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Festa al trullo
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Festa al trullo

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Chiara Laera, famosissima influencer nel campo della moda, sta preparando l’evento di punta dell’estate: una grande festa per il lancio del marchio ciceri&tria di Vanni Loperfido. Il brand, ispirato a un piatto tipico della cucina salentina, dà il tema alla serata che si svolgerà nella sua proprietà in valle d’Itria.
Per avere il massimo risalto mediatico, decide di allestire un set felliniano 2.0, chiedendo alla gente del posto di interpretare se stessa. L’obiettivo è rendere veritiera e originale la messa in scena di tradizioni millenarie, uno spettacolo unico per i tantissimi invitati. Ma non tutto fila liscio. C’è chi, in questa terra, non sopporta l’invasione dei portatori di nuovi costumi, anche di genere, a tal punto da vedere minacciato il proprio ecosistema esistenziale.
A fare da sfondo alla serata, una distesa di meravigliosi ulivi secolari minacciati da un killer silenzioso: la Xylella.
LanguageItaliano
Release dateDec 15, 2018
ISBN9788894990560
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    Festa al trullo - Chicca Maralfa

    Sommario

    La festa

    I

    II

    III

    C-Trullo

    IV

    V

    Il backstage della festa

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    La festa / Parte 2

    XIII

    XIV

    XV

    XVI

    XVII

    XVIII

    XIX

    XX

    XXI

    XXII

    XXIII

    XXIV

    XXV

    Ciceri&tria

    La ricetta di Memena

    Note

    Ringraziamenti

    Chicca Maralfa

    © 2018 Les Flâneurs Edizioni di Alessio Rega

    Isbn: 978-88-94990-56-0

    www.lesflaneursedizioni.it

    info@lesflaneursedizioni.it

    Editing: Sara Saffi

    Illustrazione di copertina: Giuseppe Inciardi

    Chicca Maralfa

    Festa al trullo

    Les Flâneurs Edizioni

    «Lo uccisi in sogno, poi non potei fare altro

    che sopprimerlo sul serio. Inevitabilmente».

    Mark Aub, Delitti esemplari

    A Luciana.

    Te ne parlai e mi sorridesti

    La festa

    I

    Ostuni, Contrada Pascarosa

    Sera

    Sulle pareti della piscina, le tessere del mosaico, assemblate a regola d’arte, componevano la scritta tinta su tinta Style is a state of mind. Lo stile come stato mentale, un paradigma assoluto per la padrona di casa.

    Il colpo d’occhio finale era un ventaglio di sfumature blu, come quello delle spolette tipografiche. Tanti colori assieme, in quell’angolo di proprietà, per tratteggiare un’idea di giorno che non doveva mai farsi notte. Ma solo lì. Altrove regnavano festose tenebre.

    La luce dei faretti rimbalzava da una parte all’altra, come la pallina di un flipper. L’intermittenza subacquea intercettava gli sbuffi dell’idromassaggio che qualcuno aveva dimenticato di spegnere. Una leggera corrente sembrava declinare la vita all’infinito. Non solo quella notte: erano così tutte le notti in cui si faceva festa al trullo di Chiara.

    Un’enorme poltrona gonfiabile scivolava sull’acqua, cullando un uomo sulla cinquantina, in bermuda a righini azzurri e camicia bianca. Era Sante D’Elia, architetto e grande amico di Chiara. Il suo studio di Milano si era occupato della ristrutturazione della proprietà. Sul volto, coperto in parte dai capelli ricci, un paio di occhiali scuri, rotondi. Aveva un atteggiamento rilassato, la testa poggiata sull’omero destro e le braccia penzoloni. Una cannuccia nera da cocktail galleggiava a qualche metro da lui.

    Dal bordo della piscina, Lorenzo osservava la scena. Se fosse stato un cane si sarebbe tuffato per raggiungerla. Ma Lorenzo era un gatto, un soriano rossiccio.

    Tutt’intorno, chianche, prato inglese, palme dai tronchi sottili, tappeti di iuta, maxi cuscini color crema piazzati su pallet dipinti di bianco, tavolini con il piano di vetro, lanterne di zinco con all’interno ceri bianchi poggiati su un letto di sale. Grandi ombrelloni, anch’essi bianchi, sorretti da larghi bracci di legno, ondeggiavano alla leggera brezza. Era tutto quello che restava dopo tre giorni di maestrale. Piccole casse acustiche, nascoste nei vasi dei gerani, trasmettevano a volume altissimo Can’t stop dei Red Hot Chili Peppers, nel suo crescendo dannato.

    A un centinaio di metri dalla piscina la casa padronale, splendida nonostante il rosso pompeiano sbiadito, fungeva da fondale alla festa. La corte semicircolare era stata adibita a pista da ballo. Uomini e donne si muovevano seguendo il ritmo concitato della musica. Erano più di trecento e riempivano anche buona parte del viale alberato. Corpi e suoni si mischiavano fino a perdere i contorni, trasformandosi in ombre indefinite e rumori che scivolavano e rimbalzavano sulla facciata principale.

    Sul balconcino, Chiara, con la testa cinta da una corona di fiori di gelsomino, osservava la scena. I capelli biondi, lunghi e dritti, le coprivano le spalle. Sul viso spiccavano gli occhi azzurri, sempre sorridenti. Vista dal basso appariva più slanciata del solito. Era la raffigurazione coerente di se stessa, di quanto, in mezzo secolo di vita, aveva sempre desiderato e ottenuto, inseguendo la perfezione estetica: incarnare lo stile. Ai suoi lati le bellissime Rosalinda e Anita, come due apici a rafforzare il concetto.

    Sul prospetto della casa, una ghirlanda di luminarie da festa patronale incorniciava le tre donne. Parevano fuggite da un quadro che nessuno avesse ancora dipinto. Chiara, che faceva più luce delle piccole lampadine, sfoggiava un gonnellone bianco di sangallo. Sembrava una principessa di un’epoca indefinita o la contadina sciantosa di un’operetta. Il corpetto color crema le fasciava il busto, cui mancava il conforto di un seno prosperoso. Gli omeri nudi, prima che le maniche si gonfiassero sull’avambraccio, testimoniavano la meticolosa frequentazione di un personal trainer. Così come il quadricipite destro, ben visibile dalla gonna sollevata e arricciata sul fianco. Ai piedi, sandali da centurione romano; stringhe sul fondoschiena e sulle caviglie.

    Con altrettanta cura si erano agghindate Anita e Rosalinda. Entrambe sfoggiavano una coroncina di rametti d’ulivo. Tuniche bianche di tela indiana crespa e sottile, con greche rosse e nere sulle maniche a palloncino, vestivano i loro corpi, così come le fusciacche di stoffa damascata, citazione gitana di pizzica salentina, facevano con i fianchi.

    Anita stringeva fra le mani un sacchetto di tela, Rosalinda un’asta alla cui estremità era fissato un iPhone che scattava selfie sequenziali.

    «Da qui il colpo d’occhio è pazzesco» osservò Chiara.

    «È vero, Ciky ha fatto proprio un lavoro perfetto» disse Anita. «Non avrei scommesso un euro. Tu insistevi perché fosse lui a curare la produzione e avevi i tuoi buoni motivi».

    Dietro di loro, un ragazzo riprendeva tutto con una telecamera. Un altro pubblicava in tempo reale le immagini sul profilo Instagram di Chiara, condivise in simultanea sul suo blog. Sul terrazzo, un uomo e una donna in costume a tema campestre, filmavano la festa dall’alto. Ogni tanto un drone sfiorava le teste danzanti, offrendo alla regia la panoramica aerea di uno spettacolo elettrizzante.

    Sul web, l’hashtag ciceri&tria era la corsia unica su cui si misurava in diretta il desiderio d’inventiva degli ospiti: pensieri creativi, fesserie fantasmagoriche, qualsiasi cosa pur di lasciare traccia. Gli amici della rete, in ogni pertugio del globo terrestre, facevano altrettanto e un grande schermo piazzato in alto, alle spalle dell’angolo bar, mandava in onda il tutto in dissolvenza sulla musica. La festa era trasmessa live via Periscope.

    «Entriamo un attimo, il volume è troppo alto e non si capisce niente» disse Chiara.

    «Sembra di essere sul set di un film» commentò Anita, seguendola nel salone vuoto, riempito all’improvviso dalle loro sagome scultoree.

    Rosalinda, catturata dalla musica, rimase sul balconcino, continuando a ballare da sola e a fare foto.

    «Ciky si è rivelato una sorpresa» continuò Chiara. «Come producer ha una gran voglia di fare e soprattutto di emergere. Non ha cultura ma ha intuito e un’ottima visione d’insieme. E, soprattutto, con lui si entra facilmente in sintonia».

    «Non solo ha fatto quello che gli hai chiesto, ha anche saputo dare a tutto un’ottima interpretazione. Contesti, ambientazioni, oggetti, artigiani… nulla stride, tutto è in linea con le vostre tradizioni».

    Chiara, con l’aria soddisfatta, si guardava attorno incredula. Non riusciva a capacitarsi del risultato raggiunto. Tanto da non poter contenere lo stupore, che le dipingeva sul volto un’espressione estatica.

    «Eppure tutto mi sembra nuovo, diverso» osservò. «Forse sono andata via di qui troppo presto. Ma non troppo tardi per riscrivere una storia. Abbiamo aperto un nuovo capitolo in Puglia. Vedrai, se ne leggeranno di belle».

    Anita, che si era distratta a guardare in direzione del balconcino, si girò di nuovo verso di lei.

    «Cosa? Scusa, non ho capito bene».

    «Ho detto che stiamo riscrivendo la storia di questa terra. Un futuro possibile che non sia rimpianto e nostalgia, come l’espressione che vedo stampata sui volti di Nennella e Memena. Anzi, cominciamo subito. Facciamoci un selfie con loro sul divanetto Thonet, diamo un segnale forte nel web, raccontiamo il passaggio di testimone fra loro e noi» disse Chiara, trascinando Anita verso le addette ai bagni della casa padronale. Le due, completamente fuori contesto, avevano l’aria delle comparse di un film e neanche troppo convinte della loro parte. Erano ciò che interpretavano e questa cosa doveva metterle a disagio. Ma, siccome era Chiara a comandare, non si opposero allo scatto. D’altronde la padrona di casa sapeva il fatto suo. «I media daranno ampio risalto a tutto. La festa è l’incipit, il resto verrà da solo».

    Rosalinda si voltò di nuovo verso di loro e fece un cenno per invitarle a tornare sul balconcino e godersi la musica che scuoteva l’aria. Ma, soprattutto, lo spettacolo nella corte. Il dj stava mixando i Red Hot Chili Peppers con She drives me crazy cantata dagli Elvy. Sul ritornello tutti alzavano le braccia. Chiara avvertì un richiamo irresistibile e uscì di nuovo con Anita, urlando: «Like no one else, she drives me crazy and I can’t help myself».

    Dietro il carrubo s’intravedevano i trulli a sei coni che in passato erano serviti come depositi di attrezzi agricoli e, talvolta, come ricovero notturno degli animali. Chiara li aveva messi a nuovo per farne la sua dimora estiva, preferendoli alla grande casa padronale. L’ultimo trullo, in prospettiva, tagliava in due una luna araba e il cielo definiva con precisione i contorni dei pinnacoli. La stessa precisione che aveva mosso un secolo prima la mano dei mastri trullari: costruire strati di pietre ben sovrapposte per contenere le spinte orizzontali della cupola.

    All’epoca nessuno avrebbe immaginato che le spinte, lì sotto, sarebbero diventate altre: verticali, forti, continue e ritmate. Quelle che Doriano, con i calzoni di lino calati alle ginocchia, stava dando a Michele. Si erano appena conosciuti. Uno di Roma, amministratore delegato di una multinazionale farmaceutica svizzera, l’altro di Polignano a Mare, titolare di un centro scommesse. Si erano nascosti senza particolare impegno dietro il forno a legna, a due passi dall’agrumeto. Cosa i due avessero in comune, visto il buio pesto, era al momento solo una sequela di mugolii di piacere.

    «La Grande Bellezza ce fa un baffo. Fra noi, il gatto e quello che canta Can’t stop, Can’t stop, semo meio der cinema» disse Doriano, spostandosi con Michele per dare meno nell’occhio. Sfruttavano la quinta del pozzo in pietra, che li copriva dalla cintola in giù. Formavano una delle tante coppie estemporanee che si erano costituite quella sera, dopo uno scambio di sguardi e qualche parola per accompagnare un drink. Poco alla volta, avevano iniziato ad allontanarsi dalla pista da ballo, fino a isolarsi. Sorrisi, ammiccamenti, un abbraccio e poi il bacio passionale di poco prima. Quando la situazione era diventata ingestibile, erano andati a infrattarsi dietro i trulli.

    The world I love, the tears I drop

    to be part of the wave, can’t stop.

    La voce di Anthony Kiedis non riusciva a coprire il loro ansimare. Si era unito anche Lorenzo che, attirato da quel verso ancestrale, li aveva raggiunti e miagolava con loro. Un’unica melassa di istinti animali e di emergenti costumi umani echeggiava quella sera in una contrada dell’alto Salento.

    II

    Chiara Laera, padrona di casa e mammasantissima della moda internazionale. In gioventù, modella famosa e ben pagata. Ormai da più di un decennio, fashion blogger e stylist editor di rilevanza globale. Tutto ciò che lei pensava, scriveva e postava sull’argomento, era l’equivalente del Verbo.

    La sua longa manus muoveva un ingranaggio a incastro perfetto, fatto di articoli, foto-racconti, servizi fotografici, sfilate, cocktail party, brunch, happy hour, aftershow, tweet, foto su Instagram, Tumblr e post su Facebook. Chiara decideva chi dovesse salire in alto nella classifica e chi precipitare in basso. Ventiquattr’ore al giorno, tenendo conto dei fusi orari dei vari Paesi, a copertura totale.

    I suoi augustali in Valle d’Itria duravano dieci giorni, condensati in altrettante interminabili notti. In contrada Pascarosa, mattine e pomeriggi erano pagine bianche, messe lì a fare da ponte fra una notte e l’altra. Perché tutto doveva avvenire quando calava il buio e i contorni delle esistenze si facevano meno definiti, come quelli delle coscienze individuali. Da quel momento in poi, un io collettivo, la tribù di Chiara, ridisegnava lo spazio dei luoghi. E si faceva regola di stile, comandamento da 140 caratteri. Perché non c’era nulla di lei, della sua corte di miracolati e del loro eccentrico nomadismo, che non dovesse finire nelle fauci insaziabili dei social.

    Non si poteva dire che Chiara fosse bella, ma il suo fascino scenico, la fotogenia e una personalità forte ne facevano una donna di grande appeal. A imporsi sul volto lentigginoso erano gli occhi, che parevano due tessere saltate dal mosaico della piscina.

    Anni e anni di lavoro l’avevano resa l’icona di se stessa, una santa laica immolata sull’altare dello stile che, come lei insegnava, non poteva che essere uno stato mentale. Gli stilisti la rincorrevano ovunque per mandarle in anteprima i capi più belli delle collezioni, affinché lei li indossasse in occasione di feste ed eventi mondani, per strada o semplicemente nel salotto di casa. Purché tutto fosse documentato e pubblicato sulle sue pagine social,

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