maggio, sembrava non godere di quelle meraviglie della natura.

    Aveva fretta, perché sapeva che durante la mattinata sarebbero stati molti i compiti che l’avrebbero attesa. I polli ed i conigli erano già stati governati ma dopo il lavaggio dei panni era necessario metterli ad asciugare e bisognava tornare poi a prendere l’acqua per bere con la secchia. Con l’aiuto della suocera Sofia, c’era poi da preparare da mangiare ai cognati di ritorno dal lavoro nell’oliveto, al suocero Paride vecchio ed infermo ed al figlio Giacomo.

    La mente della donna era catturata da un pensiero dominante.

    Il marito Marco, il più piccolo dei fratelli Bertini, che aveva sposato in giovane età e che da quasi cinque anni era partito per l’America, da molto tempo non dava notizie. Nell’ultima lettera aveva scritto che era in attesa di trasferirsi da New York a Memphis perché in quella nuova città le prospettive di lavoro sarebbero aumentate. Nel quartiere di Bronx aveva infatti sofferto disagi e violenze. Aveva dovuto subire numerose rapine, sia nel bar dove svolgeva il compito di garzone e dove era stato ferito anche ad una mano, sia nella povera dimora composta di un’unica stanza ubicata in un fatiscente palazzo.

    Durante i cinque anni di permanenza in America, Marco non era riuscito ad inviare a casa alcuna somma di denaro. Diceva che quel poco che riceveva come compenso dal padrone dell’esercizio pubblico nel quale lavorava, gli bastava appena per pagare l’affitto della stanza che occupava. Aveva cercato di far capire a Martina che la vita era divenuta impossibile nella grande città di New York e che trasferendosi a Memphis le cose sarebbero forse andate meglio.

    Martina provava una struggente nostalgia per il marito lontano.

    Erano già trascorsi quasi cinque anni da quando, allora ventenne, lo aveva salutato con le lacrime agli occhi e con il piccolo Giacomo fra le braccia, mentre si apprestava a lasciare Castello. Negli occhi del marito aveva letto la tenacia e la speranza nonostante l’incognita di un futuro incerto.

    I due giovani andavano sperando che il sacrificio sopportato, avesse portato frutti in grado di migliorare le misere condizioni della loro famiglia.

    A Martina, dopo la partenza del marito sembrava però che le cose non fossero cambiate, perché se prima c’era miseria, questa era purtroppo ancora presente. A ben considerare forse la situazione familiare era addirittura peggiorata.

    La donna si era ritrovata sola con tre cognati da accudire, con i suoceri anziani e con un bimbo piccolo da far crescere; senza il supporto fisico e morale del marito, ma soprattutto senza quelle rimesse di denaro nelle quali tutti speravano.

    Dei sei fratelli di Marco tre erano emigrati in America del sud per cercare di fare fortuna; due in Brasile e l’altro in Argentina. Avevano scritto soltanto una volta e poi non avevano dato più notizie, quasi si fossero dimenticati che a casa avevano ancora due genitori, una cognata e tre fratelli. Se n’erano andati uno alla volta seguendo l’esempio di Marco che era il più giovane e che si era dimostrato anche il più intraprendente. Gli anni passati senza ricevere notizie dai tre figli avevano fatto pensare ai genitori Paride e Sofia che quei ragazzi avessero fatto una brutta fine.

    Nei primi anni del secolo ventesimo c’era stata una grande corsa all’emigrazione, per necessità economiche delle famiglie, ma anche per un desiderio di andare a provare nuove esperienze da parte di giovani che erano continuamente sottoposti a lavori faticosi come quello di boscaiolo e di contadino.

    Che vita è questa? – andava chiedendosi Martina.

    Tutti i giorni un lavoro logorante, con pochi centesimi ricavati dalla vendita del carbone che non sono sufficienti per comprare il sale, lo zucchero e la minestra. Dovendo mangiare quasi giornalmente necci e polenta di granturco. Poco cibo e molto lavoro, senza nessuno in grado di regalarmi una parola di conforto. A cosa è servito il nostro sacrificio? – si domandava Martina con insistenza, quasi Marco, che era assente oramai da un lustro, fosse vicino e potesse ascoltarla.

    Con il pesante carico di quei pensieri la giovane aveva raggiunto il lavatoio, ma lo trovò occupato da altre donne che avevano avuto la stessa sua idea, considerato che la giornata era luminosa dopo giorni di pioggia. Dopo aver poggiato sopra una grossa pietra liscia e sporgente il cesto, Martina dovette aspettare il proprio turno di lavaggio.

    La polla che alimentava quel lavatoio era l’unica sorgente esistente nei pressi del borgo di Castello, una località arroccata sulle pendici del colle che guarda da nord il paese di Valdottavo e non vedeva diminuire mai la sua portata, nemmeno durante i lunghi periodi di siccità.

    Quella fonte serviva le numerose famiglie della frazione che dovevano attingere acqua e risciacquare i panni nel lavatoio.

    Altre piccole polle erano sparse nella campagna, ma servivano soltanto per dissetare i contadini che si riversavano nelle vigne e negli oliveti e per creare piccoli bacini d’acqua dove portare a bere i numerosi animali da lavoro.

    I compiti di recarsi con i panni al lavatoio e di andare ad attingere acqua con la secchia di rame, erano una esclusiva delle donne che avviavano a quella pratica anche sorelle e figlie in tenera età.

    Era frequente vedere bambine con il cesto dei panni tenuto sotto braccio, perché non ancora in grado di portarlo in equilibrio sulla testa.

    Per fare acquisire dimestichezza con quella pratica, le madri poggiavano un cesto senza carico sul capo delle figlie facendole camminare sull’aia alla ricerca dell’equilibrio necessario per un compito che avrebbero poi dovuto svolgere fino alla vecchiaia.

    Anche gli uomini si recavano spesso al lavatoio, ma lo facevano per fare il bagno, soprattutto alla sera al termine delle faticose opre nei poderi e nelle selve.

    Se in inverno era scomodo il bagno fatto in grossi mastelli riempiti con acqua riscaldata sul fuoco del camino, che andavano poi ripuliti per permettere agli altri componenti della famiglia di potersi lavare, in estate, ma già con l’arrivo delle belle giornate di maggio, sotto l’ultimo raggio di sole della giornata, i giovani e gli uomini di Castello si recavano al lavatoio del Fondinello.

    Portavano un asciugamano a tracolla e tenevano in mano una maglia di lana pulita ed un paio di pantaloni di ricambio. Arrivati presso quel provvidenziale serbatoio d’acqua, posavano gli zoccoli od i saboni si toglievano gli abiti rifrusti e da strapazzo e si immergevano. Dopo una bella risciacquata uscivano e prima di infilarsi di nuovo le calzature raschiavano il tallone ed i calli nella pianta del piede sulla pietra ruvida del bordo esterno del lavatoio.

    Quando il sole smorzava i suoi raggi ed arrivava l’ora nella quale gli uomini si recavano a lavarsi, le madri vietavano alle ragazze di andare ad attingere acqua presso la polla, per evitare loro la vista del corpo seminudo dei maschi.

    Dopo aver tolto il sudore accumulato sulla pelle dopo una giornata di lavoro ed essersi asciugati, gli uomini indossavano pantaloni e maglia di lana pulita che avrebbero tenuto poi per tutta la sera. Gli indumenti da strapazzo, sporchi di polvere e di sudore venivano lavati, risciacquati e stesi sotto i raggi dell’ultimo sole ed al mattino erano asciutti.

    La maglia di lana era l’indumento che indossavano solitamente tutti coloro che si recavano a lavorare in campagna perché proteggeva dal freddo, ma anche dai caldi raggi del sole, e soprattutto era in grado di assorbire il sudore. Con la maglia di lana si lavorava, si consumavano i pasti e si stava all’aria aperta nelle sere d’estate.

    La camicia veniva indossata quasi sempre nei giorni di festa o quando era richiesta da particolari cerimonie come un battesimo, un funerale od un matrimonio.

    Dopo aver risciacquato i numerosi panni, con la cesta sulla testa, Martina aveva ripreso a salire lentamente il sentiero che l’avrebbe riportata nella propria abitazione, una vecchia casa in pietra rinchiusa in mezzo ad altre, quasi quelle vecchie costruzioni volessero rimanere unite per proteggersi dalle forze della natura, dalla furia del temporale con lo scrosciare della pioggia, dalla potenza del fulmine e dal sibilare del vento.

    Terminato il sentiero erto che dal lavatoio riportava a Castello, Martina si ritrovò sul tratto di strada piana formato da terra dura e da rade pietre rese lisce dal secolare calpestio, sopra il quale razzolavano numerose galline alla ricerca continua di qualcosa da beccare e chiocce che chiamavano insistentemente i loro piccoli.

    Quella strada, situata nella parte più bassa del borgo, era chiamata la via di Fondo.

    Un’altra via, molto stretta, saliva in alto attraversando centralmente l’intero abitato ed era formata da numerosi scalini in pietra; su di essa si affacciavano gli ingressi delle abitazioni più nascoste, dove il sole arrivava soltanto in alcuni periodi dell’anno e che avevano al loro piede ciuffi d’erba e sulle fessure dei muri, cumoli di muschio.

    Lungo quel vicolo si udiva giornalmente il rumore del calpestio dei saboni degli uomini che si recavano o che rientravano dal lavoro nei boschi, il suono argentino della voce dei bambini che giocavano seduti sopra le pietre degli scalini ed i commenti delle donne che intente nelle loro occupazioni quotidiane si incrociavano e si scambiavano qualche parola.

    Ogni tanto scendeva un mulo od un asino carico di legna ed in quel frangente bisognava farsi da parte per non essere investiti.

    A quel vicolo nascosto, umido e buio, ma che costituiva il cuore del piccolo centro di Castello, era stato dato il nome di via della Ruga.

    Martina, che stava camminando sulla via di Fondo, dovette farsi strada in mezzo ai numerosi pennuti, fino a raggiungere una lunga scalinata che portava ad un portico; in un angolo del portico la ragazza avrebbe ritrovato la vecchia porta in legno di castagno scrostata e corrosa dal tempo, punto di accesso alla propria dimora.

    La donna, prima di salire le scale aveva poggiato la canestra sopra il primo scalino per riprendere fiato, perché quel contenitore con i panni bagnati era molto più pesante rispetto all’andata.

    Mentre la ragazza si accingeva a riprenderlo, fu preceduta dalla mossa veloce e repentina di due braccia robuste.

    Lascia Martina! Porto io i tuoi panni sul portico.

    No! Non importa! Faccio da sola, grazie!

    La donna sapeva che nonostante le sue parole Ettore non avrebbe lasciato il cesto di panni. Quel giovane non perdeva occasione per avvicinarsi a lei, cercando di aiutarla durante piccoli lavori nell’orto e nell’aia, al solo scopo di poterle stare vicino. Viveva da solo in due stanze ricavate da un fienile dislocato ad un centinaio di metri di distanza dal centro dell’abitato. Sbarcava il lunario svolgendo piccoli lavori presso i poderi del Fondinello e della Valle, chiamato dai proprietari che si trovavano in difficoltà e che lo pagavano in natura donandogli generi di prima necessità come latte, farina di castagne, legumi ed anche alcuni derivati dell’orto.

    Ettore era solo perché suo padre era morto in un incidente sul lavoro mentre la madre era deceduta da pochi mesi a seguito di una grave malattia polmonare. Aveva tre fratelli, tutti emigrati in Brasile poco prima dello scoppio della guerra e dai quali non riceveva notizie.

    Era un ragazzo semplice e buono che non rispondeva mai di no ad ogni richiesta di aiuto, ma era anche molto timido e di poche parole.

    Quella di Ettore nei confronti di Martina era una corte discreta ma continua, pur sapendo che la ragazza non avrebbe mai tradito il suo uomo; Martina si era ormai rassegnata ad avere d’intorno quel giovane silenzioso che le faceva tenerezza perché passava le giornate lavorando sodo e senza un amico con il quale dialogare.

    La vicinanza di Ettore faceva parte di un quotidiano vivere ed a volte era rassicurante perché quel ragazzo avrebbe fatto di tutto per aiutare Martina qualora l’avesse vista in difficoltà.

    Dopo aver portato la canestra ripiena di panni sul portico, Ettore salutò l’amica, non prima di averle sfiorato un braccio con le dita di una mano.

    Martina prima di entrare in casa dovette stendere sul filo che attraversava il portico l’intero contenuto del cesto.

    La ragazza aveva appena terminato quel compito quando una voce cristallina echeggiò alle sue spalle.

    Mamma! Mamma! Vieni a vedere, ci sono le formiche!

    Giacomo, il figlioletto di cinque anni era appena uscito di casa e nel vedere la madre appena ritornata dal lavatoio, stava facendole festa e la sollecitava ad andare a guardare una lunga fila di formiche che scendendo da una colonna del portico attraversava un lato dello stesso fino a perdersi lungo il muro che calava verso terra.

    Quel piccolo frugoletto dagli occhi grandi e vispi e dai capelli neri, era tutto per Martina. Era il legame forte che legava ancora la ragazza a suo marito Marco, un marito che le mancava tanto e del quale non poteva immaginare il ritorno.

    Guarda! Guarda quante formiche! Perché fanno la processione?

    Perché è primavera! – rispondeva la madre. Quei piccoli insetti con i primi caldi escono dai loro rifugi nelle cortecce degli alberi e vanno a costruire un nido nella terra.

    Ma perché attraversano il portico?

    Perché devono seguire il loro istinto che li spinge a cercare la via più comoda. Gli insetti hanno le loro abitudini e non sono sciocchi. Seguono la loro strada, come fanno anche gli uomini. A volte la strada è irta di ostacoli e bisogna cercarne una più comoda per riuscire a tirare avanti.

    Nelle parole di Martina, il riferimento all’emigrazione di Marco era palese. Il marito era dovuto partire lasciando un figlio appena nato ed una moglie con la quale viveva da appena un anno per andare in cerca di fortuna. Una fortuna che per il momento non si era ancora vista. L’unico vantaggio che aveva portato la partenza di Marco era stato solo quello di togliere dalla famiglia una bocca da sfamare. La fame era infatti la nemica numero uno di quel nucleo di persone che viveva in una modesta abitazione del vecchio borgo di Castello: due anziani non più in grado di lavorare, tre uomini quotidianamente impegnati nei pesanti lavori della campagna, una donna ancora giovane ed un bambino.

    Isaia, Achille e Nicodemo, gli altri tre fratelli di Marco, che non erano emigrati e che abitavano assieme ai genitori ed alla cognata Martina, uscivano di casa al mattino e rientravano quasi sempre al tramonto; vangavano per preparare la terra alla semina, potavano gli olivi e ripulivano il sottobosco della selva del Campo del Cuculo.

    Quei pochi appezzamenti di terreno assieme all’orto, permettevano di sopravvivere ai sette membri della famiglia. Nella selva si raccoglievano le castagne dalle quali si ricavava la farina per fare il neccio, il cibo di tutti i giorni e dall’oliveto veniva l’olio che andava in gran parte venduto per avere in casa una misera somma di denaro necessaria per acquistare generi alimentari indispensabili come il sale, lo zucchero e la farina di grano e di granturco per fare il pane e la polenta,

    La giornata era terminata e nel silenzio della sua camera, rotto soltanto dal fischio remoto di un barbagianni, Martina non riusciva a prendere sonno. Forse era la stanchezza che trasudava dalle sue membra, dalle gambe, dalle braccia e dalla schiena, a causarle insonnia; una stanchezza che era la sua quotidiana compagna, come un cane randagio che ti ronza ogni giorno d’intorno e che non riesci a farlo correre via.

    La giornata di Martina iniziava all’alba quando ancora Giacomo dormiva; si recava prima a dare mangiare ai polli ed ai conigli, animali determinanti per poter garantire ai membri della famiglia un po’ di carne, specialmente nelle ricorrenze importanti dell’anno.

    Aiutava poi il suocero semi paralizzato dall’artrosi alla schiena, retaggio di una vita intera dedicata al lavoro nel bosco, ad alzarsi ed a posizionarsi sopra una poltrona di giunco sfilacciata e con i gambi rosi dai tarli.

    La suocera Sofia era invece ancora in grado di muoversi ma aveva un tremolio costante nelle mani che le impediva di svolgere esercizi semplici come cucire, rammendare e filare con la rocca. Riusciva ancora, quasi un vero miracolo, a svolgere lavori più pesanti dando una mano a Martina, come trasportare carichi di panni, legna da mettere sul fuoco secchie piene d’acqua.

    Martina faceva alzare poi il figlio Giacomo e si intratteneva un poco con lui.

    Cercava di conversare e rispondeva alle numerose domande del bambino; gli parlava anche del padre che il piccolo non aveva mai conosciuto, essendo appena nato quando aveva lasciato Castello. Gli ripeteva di continuo che sarebbe tornato e che non l’avrebbe lasciato più.

    Perché non viene qui con noi il papà? – chiedeva il piccolo.

    Perché è andato a lavorare in un paese lontano per guadagnare un po’ di soldi, necessari per farti crescere e studiare!

    Un paese lontano come Valdottavo?

    No! Molto più lontano! Per andare in quel paese bisogna attraversare il mare!

    Com’è il mare mamma?

    Il mare è una grande distesa d’acqua – rispondeva Martina anche se non l’aveva mai visto.

    È grande come il lavatoio?

    Eh! Molto più grande! Dicono che per attraversarlo ci vogliono tanti giorni.

    Terminata la chiacchierata mattutina con il figlio e dopo avergli somministrato una misera colazione con un po’ di latte ed un pezzo di polenta rinsecchito, Martina lasciava Giacomo in custodia alla suocera che lo doveva guardare mentre giocava sul portico stando attenta che non cadesse lungo le scale ripide, e si recava a falciare l’erba nell’oliveto.

    Non era solo la stanchezza fisica a tenere sveglia Martina, ma anche una struggente malinconia; una malinconia che la ghermiva soprattutto la notte, quando si ritrovava sola ed i suoi pensieri potevano vagare liberi come rondini.

    Martina ripensava a Marco, al suo uomo che sembrava rapito dalla nebbia del tempo; a quell’uomo che le aveva detto addio cinque anni prima, un periodo lungo un’eternità. Ripensava a quel giovane esuberante, dall’aria sbarazzina che non aveva più rivisto il figlio, che stava lavorando per racimolare un po’ di denaro da riportare in Italia e con il quale somministrare un po’ d’ossigeno alla famiglia che stava morendo di fame.

    Martina si rigirava fra le lenzuola, abbracciava il cuscino ed allungava le braccia in un letto che le sembrava troppo grande.

    Era l’anno 1914, un anno come tanti nel piccolo borgo di Castello, ma ricco invece di fermenti nel panorama europeo ed anche italiano.

    Il 21 di marzo di quell’anno, il professore universitario Antonio Salandra, esponente del partito liberale, era succeduto a Giovanni Giolitti nella carica di Presidente del Consiglio dei Ministri, nel governo italiano.

    Era necessario reagire alla crescente forza della sinistra rivoluzionaria guidata dal giovane Benito Mussolini, direttore del giornale L’Avanti, che aveva guidato i contadini della bassa Emiliana, nella famosa rivolta contro il governo denominata settimana rossa.

    Era stato un periodo di scontri dovuti alle proteste antimilitariste di una parte del popolo e che avevano portato all’uccisione di tre manifestanti.

    Salandra aveva il compito di placare gli animi e di provvedere al mantenimento dell’ordine. Il nuovo Presidente del Consiglio riuscì talmente bene nel proprio compito al punto di raggiungere il risultato di veder sconfitti i socialisti nelle elezioni amministrative del giugno - luglio.

    Mentre l’Italia si dibatteva nei suoi problemi interni, arrivò la notizia che a Sarajevo un giovane di diciannove anni, un certo Gavrilo Princip aveva attentato alla vita dell’erede alla corona austriaca, l’arciduca Francesco Ferdinando. Lo sventurato Francesco, che morì dopo essere stato colpito da due colpi di pistola, si era dimostrato contrario alla guerra e la sua prematura scomparsa incoraggiò i falchi di Vienna a risolvere una volta per tutte il problema della spina nel fianco della Serbia, alla quale fu deciso in seguito di dare una lezione. Il 23 di luglio, a sorpresa l’Austria Ungheria aveva inviato un drastico ultimatum alla Serbia, con condizioni per quest’ultima impossibili da accettare e che avrebbero voluto significare la sua completa capitolazione.

    La notizia di quell’ultimatum colse il governo Salandra di sorpresa.

    L’Italia, l’Austria e l’Ungheria erano vincolate da un trattato di Triplice Alleanza, che prevedeva anche un obbligo di reciproca informazione in caso di decisioni improvvise.

    Con quella mossa stava per avere inizio la Prima Guerra Mondiale perché i governi dell’Austria e Ungheria inviarono un grosso contingente di truppe in Serbia.

    Nel frattempo anche la Russia, che l’Austria riteneva neutrale, aveva mobilitato le sue truppe e si accingeva ad intervenire in favore della Serbia.

    Come a seguito dell’accendersi di una miccia, le ostilità cominciarono ad estendersi ed il primo di agosto la Germania dichiarò guerra alla Russia ed alla Francia; ci fu poi da parte tedesca l’invasione del Belgio neutrale che costrinse all’entrata in guerra anche della Gran Bretagna.

    L’Europa si stava incendiando.

    L’Italia non era interessata ad un intervento, per il patto secondo il quale sarebbe dovuta intervenire solo a seguito di una guerra prettamente difensiva.

    Per l’Italia si andavano prospettando quattro ipotesi:

    nella prima si poteva prevedere, in rispetto del trattato della triplice Alleanza, un ingresso nel conflitto al fianco di Austria e Germania;

    nella seconda il mantenimento della più completa neutralità;

    nella terza una neutralità negoziata per mezzo della quale cercare di ottenete i territori ai quali l’Italia era interessata da tempo e che erano il Sud Tirolo, Trento, Trieste, l’Istria e parte dell’Albania e della Dalmazia;

    infine come quarta ipotesi, lo stravolgimento completo delle alleanze e l’entrata in guerra a fianco della Triplice Intesa, vale a dire, della Gran Bretagna, della Francia e della Russia.

    Per l’Italia comunque mantenere la neutralità a lungo sembrava molto improbabile ed anche per lei un intervento pareva essere imminente.

    I vertici dell’esercito ripetevano però che l’Italia non era in grado di entrare nel conflitto, almeno in tempi brevi, indipendentemente da quale decisione il governo avesse preso. Non era il caso di farsi condizionare dal parziale successo nella Terza Guerra d’Indipendenza.

    Dal 1910 i governi dell’Austria Ungheria avevano dato inizio ad un imponente programma di riarmo ed in quel momento la condizione di inferiorità italiana era evidente.

    Il generale Luigi Cadorna, nuovo Capo di Stato Maggiore della Difesa, denunciò infatti la deficienza di un adeguato equipaggiamento, soprattutto nel caso ci fossero stati scontri in montagna e la scarsità di armi per il nostro esercito. Mancavano cappotti, mantelle e scarponi, mezzi di trasporto, mitragliatrici, bombe a mano, pezzi di artiglieria campale e perfino cesoie per abbattere ed aprire varchi nei reticolati.

    Il primo ministro Salandra ed il generale Cadorna, nei mesi di fine anno iniziarono a provvedere agli approvvigionamenti necessari per dotare di un minimo di efficienza l’esercito italiano. Si preoccuparono inoltre di reclutare e preparare oltre duemila fra ufficiali e sottufficiali, in grado di comandare i vari reparti.

    Nel novembre ci fu un rimpasto di governo. Sidney Sonnino divenne ministro degli esteri e Paolo Carcano ministro del tesoro. Il primo ministro Salandra venne a trovarsi a capo di un governo più disposto ad effettuare preparativi per una guerra ed il tre di dicembre fece questa dichiarazione alla camera:

    L’Italia deve organizzarsi e munirsi quanto più le sia consentito con massimo vigore possibile per non rimanere essa stessa prima o poi sopraffatta.

    Venne però deciso che un eventuale intervento doveva essere rimandato perché l’esercito non era ancora attrezzato per operare sulle Alpi.

    In quei mesi, nei circoli culturali, nelle riunioni dei partiti e fra la gente di un certo rango, si era cominciato a parlare di guerra.

    Nella piccola frazione di Castello la gente continuava a portare avanti la vita di sempre, condita di fatica, di sudore e di lunghe giornate spese negli oliveti e nelle vigne; le animate discussioni degli uomini di spicco della politica e le decisioni dei governi erano lontane.

    Qualche voce che parlava su ipotesi di guerra era però arrivata anche nel paese di Valdottavo dove alcune persone che erano solite leggere il giornale riportavano notizie di preparativi per un prossimo conflitto.

    Una di queste era Rinaldo un commerciante di bestiame che ogni tanto arrivava a Castello per vendere ed acquistare conigli, polli, pecore e maiali.

    La sua voce graffiante si udiva da lontano e l’eco delle sue risate e delle sue parole grasse arrivava alle orecchie della gente. Era un uomo di circa quarant’anni con naso aquilino, zigomi pronunciati e sopracciglia folte; vestiva in maniera elegante con pantaloni sempre stirati, camicia bianca e panciotto con orologio nel taschino. L’unica parte del corpo che aveva sempre sporca ed unta erano le mani, perché a contatto continuo con generi alimentari come formaggio ed insaccati, ma anche con gli animali.

    Rinaldo raggiungeva Castello con un asino ed un mulo sul dorso dei quali trasportava grandi ceste e gabbie contenenti polli, pulcini, conigli e oche.

    Se qualche famiglia voleva invece acquistare un animale più grande come un asino od un vitello la cosa diveniva più difficile perché era necessario trascinare quegli animali lungo le dure rampe della mulattiera che da Valdottavo saliva al vecchio borgo.

    Rinaldo era un’autentica sanguisuga, non concedeva mai sconti né prezzi di favore, ma si faceva pagare fino all’ultimo centesimo da quei poveracci che si trovavano con l’acqua alla gola perché dovevano vendere polli o conigli od acquistare pecore e maiali.

    Quel commerciante era un grande collezionista di donne, verso le quali nutriva una passione sfrenata; durante le sue numerose trasferte era solito avere appuntamenti con ragazze compiacenti.

    Rinaldo non si accontentava delle donne che incontrava durante le sue trasferte, ma ogni volta che con il calesse si recava al mercato di Lucca per trattare affari, non perdeva occasione per fare una visita al bordello.

    Molte ragazze cercavano di tenerlo lontano conoscendo i suoi apprezzamenti pesanti e le sue mani lunghe.

    Alle donne interessa una cosa sola! – andava ripetendo sghignazzando quasi maniacalmente Rinaldo. Se darai loro quello che cercano, le renderai felici e ti ringrazieranno!

    Molti giovani lo invidiavano e parlavano male di lui soltanto per consolarsi.

    È un grande puttaniere! - ripetevano.

    Rinaldo era un uomo perfettamente a conoscenza degli avvenimenti che accadevano in Italia e nel mondo perché soleva leggere il giornale che acquistava ogni giorno presso la bottega dove veniva portato dalla diligenza proveniente da Lucca.

    Quel commerciante abitava in una villa elegante nei pressi del centro di Valdottavo con terrazza e giardino, affiancata da due grandi rimesse, una per gli animali ed una per attrezzi agricoli di ogni genere, zappe, vanghe, falciatrici ed aratri. Possedeva inoltre diversi ettari di terreno accudito e lavorato da due contadini.

    Da qualche tempo Rinaldo andava ripetendo alla gente di Castello: Preparatevi perché presto ci sarà la guerra. Acquistate ora gli animali perché dopo chissà se ce ne sarà ancora la possibilità!

    Come fai a dire queste cose! - gli chiedevano in molti.

    Ma voi non sapete nemmeno se siete al mondo! – rispondeva con tono superbo. Ma lo leggete il giornale? Dobbiamo fare nostre Trento e Trieste, la Dalmazia e l’Albania. Dobbiamo aprire nuovi mercati e dobbiamo fare dell’Italia una vera potenza economica. Sì! Per garantire un futuro alla nostra patria ci vuole la guerra!"

    Rinaldo aveva abbracciato il movimento interventista fondato dal giovane Benito Mussolini, che stava facendo numerosi proseliti e con il quale si intendeva combattere lo stato liberale e clericale esistente in Italia trasformandolo invece in uno stato radicale e anticlericale.

    Le notizie su di una prossima guerra alla quale avrebbe dovuto prendere parte anche l’Italia, portate da Rinaldo o da altre persone influenti, stavano cominciando a circolare suscitando timori e trepidazione soprattutto nelle madri che avevano figli in età per un possibile richiamo.

    Anche Martina era preoccupata e si andava chiedendo perché ci fossero le premesse per lo scatenarsi di una nuova guerra.

    Durante le tre classi della scuola elementare che aveva frequentato, aveva appreso dei grandi eroi del risorgimento,

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