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L'Ascesa del Popolo Maledetto: Il Destino dei Ruma - Vol. I
L'Ascesa del Popolo Maledetto: Il Destino dei Ruma - Vol. I
L'Ascesa del Popolo Maledetto: Il Destino dei Ruma - Vol. I
Ebook423 pages6 hours

L'Ascesa del Popolo Maledetto: Il Destino dei Ruma - Vol. I

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About this ebook

I popoli di Kendar vivono un'esistenza lontana dal resto del mondo, isolati da poderose catene montuose ad est, dimentichi del grande ciclo di vita e morte che governa il mondo. Elan è un giovane elfo che vive relegato in un piccolo anfratto di paradiso tra le montagne, in una comunità pacifica e tranquilla. Gli elfi che vivono con lui però sembrano aver dimenticato la loro natura di viaggiatori, mentre lui agogna a partire alla scoperta del mondo. Un giorno il fato porta Elan a vagabondare per le terre di Kendar combattendo contro gli uomini che lo vogliono morto e contro il suo passato. Si ritroverà a condividere questo viaggio con altri individui: un inesperto mago, un uomo dagli oscuri sensi di colpa, un'elfa ostile e solitaria, un nano appartenente ad un'élite leggendaria e molti altri, puntando verso le Aule dei Signori delle Montagne, in cerca di risposte che ha paura di trovare.
 
LanguageItaliano
Release dateDec 28, 2018
ISBN9788829584543
L'Ascesa del Popolo Maledetto: Il Destino dei Ruma - Vol. I

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    L'Ascesa del Popolo Maledetto - Marco Della Mura

    Marco Della Mura

    Il Destino dei Ruma

    L’Ascesa del

    Popolo Maledetto

    Narrerò…

    D’altre lontane epoche

    Chiuse là…

    In mondi di oscurità

    Un freddo e indifferente infinito permeava Tutto. E Tutto non era altro che Pensiero, talmente vasto e inconoscibile, talmente grande e maestoso. Talmente inutile e vuoto senza qualcuno che lo pensasse.

    E dal buio più profondo tra le cose,

    vennero i primi viaggiatori.

    Non parcheggiarti nella società,

    dubita, cerca, crea il tuo mondo.

    L’Ascesa del Popolo Maledetto

    IL SENSO DI OGNI COSA

    Ed era questo magnifico disordine ad aver provocato la vita: così semplice e complessa, mirabile nelle sue sfaccettature e fragile come un frammento di cristallo; ma meravigliosa come il fiocco di neve tra le mani di un solitario cantastorie, davanti alle scintille di un racconto in una notte esule. E in quel fiocco di neve perfetto: un mondo ghiacciato e freddo, intricato e misterioso. Una terra baciata dal primo sole che ne rendeva la neve infiammata del pianto di una vita appena nata. Un mondo che, sopito fino ad allora, aveva visto la luce del sole per la prima volta, venendone abbagliato, meravigliandosi del suo calore, riempiendosi di colori al suo riflesso e danzando di gioia alla sua voce. Era dal buio che era iniziato tutto, così come iniziava ogni nuova Donazione, così come ogni Ciclo di seicento Donazioni iniziava e così come ogni Era poteva nascere. Ma dopo l'oscurità veniva la seconda stagione: la terra, involucro caldo e ospitale pronto a ricevere la vita che sarebbe scaturita dall'acqua: la terza stagione, zampillante di vita. Il quarto cambiamento era perpetrato dall'aria, quell'esile soffio che imprimeva contingenza alle cose. E poi c'era la luce, l'astro caldo sopra ogni cosa che illuminava il mondo di letizia. E l'ultimo a giungere, era sempre il fuoco; amato e odiato, auspicabilmente inesistente ma necessario… per che cosa?

    Per morire. E poi rivivere.

    PRELUDIO

    Milor si inerpicò su per il pendio costellato da piccole pietre nere che annunciavano la vicinanza con le montagne. Giunto in cima  poteva ancora vedere le ultime bestie che fuggivano terrorizzate su per i valichi e dentro le valli che si aprivano tra le aspre rocce del lato orientale dei Turanti. L'Armata Fantasma aveva vinto di nuovo, e questa volta contro un nemico più temibile dei precedenti. Il generale sorrise soddisfatto, erano tre stagioni che la campagna andava avanti. L’Impero Ruthan si era avvalso delle sue migliori unità per poter scacciare i Ruggiti di Ghiaccio dalle proprie terre, ma solo l'Armata Fantasma era riuscita a non soccombere alla loro forza bruta, solo loro avevano osato provare ciò che nessun altro avrebbe mai tentato. Non solo erano riusciti a sconfiggerli, ma vittoria dopo vittoria li avevano cacciati dalle loro terre a nord e li avevano spinti  verso i confini più occidentali del mondo conosciuto. Per una Donazione i mostri avevano imperversato nelle Regioni Fredde, dopo essere scesi dagli Arcipelaghi Nebbiosi; i pochi eroi che avevano avuto la fortuna di tornare da quei luoghi parlavano di immense valli dove l’acqua si incanalava e si riversava sul fondo di esse assieme a fiumi di lava, e il vapore era onnipresente, mentre ogni giorno la terra era scossa dai terremoti. Milor non sapeva perché i Ruggiti di Ghiaccio fossero scesi a sud e nemmeno gli importava. Avevano perso, e una volta che l’ultimo di loro fosse scomparso tra i monti non sarebbero stati più un problema. Lui e i suoi uomini sarebbero stati celebrati in tutto l’Impero, anzi, in tutta la terra. Avrebbero cantato di loro nelle leggende, sarebbero stati glorificati come eroi, o addirittura come figli degli angeli. Perché è di questo che si cibavano quelli come Milor: sangue, vittoria e gloria. 

    Una tiepida brezza gli scompigliò i capelli biondi. Tra pochi giorni sarebbe incominciata l’Oscurità di Mor, e così immaginava cominciasse anche l’odissea dei Ruggiti di Ghiaccio tra i monti. I Turanti erano spietati, nascondevano mille insidie tra i crepacci e le gole, i mostri si sarebbero dispersi e sarebbero morti tutti prima che fosse arrivata la stagione di Kar. Si leccò le labbra, ora lo aspettavano giorni lieti, li avrebbe passati con sua moglie e i suoi figli.

    Sentì una voce che lo chiamava, era uno dei suoi ufficiali: doveva scendere e comunicare la situazione, era sicuro che i Ruggiti di Ghiaccio non avrebbero osato tornare indietro, ma per sicurezza avrebbe posizionato i suoi soldati alle pendici dei monti, la sola vista degli stendardi dell'Armata Fantasma sarebbe bastata a far tornare sui propri passi qualche impavido idiota che non voleva morire tra le montagne. Osservò l’ultima massiccia sagoma bianca scomparire tra le rocce, sorrise.

    Cronache della Creazione. Libro II. Dalle Aule di Bud-Arambar.

    In principio non esisteva nulla nella realtà mortale. Un freddo e indifferente infinito dilagava in ogni direzione. Il primo a venire fu Mor, l'Oscurità, la condizione primordiale di ogni cosa, il punto di partenza di tutto, la spinta alla conoscenza e al movimento. Infatti, se il mondo fosse solo luce nessuno potrebbe ricercarla poiché già l'avrebbe, ma l'essenza stessa dei mortali è la ricerca instancabile e inappagabile di essa. I mortali vengono dal Buio per cercare qualcosa al di fuori di sé stessi che è la Luce. In seguito venne la Terra Creatrice di Kar che comprende sassi, terra, polvere e qualunque cosa che sia a essa legata, senza un'anima percepibile come quella degli altri viventi. Poi, la Terra fu riempita di vita dall'Acqua di Quv che creò tutti gli esseri viventi. Il Vento di Des pose la parola inizio alla storia dei mortali che cominciarono a muoversi, a vivere, gioire, piangere e invecchiare, con l'aria arrivò anche lo scorrere del tempo e la contingenza. L'Illuminazione della Conoscenza di Alo pose nei cieli vie sicure per i mortali, appigli nella notte, sapienza nelle loro menti. La conoscenza tuttavia, porta ogni Era i mortali alla distruzione in un modo o nell'altro, presto o tardi, inevitabilmente. Perché mai potranno essere pari ai loro sentimenti che gli ispirano sempre opere grandiose impedendogli poi di compierle. E puro e perfetto non sono che astrazioni impossibili per chi è soggetto a contingenza. Essi si muovono guerra tra loro o alla loro stessa casa, portando tutti sull'orlo del baratro. Prima che sia tardi il Fuoco Purificatore di Fot elimina i mortali per preservare la vita e permettere che le cose ricomincino da capo, il Fuoco porta l'Apocalisse che lascia una scia di desolazione, che verrà curata dal nuovo inverno che giunge con l'Oscurità. Si ritornerà al punto di partenza e ci sarà di nuovo Oscurità finché non sarà plasmato un nuovo mondo, e finché la vita non troverà una nuova via.

    Queste sei essenze giunte nella realtà fisica, distaccate dal Tutto metafisico nella dimensione senza tempo furono chiamate dai mortali: Possenti Divini e ognuno di essi creò una razza a propria immagine. Mor plasmò le tenebre creando i misteriosi Dunsten, Kar solidificò le rocce della terra più dura dando forma ai tenaci Nani, Quv creò vortici di armonia nell'acqua per dare vita agli empatici Orchi, Des perse sé stesso nell'aria ritrovandosi nei fugaci Elfi, Alo staccò dal sole la propria conoscenza per irradiare le menti dei savi Alandoi e Fot divise il fuoco più feroce per dare vita ai furiosi Medorani. A queste razze venne donata l'empatia per l'elemento che le rappresentava e da cui erano nate e vennero chiamate Primi.

    SANGUE DEL CACCIATORE, TERRORE DELLA PREDA

    277° Donazione del Ventiduesimo Ciclo. Dono di Terra di Kar. Sessantunesimo Momento di Sole. Mezzo miglio dal confine occidentale dell’Urthanion, Terra Dei Venti Argentei.

    Fluttuava al limite del vuoto, cercando di varcare una porta sempre stata chiusa, chiusa sì, ma forse solo nella sua testa. In fondo cosa gli impediva di alzarsi e andarsene in quello stesso momento? Nulla: stava tutto nella sua testa. In fin dei conti i problemi non sono mai reali, sono le persone a crearseli; con le loro aspettative, le loro piccole fobie, i loro sogni. Forse avrebbe solo dovuto spogliarsi dalle pretese e oltrepassare il vuoto per entrare nella dimora metafisica delle stelle. Ma non era così facile, non lo era mai.

    Occhi fiammanti di iridi scure guizzavano lungo la ruvida roccia nera che si mescolava alla candida neve bianca nell’ultimo giorno di Kar. Nell’aria aleggiava il selvaggio odore della terra, pura e terribile, incontrastata e incontrollabile, laddove, nascosti tra le cime, cinque mezzi elfi si appostavano silenziosi tra la pietra annusando la calma aria mattutina in cerca della loro preda.

    Inspirò a fondo il soffio che la terra infondeva in lui, pronto ad accogliere ciò che quel nuovo mattino gli avrebbe dato, mentre assaporava la vita. Si staccò dalla roccia lasciando lievi impronte sul manto candido, mentre una lepre bianca correva via a balzi sollevando mucchietti di neve a ogni salto. Lui iniziò a correre, i suoi piedi divoravano rapidamente il terreno avvicinandosi alla preda di cui il mezzo elfo percepiva l’odore. Un ghigno si disegnava sul suo volto ogni volta che inseguiva qualcuno, ogni volta che una preda era braccata e nell’aria poteva annusarne la paura. Correndo tra i sassi e balzando da una roccia, all’altra Elan si muoveva non dissimile da come cacciava un lupo.

    A un richiamo lontano si fermò di colpo, urtando uno sperone. Con la manica si asciugò le goccioline di sudore. Fece scorrere la lingua tra le labbra pregustando la vittoria. Erano quasi una mezza dozzina a cacciare quel giorno, sotto il cielo plumbeo, ma Elan era solo, voleva essere solo, quella preda era sua. Quasi non riusciva ad ascoltare le indicazioni date dai compagni. Inspirò a pieni polmoni. Un nuovo urlo. Riprese la caccia e sorrise ancora malignamente.

    Mentre per lui l’aria sapeva di libertà, lo stesso non si poteva dire della sua preda, che anzi odiava il freddo che regnava su quelle rocce.

    Per di qua… no nemmeno, sono furbi questi Orecchi-Punta, cacciatori provetti. Maledizione ho sbagliato! Addentrarsi nei confini degli Orecchi-Punta per procurasi del cibo… decisamente da imbecilli. Il kuagar sudava e ciò per lui era sconveniente, il sudore aumentava il puzzo fetido di zolfo che si era inevitabilmente portato dietro. I mezzi elfi lo percepivano chiaramente, non erano come gli elfi del Shinrhan, però avevano comunque tutti e cinque i sensi sviluppati più degli uomini o di qualunque altro Secondo. Questo, il kuagar lo sapeva bene. Inoltre non poteva nascondersi: i mezzi elfi conoscevano bene ogni anfratto del loro piccolo regno. Scappare allora? Riusciva ad essere veloce, anche se peccava in resistenza, in altre circostanze sarebbe riuscito a seminarli, ma coi piedi nudi gelati che incappavano nelle ruvide rocce, non riusciva ad andare veloce quanto avrebbe voluto. Si girò ad osservare l’alta torre opaca che si levava da dietro una sporgenza rocciosa, doveva essere la più lontana dal centro, il pendio che portava alla sua terra non doveva distare più di un miglio, ma nella posizione in cui si trovava, protetto da aguzzi spunzoni di pietra, non riusciva a vedere nulla: i suoi inseguitori sarebbero potuti sbucare fuori alle sue spalle o anche davanti a lui che se ne sarebbe accorto solo all’ultimo. Il regno dei mezzi elfi era situato astutamente in un angolo dei Monti Turanti su un altopiano circondato da quasi tre lati di alte montagne cupe. Girò intorno ad una pietra e si ritrovò in un boschetto, da lontano poteva apparire un normale bosco che cresceva bizzarramente su un terreno con più pietra che terra. Avvicinandosi di più il kuagar appoggiò le dita snelle e affusolate contro la corteccia di un albero per poi ritrarre subito la mano sgranando gli occhi per capire cosa lo avesse inquietato: la corteccia aveva una colorazione marrone che cangiava verso una gradazione più grigia che lo faceva assomigliare a pietra. Il contrasto era creato dalle piccole foglie ondulate che si ammassavano sui rami alti, seppur conservassero il loro verde, alcune striature apparentemente invisibili le facevano brillare di una particolare luce azzurra e la neve appoggiata pigramente su di esse sembrava non poter contenere quella luce. Ora che ci pensava non vi era alcun boschetto che si affacciava sul pendio prima della sua terra. Dannazione. Aveva sbagliato strada. I mezzi elfi lo avevano spinto verso le montagne allontanandolo dalla sua terra. Si voltò ad osservare le aguzze rocce che puntellavano tutto il territorio, stagliandosi verso il cielo come in un canto di supplica parevano tante mani che si allungavano verso l'alto. Tutto taceva. Alle sue orecchie giungeva solo il sibilo del vento e le sue narici non coglievano odore che non fosse quello gelido dell’aria. Non udiva le voci dei suoi inseguitori, ma era certo che in qualche modo ognuno di loro sapesse dove si trovava l’altro. Non sapeva cosa lo inquietasse di più: se le rocce che parevano mani o il boschetto di pietra luminosa. I lunghi capelli appiccicati alla faccia sudata vennero colti dal vento onnipresente di quel dannato altopiano. Mosse le enormi pupille sul terreno aspro, il suo corpo seminudo non era adatto a quel territorio così tagliente e ventoso e in quella stagione dell’anno pieno di dannata neve. Che orrendo schifo in cui vivono questi esseri. Con riluttanza si addentrò nel boschetto. Non fece in tempo a percorrere più di due dozzine di veloci passi che si sentì troppo vicino ai suoi inseguitori. Si accovacciò per lo meno per evitare di essere visto, ma nulla era dalla sua parte. Udì un fruscio alla sua sinistra, si sdraiò per terra ancora di più, rabbrividendo al contatto con la neve gelata. Si morse il labbro viola spento fino a farlo sanguinare, i grandi occhi gialli guizzavano da ogni parte per riuscire a vedere qualcosa. Cominciò a tremare e gli parve che potessero sentirlo; ogni singolo muscolo del suo corpo scuro era scosso da tremiti incontrollabili. Aveva paura, non era pronto per morire.

    Una voce improvvisa lo colse alla sprovvista, si voltò e a meno di cinque passi da lui vide un mezzo elfo, un ampio sorriso solcava la sua faccia presuntuosa mentre parlava nella sua lingua, il resto delle parole arrivò alle orecchie del kuagar lento e attutito, mentre il tempo rallentava. Mi hanno scoperto! Il mezzo elfo girò la testa di lato e fece un cenno a qualcuno che il kuagar non poté vedere. Gli bastò quest’attimo di disattenzione del suo avversario, imprecò nuovamente nella sua testa, e con un balzo scavalcò il mezzo elfo che lo aveva trovato per primo, tirando un violento calcio sul petto all’avversario facendolo cadere all’indietro. Pensavate che non avessi via di scampo? Che non riuscissi a muovermi per lo spavento? Vi farò vedere come è un vero kuagar. Non mi avrete! Corse a perdifiato, come mai aveva corso prima, risalendo il bosco che tuttavia non conosceva, non conosceva i suoi segreti, e poteva perdersi facilmente. Una freccia gli sibilò accanto, e si conficcò nel tronco grigio più avanti, il kuagar si sbilanciò e cadde con la faccia su un gruppo di fiori blu non ricoperti dalla neve, subito si sentì irritare il volto. Che cosa sono? Si alzò, provò a correre, ma i fiori gli avevano annebbiato la vista, e il suo piede incontrò una radice sporgente, incespicò e cadde, si sentiva intorpidito. Venne preso dallo sconforto. Non può finire così. Strisciò per qualche metro, provò a rialzarsi ma cadde nuovamente a terra. Il naso cominciò a prudergli e lo costrinse ad emettere un forte starnuto che probabilmente sentirono tutti. Il polline si staccò quasi tutto dalla sua faccia e lui riprese a vedere. Senza pensarci, con una nuova speranza ad animarlo, riprese a correre. Sicuramente ora sapevano esattamente dove si trovava, si poteva affidare solo alla velocità. Svoltò bruscamente a destra, corse e corse per tutta la lunghezza del bosco che a est, a ridosso dei monti, scendeva per quasi tutta la lunghezza dell’altopiano verso sud. Un paio di volte tentò di scorgere gli inseguitori alle sue spalle, ma non li vide mai e rischiò di finire contro uno di quegli alberi grigi. Quasi senza accorgersene arrivò al limitare del bosco. Si fermò a riprendere fiato prima di uscire dalla macchia boscosa, vedeva il territorio, meno aguzzo in quel punto, e soprattutto riusciva a scorgere il ripido pendio che scendeva fino ad una piana, a meno di un quarto di miglio da dove si trovava lui, che anticipava le montagne del suo territorio. Poteva farcela. Un movimento alla sua destra e vide un’ombra che scendeva dall’altro lato di una grossa roccia. Riprese a correre, aggirò gli spunzoni di roccia ruvidi e taglienti… e si trovò faccia a faccia con uno di loro. Era più alto di lui, ma non tra i più alti di loro, i capelli blu scuro che gli cadevano oltre le spalle. Un viso che sapeva di libertà, un viso che non aveva paura e ora lo guardava sorridendo, ridendo di lui. Dietro l'elfo c'era il pendio, la sua terra, il sole della mattina, il verde che chiazzava un poco le colline non ricoperte totalmente dal bianco. Senza pensarci lo attaccò, saltando digrignò i denti appuntiti per sembrare più minaccioso, il mezzo elfo sorrise, un sorriso da superiore. Dolcemente si lasciò scivolare sulla neve sfoderò l’arco e incoccò una freccia, il kuagar lo oltrepassò, si avventò verso l’orizzonte, apprestandosi a scendere il pendio. Sì, ce l’ho fatta! l’euforia lo invase. Stupidi mezzi el… le parole gli morirono in bocca, trafitte da una freccia entrata dal collo e uscita dalla lingua. Cadde, morendo prima di toccare terra.

    Usi e costumi. Salawen. Alcuni cenni sulla magia.

    Ogni uomo possiede dentro di sé i due elementi che erano propri dei loro antenati: terra e aria. Così come tutti i Secondi, figli diretti di due razze dei Primi. Ma solo pochi riescono a controllarli, pochi ne hanno l’abilità. Costoro vengono il più delle volte individuati nella popolazione umana in giovane età, poiché essi presentano capacità di ascolto della natura e di utilizzo dei sensi migliori del normale. Costoro vengono mandati all’Accademia di Magia di Welerhen, dove si allenano per diventare maghi. Alla fine dei dodici anni di addestramento, vengono sottoposti al giudizio dei Grandi Maestri della magia, se vengono reputati idonei, diventano maghi a tutti gli effetti e viene donato loro un oggetto magico, il più delle volte bastoni o bacchette per incanalare meglio la loro magia senza perdere ogni volta una quantità eccessiva della propria energia. Se non vengono accettati,i Grandi Maestri provvedono a estirpare ogni traccia di magia dal loro corpo.

    CONFRONTO COI GRANDI MAESTRI

    277° Donazione del Ventiduesimo Ciclo. Dono di Terra di Kar. Sessantunesimo Momento di Sole. Welerhen. Palazzo dei Maghi.

    Helkas camminava misurando con attenzione i passi, doveva sembrare il più tranquillo possibile, gli avevano detto che sarebbe passato sicuramente, gli avevano detto che sarebbe diventato un formidabile mago, gli avevano detto che in fondo l’incontro con i Grandi Maestri era solo una mera formalità, arrivati a questo punto si sarebbe diventati maghi sicuramente. Ma lui era ansioso, e se avesse fatto una brutta impressione ai Grandi Maestri?Avrebbe mandato all’aria tutto ciò che aveva fatto, tutti i suoi sforzi. Non fallirò, l’ho promesso, si disse, ma non ne era tanto sicuro. Era un giovane di diciotto inverni e una barba non ancora del tutto delineata. Aveva un portamento fiero per essere un contadino e non era seppur fosse appena più alto della media e con due braccia robuste. Prima si rafforzi il corpo, poi lo spirito gli dicevano sempre all’accademia. Indossava abiti eleganti per l’incontro con i Grandi Maestri, però non gli piacevano, troppo formali, troppo complessi per un uomo di campagna come lui, in accademia aveva indossato sempre le vesti da apprendista, comode, agevoli, e soprattutto su misura per lui. Questi gli andavano stretti. Una mantella azzurra copriva una maglia di seta grigio chiaro adatta per un mago capace di controllare il vento. Portava pantaloni di pelle di cervo beige; forse i pantaloni se li sarebbe tenuti, quelli gli andavano bene, erano comodi, e tenevano bene il calore. Una delle guardie che lo accompagnavano gli passò davanti e indicò con l’indice una porta a doppio battente. È arrivato il momento. Helkas trasse un profondo respiro, si sistemò un ciuffo di capelli castano scuro ed entrò. I battenti si aprirono cigolando un poco in una stanza spoglia fatta di marmo lucido, senza affreschi di nessun tipo sulle pareti, solo un rialzamento su cui poggiavano tre troni, e dietro di essi affisso sulla parete un gonfalone raffigurante i sei elementi della magia, in cerchi colorati: un triangolo con la punta verso l'alto inscritto in un quadrato per la terra, una spirale per l'acqua, una sorta di otto senza la linea curva in cima per il fuoco, tre frecce che puntavano in direzioni diverse per l'aria, un sole per la luce ed un triangolo isoscele senza uno dei due lati lunghi per l'oscurità. Nella parete di destra vi era un cerchio di stoffa colorata che rappresentava il simbolo della terra, della stabilità, della forza e della casa. A sinistra vi era il simbolo dell’aria, della libertà, della conoscenza e dei vagabondi. Su ognuno dei tre scranni posti nel rialzo in centro alla stanza sedeva uno dei Grandi Maestri, a sinistra prendeva posto il più giovane: la gamba destra poggiava sulla coscia sinistra, aveva un vago accenno di baffi, occhi azzurro quasi grigio e un viso gentile, indossava una veste gialla attillata, che lasciava il collo e una buona parte del petto scoperti, aveva intarsi in oro sui bordi dei pantaloni che salivano fin su e continuavano sulla maglia. Portava parecchi orecchini sull’orecchio destro in oro e argento. A sinistra ne portava uno solo che consisteva in un particolare lavoro di una pantera e un aquila che cercano di mordersi le code a vicenda, avvolgendosi così uno sull’altro, fatto sicuramente da un abilissimo artigiano nanico molto tempo addietro, il gioiello terminava con una sfera di diamante, anch’essa opera di nani. Quell'uomo era Neralon.

    Nel trono a destra sedeva un donna già in là con gli anni ma la magia le aveva reso il volto ancora giovane. Vestiva con un elegante abito viola scuro, e una sottoveste color porpora. Anche lei aveva linee d’oro che si intrecciavano elegantemente sul vestito, i capelli anch’essi viola spento erano intrecciati sulla testa da filamenti d’argento. Lei aveva un'aria diversa, nei suoi occhi si leggevano note di cupa malinconia, di un passato tormentato, che tramutava con un espressione quasi di disgusto verso il nuovo arrivato. Era sicuramente Fellandia. Al centro sedeva il più anziano, nonostante fosse un mago aveva il fisico da guerriero, era assai alto e vigoroso, i suoi piccoli occhi neri parevano essere gli unici veramente interessati ad Helkas. Dai capelli bianchi partivano basette lunghe e folte, ben curate. Era il meno elegante dei tre, e indossava un'unica veste rossa e gialla. Come ornamento portava solo un grosso anello al dito con inciso il simbolo della magia, una stella a sei punte, e al termine di ogni raggio il simbolo di ogni elemento raffigurato con diverse pietre preziose. Fu il primo a parlare.

    «Fatti avanti Helkas, non essere timido. Dicci, cosa ti spinge a diventare un mago?»

    Helkas rispose prontamente: «Il desiderio di conoscenza e di sapere, poter controllare un elemento per aiutare il nostro Impero, e combattere per il nostro grande Imperatore Taravos, per poter costruire un futut….»

    «Così dicono tutti… Mi piacerebbe sentire qualcosa di nuovo» lo interruppe bruscamente il Maestro. «Qualche motivazione diversa dalla solita cantilena, che vi insegnano alla scuola, cosa veramente ti spinge a diventare un mago? A cosa aspiri?»

    Helkas rimase interdetto. Allora non era una semplice formalità. Non ci aveva mai pensato seriamente in effetti, perché voleva fare il mago? Lui si era ritrovato un giorno catapultato in quella realtà senza che la potesse capire e l'aveva accettata come il suo destino. Ma lui cosa voleva veramente? Forse poter partecipare ad azioni militari e portare a casa qualche soldo? No, sicuramente non era questo il motivo. «Desidero ampliare le mie conoscenze, non è molto stimolante la vita da contadino, voglio viaggiare, scoprire popoli nuovi e apprendere culture». Sì, può andare bene come risposta.

    «E hai bisogno di essere un mago? Prendi le tue cose e parti allora» disse asciutto il Maestro.

    «Mi affascina la conoscenza della magia, con la magia si possono comprendere misteri ancora più grandi…»

    «Non sempre può essere opportuno conoscere, la conoscenza può essere usata in modo sbagliato» lo fermò nuovamente il Maestro, «La magia non può essere data in mano a degli stolti. La magia non può e non deve essere presa sottogamba. Ricordati che il potere che hai ricevuto può essere per te fatale, ti è stata data una conoscenza che solo pochi sanno controllare».

    Prese la parola il più giovane dei Maestri. «Per tutte le donne di Kendar, Alanthor! Così perderemo sicuramente un mago di ottimo valore, lascia respirare il ragazzo» rivolse ad Helkas uno sguardo di intesa e gli strizzò l’occhio, «Io l’ho visto in azione» riprese poi, «È abile, e sa usare già con destrezza il vento».

    «Chi mi assicura di quello che diventerà? Tu? Ti devo rammentare come sei entrato qui?»

    «Stai oltrepassando il segno» sottolineò pacata la donna. «Lo hai visto anche tu che è un ragazzo capace, che non si lascia travolgere dalle emozioni, sii più disponibile, così gli tarpi le ali».

    Helkas la ringraziò con un cenno del capo, ma lei non lo degnò di uno sguardo. Alanthor sembrò non sentirla nemmeno. «Dimmi Helkas, cos’è la Magia?».

    Ci fu una pausa in cui i due si guardarono negli occhi, poi Helkas non riuscì più a sostenere il suo sguardo, e abbassò il capo. « Magia è Arte, Arte non è per gli spettatori, non è riservata per la folla, non può essere comprata dal pubblico. Arte è per i soli, per i costruttori, i creatori, i viaggiatori, i modellatori. Arte è un momento che rimane, non muore assieme ai giorni, non sbiadisce con gli anni. Arte è un solo istante, isolato dal mondo, ma Arte è Eternità. La Magia è Arte e come tale deve essere vissuta, non dobbiamo provare a piegarla a noi stessi, più ci proveremo più essa si allontanerà da noi. Noi dobbiamo adattarci a lei, dobbiamo cambiare noi stessi, ricreandoci e modellandoci. La Magia va capita, va vissuta, le nostre azioni devono permeare Magia. La Magia è Arte, Arte è esistenza. E’ un segno nella memoria e nel cuore. E’ un segno sulla terra e nell’aria, sulla materia e nell’astratto. Un segno di noi sulla memoria e nella storia».

    «Mi pare identico a I vari volti dell'Arte, un libro dello strampalato nano Eltambarass» osservò annoiato Neralon.

    L’espressione di Alanthor non cambiò, fissò attentamente il ragazzo, e questa volta Helkas sostenne il suo sguardo. Poi disse: «Tutte cose sagge, a parte una, se non vuoi piegare a te la Magia non diverrai nulla, se sarà lei a plasmarti diverrai presto un eremita solitario mezzo pazzo, come quel nano. Tu devi essere più dei tuoi poteri, o saranno loro a comandare te», fece una piccola pausa, poi riprese: «Non posso acconsentire alla tua nomina di mago se prima non sono sicuro della tua forza d’animo. Voglio vedere se sarai in grado di non venire sopraffatto da te stesso, devi resistere alla tua mente. Per questo, occorre che tu ti sottoponga a una verifica, un esame se così ti piace chiamarlo».

    Helkas lo fissò perplesso. «Non mi hanno parlato di un esame».

    «No, non l’hanno fatto».

    Il più giovane dei tre maestri scosse la testa. «Alanthor, fin ora lo hai sperimentato solo sui kuagar, non puoi sapere che effetti avrà sul ragazzo…»

    «Scopriamolo assieme dunque» esordì Alanthor soddisfatto, «Mi sembra una cosa fattibile, o forse preferisci rinunciare ragazzo?».

    Tutto a un tratto Helkas si sentì pervadere da brividi freddi. Aveva improvvisamente paura, pochi minuti prima pensava che sarebbe stata diversa quella conversazione, e se in realtà non lo avessero ritenuto idoneo a diventare un mago? E se avessero già da tempo deciso il suo destino e questo fosse soltanto un tranello per estirpare direttamente la magia da lui? Come sarebbe stato poi, non sentire pià come prima? Era questo ciò che accadeva; vuoto dove prima c'era qualcosa. Si impose di passare la prova, qualunque cosa richiedesse. Fissò il viso superiore di Alanthor, evidentemente non stava troppo simpatico al Grande Maestro. «D’accordo, di che si tratta?»

    Il Grande Maestro schioccò le labbra. «È una magia sviluppata da me per capire se sei più forte dei tuoi sentimenti, voglio essere certo che in caso di forti emozioni tu sia in grado di rimanere lucido, se così non sarà provvederò personalmente ad estirpare ogni singolo flusso di magia che scorre nella tua anima».

    Helkas lo guardò preoccupato. «Fa male?»

    «Molto, fa molto male, perché andrò a cercare nei meandri più profondi della tua mente, ma, una volta finito, avrai solo un leggero mal di testa. Possiamo iniziare?». Helkas acconsentì preoccupato con un lieve cenno del capo. «Bene. L’unica cosa che devi fare è rilassarti e aprirmi la mente».

    Come se fosse facile rilassarsi quando qualcuno vuole entrarti nella mente. Cominciarono a venirgli in mente i pensieri più bizzarri. E se fosse impazzito e avesse attaccato i maestri? Aveva ascoltato più volte storie di maghi che non erano riusciti a reggere la forza del loro animo. Non si fidava di Alanthor, se non fosse riuscito a sopportare il dolore? Forse la sua testa sarebbe esplosa imbrattando le pareti.

    Helkas deglutì, e si impose di stare calmo, guardò gli altri due maghi in sala, in cerca di qualunque sostegno morale, ma nulla. La donna osservava quasi divertita la scena. Il tizio a sinistra si mordicchiava distrattamente un dito. Helkas chiuse gli occhi: all’Accademia gli avevano insegnato che si poteva liberare la mente solo per pochi attimi, meno di un secondo, bastava pensare a una cosa bella, qualunque, che però fosse già in proprio possesso, e che nel gioire di essa non ci fossero ostacoli di alcun genere. Lui pensava sempre alla sua famiglia, a suo padre a sua madre, e alle sue due sorelle. Ripassò mentalmente i nomi della sua famiglia, si concentrò… D’un tratto smise di pensare, poi quel sentimento di vuoto, diversamente dal solito, non finì subito. Provò ad aprire gli occhi ma invano. Non si sentiva più nessuno, non poteva muoversi, non sentiva il suo corpo, non provava sentimenti reali, poi al centro del suo campo visivo apparve un puntino luminoso, che cominciò ad espandersi, sempre più velocemente fino a esplodere e sentì un dolore indescrivibile. L’unica cosa che poteva fare era agonizzare, era l’unica cosa certa, non seppe dire quanto durò se furono attimi o un eternità, ma finì. Si ritrovò nella stanza di prima caduto a terra, aveva la vista annebbiata, percepiva una morsa alla testa, ma lieve, delle sensazioni di prima nessuna traccia. Alanthor comparve nel suo campo visivo. E si accovacciò davanti a lui sorridendo soddisfatto e tendendogli una mano. «Pare che abbiamo un nuovo mago».

    Helkas gioì dentro di sé, ce l’aveva fatta.

    Di ciò che loro chiamarono Grande Tradimento

    Fu il tempo della 169° Donazione Divina del Ventiduesimo Ciclo di Donazioni Divine.

    Una parte di noi elfi voleva stringere un’alleanza con gli uomini, qualcosa di nuovo, di unico, per dimenticare i vecchi odi.

    Gli altri elfi non capivano, potevamo unirci agli uomini, potevamo crescere, prosperare, divenire un popolo potente, controllare i mari dell’ovest, commerciare con gli altri paesi al di là dei Turanti, diventare qualcosa di più di una semplice razza in declino, potevamo unirci.

    Non importavano le nostre differenze, pensavamo, ma forse ci sbagliavamo.

    Il nostro popolo si divise in due, fummo esiliati, cacciati dalla nostra terra natia per le nostre idee. Unirci agli uomini? I figli nati dall’unione degli elfi con i nani, coloro che ci avevano esiliati? Pazzia! Rinnegare ciò che eravamo stati, rinnegare la nostra anima di vagabondi ancora una volta? Erano stati gli uomini a porre dei confini, a delimitare le terre dicendo Questo è mio, quello è tuo.

    Ma noi tentammo lo stesso, eravamo stolti, e pieni di amore da regalare. Ci spargemmo per i territori umani, scambiammo con loro le nostre conoscenze, insegnammo loro nuovamente la magia come avevamo fatto quando ancora li chiamavamo Figli. E loro ci insegnarono le grandi opere di edilizia, ci insegnarono come scegliere i tipi di terreno su cui costruire e come lavorare i materiali da utilizzare. Ci insegnarono nuovamente come si ergevano le grandi città, ci insegnarono come poter tranquillamente appoggiare il fondoschiena su un pezzo di terra e dire che apparteneva a noi. Certo non saremmo stati in grado di eguagliare le città mobili costruite dai nostri avi ai tempi della Gloria dei Venti, e le città umane non parevano che miseri villaggi in confronto a quelle città sacre, ma era comunque un passo avanti. Saremmo potuti diventare una civiltà prospera.

    Nel tempo in cui ci unimmo agli umani, nel loro regno era nata una lotta per il potere tra i sostenitori del regno diviso in grandi feudi governati dai re e i seguaci

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