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Cavalli pazzi
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Cavalli pazzi

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About this ebook

Cinque amici, cinque anime sognanti ed in tumulto in cerca del proprio spazio nel mondo. Cinque cavalli pazzi fuori dagli schemi e con la propria personale idea sulla vita. Tra di loro c'è Jack, aspirante scrittore vittima di un improvviso blocco creativo.

Cinque amici che decidono così di fottersene di tutto, insieme, e di seguire solo istinto e passione, così che il tutto diventi possibile. Dalla nascita di amori folli, a violente risse da strada. Dalla possibilità di un improbabile successo, al tracollo finale.

E' Icaro con ali di cera che oltrepassa il labirinto. Sarà solo il destino e i raggi del sole più intenso a decidere se si è prescelti a grandi traguardi oppure solo a ricadere violentemente al suolo.

Alla fine ciò che conta davvero è solamente trovare il giusto appiglio tra le tenebre. E una ragione di vita al supplizio.

Siamo tutti accomunati dal peccato. Tutti in cerca di riscatto, e di continuare a peccare ancora. Fino al cadere dell'ultima foglia.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateDec 17, 2018
ISBN9788827861998
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    Cavalli pazzi - Carlo Benetta

    folli.

    AUTUNNO

    I - FOGLI BIANCHI

    Sarò onesto con voi. Non so come iniziare la mia storia. Non riesco a trovare le giuste parole per riempire queste prime sterminate pagine bianche. Le pagine bianche mi hanno sempre fatto paura. La paura di comprendere di non essere in grado di riempirle come si deve dell’inchiostro migliore, dell’inchiostro che porterà alla vita di qualcosa, a discapito di qualcos’altro. Dopotutto chi scrive ha un costante dilemma dentro di sé. È la vita e la morte, la scelta e la rinuncia. Qualcosa che verrà creato e qualcosa che, per volontà o meno, resterà sempre e irrimediabilmente solo dentro noi stessi.

    La mia paura è proprio quella di non fare la scelta giusta. Di riportare su tela il colore sbagliato. A volte uno scrittore si ferma a pensare se il percorso intrapreso sia quello corretto e così vale anche nella vita, dopotutto.

    Io la mia vita la stavo vivendo nel modo che volevo e almeno fuori dalla mia stanza riuscivo a fare solo ed esclusivamente quello che più desideravo. Era più facile per me e, comunque, me l’ero imposto fin dall’inizio. Questione di contrappeso.

    Il problema nasceva quando mi mettevo alla macchina da scrivere. Lì i dolori si facevano acuti. Ed iniziavo a sentirmi debole e fragile, un perdente col sangue da naso e l’odore di stantio nel cuore. Non lo dissi a nessuno. Ero uno scrittore di 25 anni con alle spalle un paio di racconti e delle poesie che in pochi avevano letto e non avevo già più alcuna idea per la testa. O meglio. Non riuscivo più a sentirmi in grado di comporre le giuste note in uno spartito che iniziava ad apparirmi così fottutamente complicato, confuso, e lontano dai miei abituali schemi musicali. E questo mi logorava. Mi consumava dentro.

    Nella vita andavo avanti ma nella scrittura restavo fermo e così, in realtà, non stavo facendo altro che arretrare. Vedendomi ogni cosa passare davanti. Per poi scomparire. Ed io indietreggiavo sempre di più. Rassegnato ad una realtà che sembrava volermi portar via l’unica cosa buona che avevo intenzione di perseguire.

    A volte il destino ti gioca brutti scherzi. È la vita. Si può accettare remissivi la condanna che c’è in serbo per noi oppure si può continuare a lottare, come il peggiore dei diavoli del paradiso, per riprendere la propria voce senza cadere nel più profondo e desolato, freddo, buio di disperazione e sconfitta.

    Ero un romantico io, dopotutto, ci credevo davvero. Il riscatto. La rinascita. Ero un tetro decadentista sognatore che cercava con una fiamma nascosta ma luminosa nel cuore una risposta felice al supplizio, all’agonia e al dolore che mi infliggevo da solo costantemente come grido d’aiuto alla mia stessa anima inquieta. Ero un sognatore di notti bianche, il dualismo tra la luna e il sole. Amavo l’estetismo e la concretezza delle vesti umane quanto amavo il simbolismo di una suggestione eterea ed astratta magistralmente avviluppata alle proprie sensazioni più radicate. Mi soffermavo sulla descrizione di impressioni vaghe e indefinite, provando a penetrare la più intima essenza delle cose, sapendo già in anticipo il senso di vertigine e d’infinito che mi avrebbe catturato. Ma era proprio ciò che andavo cercando in continuazione. La mia condanna.

    Il vizio mi dipanava la strada nebbiosa e metodica della vita mentre la scrittura riusciva a sciogliere la nebbia che regnava dentro di me fin dalle origini. Esplorando spazi infiniti e sconosciuti.

    Se però le parole non venivano più in mio aiuto, allora anche la nebbia restava placida a farmi compagnia, prendendomi e portandomi con sé per lande aride di riscatto. Per questo era solo ed esclusivamente la vita vissuta all’eccesso che avrebbe potuto ancora salvarmi in quel periodo di vuoto. Per lo meno facendomi boccheggiare nei momenti di massima apnea.

    Era il fascino dell’antieroe, del mistero della vita, della ragionata sregolatezza, del dolore quasi ricercato, bramato, della voglia di cadere per scoprire il buio. Questa era la mia cicatrice, la mia dannazione. Ricercavo tutto questo e lentamente mi distruggevo mentre di pari passo aveva deciso di non seguirmi più la mia scrittura. E riuscivo saltuariamente a restare a galla. Ma col collo flesso, stanco.

    Ero un maledetto romantico, un romantico maledetto. E la mia vita era una corda tesa tra la ricerca dell’amore e la virtù dell’oscurità. A volte pensavo che non volessi io stesso più scrivere. Come per accentuare la caduta, per fare più rumore, per farmi più male.

    Ero masochista ma sentivo che quelle parole che non riuscivo a vomitare fuori mi stavano svuotando del tutto, inesorabilmente, senza compassione alcuna. E se avessi continuato così, mi sarebbe rimasto solo dell’alcool e qualche debole, fragile, illusione.

    Per questo adesso non ha più importanza trovare il giusto inizio della storia. Non scrivo per raccontare qualcosa a voi, scrivo per salvare me stesso. Per redimere la mia anima. Per riprendere la lotta intrapresa con la mia vita su un campo in cui posso provare a combattere per la vittoria. E se vorrete restare ad ascoltarmi ve ne sarò comunque grato e, che ve ne accorgiate o meno, vi avrò donato un pezzetto di me in segno di gratitudine. Dopotutto non sono uno stronzo con l’idea di farsi saltare in aria. O per lo meno non in un luogo in cui vengo completamente abbandonato, restando solo col mio lamento.

    Mi chiamo Giacomo Maria Croce ma per tutti sono solo Jack.

    I miei primi anni di vita in famiglia sono stati tranquilli e spensierati. All’età di 4 o forse 5 anni già imitavo una qualche scrittura antica, dimenticata da tutti tranne che da me, tenendo goffamente in mano i miei primi strumenti di scrittura.

    Scarabocchiavo e viaggiavo con la fantasia su un foglio di carta che per me ancora poteva riempirsi di qualsiasi arcobaleno e lasciavo poi agli zii l’arduo compito di dover interpretare ciò che vi avevo depositato sopra. Le storie raccontate al termine del mio lavoro erano delle più disparate e improbabili ma non aveva importanza. Dentro di me io già sapevo bene cosa avevo creato e questo mi bastava. Mi bastava sapere che qualcuno mi avrebbe letto, a prescindere dal fatto che avesse letto la mia voce o quella di qualcun altro, preso magari in prestito per qualche minuto di allegria al tavolo del cenone natalizio.

    Crescendo poi imparai a conoscere realmente il significato delle parole così potei affrontare in modo più diretto il mio pubblico.

    Iniziai a scrivere poesie all’età di 10 anni. A 15 già le consideravo da sfigati. Iniziai così a dedicarmi esclusivamente al romanzo. A quel dannato romanzo che tanto volevo scrivere e che mai riuscivo a concludere.

    Si può dire che fino ai vent’anni scrissi tranquillamente un migliaio di racconti, senza portarne a termine nessuno. Era come se avessi riportato sulla carta ciò che ero nella vita. Scostante.

    Ero abile ad iniziare al meglio delle mie energie e con il massimo entusiasmo qualcosa di nuovo per poi scoprire a metà della strada che mi stavo annoiando, che mi ero ormai stufato. Così nella scrittura, come nello studio. Nello sport, come con le donne.

    Il mio più grande problema nell’adolescenza fu questo. La costanza. La dedizione. L’impegno. Io non li possedevo.

    Ricordo che un giorno a scuola, il liceo classico, il professore di italiano mi diede una punizione per casa, per la quale oggi sinceramente non ricordo neppure bene la colpa. Fatto sta che questa punizione consisteva nello scrivere dieci inizi di storie ognuna diversa l’una dall’altra, ognuna convincente.

    Lo portai a termine in un battito di ciglia. Ne fui anche orgoglioso, confesso.

    Avevo molta fantasia, all’epoca. Molta freschezza di vita.

    Ancora oggi la fantasia non penso mi abbia abbandonato del tutto. Non è quello il problema. Non so cosa sia cambiato da allora. Da quando bastava sedersi alla macchina da scrivere per comporre qualcosa, più o meno buono che potesse essere.

    Scrivevo con la facilità con cui un pesce nuota nel suo oceano, come un gabbiano vola ad ali spiegate nel suo cielo. Mi veniva istintivamente. E forse oggi è proprio quello che mi manca. L’istinto. Il menefreghismo.

    Mi ero lasciato fregare dalla paura, dall’ansia e dalla mediocrità della vita umana e così iniziai a non riuscire più a sporcare quei fogli che, senza darmi tregua, restavano ogni giorno sempre più bianchi.

    Ebbe tutto inizio all’università, quando il mio zaino pesava vari racconti brevi ed un po’ di poesie. Sì, ripresi a scrivere poesie ma questa è un’altra storia.

    All’università, facoltà di Lettere e filosofia, scrissi molto e vissi ancor di più. All’università feci esplodere quei vizi che prima tenevo solo celati, appena percettibili, dentro di me. Mi dedicai anima e corpo alla dissolutezza di una qualsiasi proposta indecente, alle sbornie, alla ricerca dell’amore, allo sperpero del denaro (poco, nelle mie tasche).

    Mi circondai di persone simili a me, più o meno con il mio stesso sogno, e spezzai innumerevoli cuori nella speranza di trovare quello che sarebbe potuto combaciare perfettamente col mio. Ma forse neanche lo so se spezzai mai realmente un cuore o se fosse invece tutta un’illusione del mio animo scostante, vibrante ed in cerca di avventure che forse riuscivo a vivere solo nelle poesie e nei romanzi dei miei autori preferiti. E se un giorno io, erede della voce di Georges Duroy, il Bel-Ami, penetravo con fascino e seduzione nei più intimi segreti delle belle e annoiate signore della ricca società parigina della fine del XIX secolo, il giorno seguente ero sulla strada a vivere folli avventure col mio amico Dean Moriarty. Poi assumevo le sembianze di un alcolizzato di nome Henry Chinaski poeta ed amante delle donne, quelle brutte, quelle su cui nessun altro vedrebbe il garbo per poi finire nuovamente a desiderare una sola donna, e desiderarla con tutto me stesso, la bella Marie Arnoux, mia segreta insegnante dell’amore e dell’educazione sentimentale.

    Creai un castello di inchiostro in cui poterci abitare, insieme alla vita che mi stavo cucendo addosso.

    Ero felice ma lentamente le parole incominciarono a svanire.

    Uno scrittore per essere tale deve dedicare del tempo alla scrittura nella consapevolezza che quel tempo lo perderà da qualche altra parte. È il compromesso al quale bisogna scendere.

    Io mi dimenticai questa regola e, pensando di poterla aggirare con furbizia, senza accorgermene smisi di scrivere.

    Era l’euforia di una serata conclusa sotto le coperte di una qualche sconosciuta ragazza incontrata poco prima, l’adrenalina su mani vibranti ancora sporche di sangue straniero sulle nocche, la conoscenza di un qualche misterioso personaggio al quale sentivo che dovevo rivolgere la mia attenzione.

    Il problema di fondo, infine, presumo fosse questo. Avevo iniziato a vivere troppo. E così mi ero dimenticato della scrittura. Ah, quanto è capricciosa lei! Mai osare farle uno sgarbo simile.

    È come una dolce Lolita in cerca di costanti attenzioni. Va curata, coccolata, seguita. Manca per un breve periodo dalle sue labbra affamate e lei ti volterà le spalle, offesa, ferita.

    Oggi la mia Lolita sembra esser scomparsa, fuggita via, col cuore più infranto del mio. Ma io ti ritroverò mio dolce tesoro, ci puoi scommettere. Eri solo mia tu, non puoi andartene via così. Ti riporterò a casa, Lolita. Ti riporterò al tuo posto, dove sei nata per stare. Tornerai al mio fianco e ci resterai. Per sempre. Perché sei mia, e lo sei sempre stata.

    Il mio cuore brama il tuo sguardo e la mia anima si nutrirà ancora del tuo calore.

    La mia Lolita non è scomparsa, non è morta. È solo autunno ed in autunno tutto si perde via con la brezza fresca del mattino.

    Domani, quando mi sveglierò da questo brutto sogno, sarai di nuovo al mio fianco, e mi sorriderai come facevi un tempo.

    Domani. Domani sarà tutto finito. Domani saremo di nuovo insieme. Ed inizierà così un nuovo capitolo perché questo, prima o poi, dovrà aver fine.

    D’inchiostro nero macchiai la prima volta un foglio lindo

    con l’innocenza d’un bambino

    Danzai nel bianco candore di quella pergamena

    come il palco d’una recita teatrale

    E generai arte, spettacolo

    Emozione e fantasia

    Non sapevo ancor scrivere

    Ma nella mia testa ben sapevo ciò che stavo compiendo.

    Feci leggere la mia arte a parenti e amici

    Uno zio d’animo nobile in particolare

    riusciva sempre a comprender il significato di ciò che volevo dire

    E mi fungeva da interprete al mondo

    Avevo molto da dire

    Ma poca voce per farlo

    La mia sola fortuna era quel enigmatico, stanco zio

    Dagl’occhi piccoli

    Sorridenti più del labbro

    Nelle cui mie parole lui solo ci vedeva altro

    E mostrava così al tavolo dei commensali il ballo

    L’adagio lento e melodico della mia voce

    Non capii mai attraverso cosa riuscisse a legger le mie parole

    Ma compresi che compreso da lui

    Sarei potuto esser compreso da altri, un giorno

    Un giorno migliore forse

    in cui le mie parole le avrei sapute disporre correttamente nel tempo

    Dipingendole su tela

    come quel vecchio zio le riusciva a tatuare indelebili sulla mia pelle

    Come quello zio che accese in me l’arte

    L’arte d’esprimersi

    L’arte di farsi grandi

    II - QUELLI DEL KING’S PUB

    Quando aprii gli occhi quella mattina, era un giovedì o forse un venerdì, adesso non ricordo, il tempo fuori dalla finestra mi risuonava nelle orecchie. La pioggia batteva insistente sulle persiane ancora chiuse mentre saltuarie folate di vento ne rendevano scostante il ritmo del picchiettio sul legno grezzo.

    Io ero confuso. Non sapevo se aprire quelle finestre e lasciar trapassare la luce attraverso i vetri umidi oppure fosse meglio lasciar perdere, magari rimanendo a letto, sotto le lenzuola, e tenere la stanza chiusa a se stessa, protetta nel suo guscio di calore.

    Intorno a me il disordine più assoluto. Dormivo su di un comodo letto singolo sommerso da vestiti sporchi di almeno una settimana intera. Come a regnare in un castello, ero circondato poi da un fiume di scarpe, a difesa dagli attacchi nemici, le quali a volte non si presentavano neppure con il compagno con il quale erano state inizialmente arruolate. (Un paio di volte sono stato proprio costretto a uscire con scarpe differenti, per la pigrizia di dover perdere del tempo a cercarne la combaciante di ognuna).

    La scrivania poco distante da me era altrettanto disordinata. Un disordine più mediato, però. Un disordine ordinato, si potrebbe dire. Su quella scrivania ci vivevo e inseguivo i miei sogni, quindi era impossibile non cercare di convivere con una confusione che fosse quantomeno coordinata e costante nel suo disagio.

    Su quella scrivania ci avevo passato metà della mia vita ma ultimamente riuscivo ad affrontarla sempre meno. Quasi la evitavo, ormai.

    Stirai i muscoli e dopo uno sbadiglio a fauci spalancate che avrebbe potuto incuter paura anche al re della savana, decisi che era giunto il momento di alzarsi.

    Accesi la luce lasciando la stanza al riparo dal vento e dalla pioggia e dalle nubi di quel mattino autunnale e spalancai invece la porta della stanza, per recarmi al bagno.

    Mia madre Monica mi passò accanto.

    «Buongiorno Kaki», mi disse sorridendomi appena. Sì, mia mamma mi chiamava in quel modo che detestavo, ma la mia sorellina piccola mi chiamava così e a lei quel nomignolo piaceva e così aveva deciso di rubarglielo.

    «Ciao mamma».

    Andai a sciacquarmi il viso e feci pipì.

    Durante la colazione la incontrai nuovamente.

    «Carolina l’hai già portata a scuola?». Carolina era la mia sorellina, aveva 6 anni.

    «Certo, sono le 11:00 sai, a quest’ora la gente normale è già in piedi da un pezzo, almeno durante la settimana».

    «Smettila che mi fai incazzare subito appena sveglio».

    «Ti incazzi per ogni cosa tu».

    «Papà oggi a che ora è uscito?». Cambiai discorso.

    «Non lo so, stavo ancora dormendo pure io quando è uscito. Alle 7:00 già non c’era più».

    «Problemi a lavoro?».

    «Speriamo di no Giacomo, non dire così…» Percepii il senso di disagio nel suo animo attraverso uno sguardo grigio e distaccato.

    Mia madre era una brava donna, anche se a volte mi faceva incazzare. In casa faceva sempre tutto per noi e si toglieva anche il pane dai denti se era necessario per far mangiare me e Carolina.

    Aveva però un piccolo ingranaggio che non voleva girare insieme agli altri. Ed aveva come una sorta di paura della povertà. Aveva paura di non poter più riuscire a vivere in un determinato modo, in mezzo a determinate persone.

    La mia famiglia era una famiglia abbastanza benestante e questo la rendeva tranquilla nella sua quotidianità.

    Non era avidità o cattiveria. È difficile da far rendere come idea. Pensava semplicemente che il denaro ci avrebbe permesso di restare sempre uniti, sicuri, felici.

    Nacque in un contesto nobile, (mia madre è una contessa), ma per qualche strana circostanza la sua famiglia cadde in disgrazia perdendo ogni cosa. Lei si ritrovò dall’oggi al domani a dover cambiare ogni abitudine e atteggiamento alla vita quando solo aveva una decina d’anni e questo probabilmente la segnò in un qualche modo. Suo padre venne lasciato dalla madre e lei si ritrovò ad essere accudita da dei lontani cugini, unici che se ne presero cura durante la sua crescita.

    Qualsiasi altro membro della famiglia l’abbandonò, forse in cerca di recuperare il tesoro perduto, forse perché impossibilitati a prendersi cura di qualcuno che non fossero loro stessi, già compito arduo senza l’aiuto di un qualunque altro domestico o maggiordomo.

    Si trasferì così al Nord dai cugini e all’età di 18 anni conobbe Aldo, mio padre.

    Monica mi raccontò sempre che fu amore a prima vista. Lui era alto e forte, povero e pieno di voglia di vita e di emergere. Riusciva ad imprimere sicurezza in lei con un solo sguardo. Ed ogni volta che le parlava delle sue ambizioni la catturava e la ammaliava fino a renderla completamente sua, devota a quel nuovo desiderio che mai aveva provato prima per un uomo. Si sposarono dopo nemmeno un anno che si frequentavano ed io nacqui dopo altri 4 anni.

    Lui riuscì a mantenere le promesse fatte e lavorando sodo riuscì a costruirsi un piccolo impero nel settore navale attraverso un’azienda principe nelle riparazioni e manutenzioni.

    Ultimamente però in famiglia si iniziarono a percepire le spine di una vita finora troppo rosea e questo scombussolò non poco il fragile equilibrio di mia madre. Forte nell’insegnarci a vivere la vita seguendo i nostri principi ed i nostri sogni. Forte nello spianarci la via giorno dopo giorno attraverso attenzioni costanti e sacrifici e rinunce personali. Forte nel tenerci uniti e legati, nell’amarci più di quanto sia mai riuscita ad amare se stessa.

    Eppure io in lei ho sempre percepito questa sorta di castello di carta, forse non troppo lontano dal mio castello d’inchiostro, a renderla anche molto instabile e precaria.

    Non poteva permettersi di abbandonare lo status sociale che finalmente era riuscita a riconquistare e non poteva permettersi che io e Carolina rischiassimo di cadere nel fallimento in cui già era inciampata lei una volta, molti anni prima.

    Papà però non ci avrebbe mai potuti abbandonare qualsiasi cosa fosse accaduta e anche solo l’idea che lei potesse saltuariamente temerlo mi faceva incazzare di brutto.

    «Era solo una domanda, mamma. Non volevo insinuare niente di grave». Le penetrai lo sguardo col mio come a volerla scuotere, come bloccandola per le spalle e scrollandola per farla tornare in sé.

    «Lo so, Kaki, ci mancherebbe». Mi sorrise, alzandosi per portar via i piatti sporchi.

    «Cosa pensi di fare oggi?», proseguì, senza distogliere lo sguardo dalle sue stoviglie.

    La osservai fare su e giù dal tavolo al lavello.

    «Vado al King’s, mamma». E sapevo bene che quelle parole l’avrebbero ferita ancor di più, insieme a tutto il resto.

    Erano le 17:00. Il tempo sembrava migliorare lentamente ma ancora la pioggia regnava sulla città, bagnando ogni cosa al suo tocco gentile, morbido pianto fatato. Il suono della pioggia che sbatteva sulle superfici del mondo mi ricordava un concerto di musica classica. Ma non una sinfonia melodica e rilassante, no. Mi pareva più di partecipare ad un concerto di Beethoven, energico e stimolato da impulsi frenetici e costanti.

    Non avevo tregua. Ero tutt’orecchie nella mia cabina, a teatro, catturato da quelle note scorrevoli come un fiume in piena che divampa, trasbordando dagli argini.

    La pioggia mi aveva sempre messo inquietudine nel cuore quando ero costretto ad affrontarla direttamente.

    L’amavo davvero quando la sentivo scivolare nel vetro della finestra quanto ero invece portato a temerla nel caso in cui nessun tetto mi potesse offrire riparo. E mi sentivo solo e perso, immerso nel mio oblio, come un marinaio abbandonato a sé il giorno della burrasca.

    Amavo il fuoco io, il calore, l’energia del sole.

    Davanti a me si trovava il locale dove quasi ogni sera facevo tappa trovando il mio gruppo di amici e parlando di stronzate tutta la sera con loro, bevendo, e provando a creare qualcosa di buono dall’unione di tutte le nostre teste. Teste di cazzo comunque, ve lo posso assicurare. Nessun finto intellettuale, nessun erede della voce del Messia, nessun professore accademico. Solo un gruppo di ragazzi un po’ irrequieti, un po’ scostanti, energici e pieni di voglia di vivere e di dimostrare qualcosa. Un gruppo di ragazzi un po’ perdenti ed un po’ sognatori. Legati da un filo invisibile chiamato arte. Il bisogno di esprimersi. L’arte non sempre si ritrova nei libri o nei dipinti, o nella musica o negli spettacoli teatrali. L’arte è un concetto, un modo di vivere.

    Si può tranquillamente essere artisti senza dover produrre per forza mai nulla. L’arte è un modo di vivere, un modo di porsi alla vita e alle emozioni.

    Un poeta non sarà mai tale se non riuscirà prima a vivere almeno una parola di ciò che vuol raccontare.

    L’artista prima esplora e solo poi, se lo riterrà davvero opportuno, proverà a dargli vita. Ma non sempre è necessario.

    Ho incontrato persone che fecero della loro vita un’arte senza mai farne dono a nessuno al di fuori di chi aveva avuto la fortuna di incontrarle. Per il resto del mondo non esistevano. Ma erano dei folli egoisti con una sregolata propensione al successo. La loro vita era già arte. E passione. E non serviva aggiungerci altro.

    Lasciamo ai finti intellettuali, ai ben pensanti, agli aridi di emozioni, le belle parole di un ricercato saggio sulle profondità del vocabolario nazionale e le tecniche più avanzate di scrittura e comunicazione.

    Ciò che io credo è che il vero artista è tale nel momento in cui crea una nuova domanda nell’animo delle persone. Non è compito dello scrittore rispondere ai segreti dell’universo o della coscienza umana. Uno scrittore può dare delle interpretazioni, più o meno condivisibili, ma è realmente un grande artista solo quando riesce a suscitare delle nuove domande.

    Le risposte lasciamole agli scienziati. Sono molto più interessanti le domande. Il segreto dietro una nuova supposizione. L’arroganza che abbatte gli schemi.

    Dopotutto le risposte non esisterebbero neppure se a posteriori non fosse sorta una domanda. Ah! Quanto sono sottovalutate le domande.

    L’uomo ha smesso ormai di farsi domande e così ha incominciato a vivere secondo come la società vuole che viva. Chiuso nella sua prigione, in silenzio, ubbidiente.

    Si è sempre alla dannata ricerca di risposte.

    Le religioni.

    Dio esiste se lo trovi dentro di te, non hai bisogno che qualcun altro ti indichi dove guardare. Non lo troverai realmente mai così. Ma hai bisogno che qualcuno ti dica che esiste, più di quanto hai bisogno di chiederti perché vuoi che esista. Perché ti spingi tanto in là per credere che esista davvero? Perché?

    A volte si guarda così tanto distante da non accorgersi di avere tutto sotto ai propri occhi.

    Io volevo di più di così.

    Mi trovai davanti all’ingresso del King’s Pub. Finalmente ero arrivato al mio covo, la tana del mio branco, il rifugio per la mia anima. Ormai solo qui dentro riuscivo a sentirmi davvero ancora vivo.

    Alzai lo sguardo immortalandolo con gli occhi in una fotografia.

    Occupava l’angolo della strada, in un maestoso stabile di quattro piani i cui ultimi tre erano dedicati ad un B&B della stessa gestione del pub, casa per alcolizzati, innamorati di una notte o semplici viandanti di passaggio. Al piano terra invece

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