Arie da concerto
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Arie da concerto - Alberto Raimondi
Venturi)
ARIA DI CASA
L’albero di ciliegie era lì, al limite dell’orto che si estendeva in lieve pendio dal selciato rettangolare del cortile condominiale giù giù fino alla roggia Molina.
Per arrivarci bisognava scendere attraverso una scaletta in pietra di alcuni gradini, percorrere pochi metri del declinante sentiero e svoltare subito a sinistra per una pròsa a cui si accedeva dopo aver aggirato un cespuglio multicolore che avevamo imparato a chiamare pirus.
Fino a primavera inoltrata i suoi rami si rivestivano di un ricco manto di fiori rosa con venature bianche e quindi si caricavano di piccoli e teneri frutti dalle varie tonalità di rosso, che in verità più che ciliegie erano amarene, da noi semplicemente denominate marene.
La loro polpa era asprigna e amarognola e non soddisfaceva troppo lingua e palato, tanto più che la nostra impazienza d’impossessarci anzitempo, con infantili ruberie, di quelle brusche sferule sanguigne, impediva loro di raggiungere la giusta maturazione secondo legge di natura.
Il libero godimento di quel ben di Dio, poi, ci era contrastato dai numerosi uccelli – merli, passeri e storni - che a frotte e con rapidi voli si posavano fra il fitto del fogliame per sbocconcellare coi loro beccucci i morbidi frutti, ma soprattutto dall’ortolano Filippo, un burbero vecchio dalle mani grosse e nodose, che spesso brandiva un bastone destinato a dissuadere i malintenzionati dai piccoli e grandi furti che continuamente lo affliggevano.
Per evitare di essere sorpresi con le mani nel sacco, ponevamo a turno di guardia sul sentiero uno di noi che, all’arrivo di Filippo, doveva lanciare un fischio di avvertimento per darci modo di scendere rapidamente dai rami e di nasconderci, acquattati dietro una siepe lì vicina.
Attorno alla pianta, richiamati dallo stillicidio dei succhi dolciastri, ronzavano continuamente vespe ed altri insetti, mentre sciami di moscerini turbinavano un po’ ovunque intorbidando l’aria stagnante nella prima calura estiva.
Qualche volta, di sera, dopo una giornata passata a percorrere in bicicletta un infinito numero di giri lungo il perimetro del cortile o a giocare combattute ed estenuanti sfide al pallone, era un piacere abbandonarci sudati sotto i rami dell’albero delle marene ed attendere di vedere, attraverso il mobile tremolio delle foglie, macchie di cielo mutare colore dal puro azzurro, al dorato, al porpora, fino al blu intenso della notte che cominciava allora a pulsare per il bagliore delle prime stelle.
Le vivide luci che sprigionavano il loro chiarore da quelle lontananze siderali e da punti così remoti dell’universo ci riempivano l’animo di stupore e di mistero: chissà se davvero le anime dei nostri morti, dopo aver attraversato le infinite distese dello spazio, sospinte da una specie di vento rigeneratore, trovavano lì la loro nuova ed eterna dimora?
Qualcuno invece diceva che esse finivano nel minuscolo corpo delle lucciole, come quelle che al di qua della Molina tracciavano tra la verdura i loro tenui e intermittenti segnali luminosi, ma i più si rifiutavano di credere