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Lezioni d'amore per principianti
Lezioni d'amore per principianti
Lezioni d'amore per principianti
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Lezioni d'amore per principianti

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About this ebook

Come ho fatto a credere di poter acconsentire con tanta leggerezza a una tale insensata richiesta?

È quello che si chiederebbe chiunque, non solo Massimo, se un’amica d’infanzia, di colpo riapparsa dal passato, lo supplicasse di insegnargli tutto quello che c’è da sapere sul sesso e lui si fosse fatto convincere ad accettare.
Quale potrà mai essere il motivo dell’insolita richiesta di Amalia?
Be', tanto per cominciare, la ragazza è inesperta e teme di non essere all'altezza di Alessio, quel figo pazzesco di cui si è innamorata a prima vista, talmente bello e sicuro di sé da metterla in soggezione ma che spera, grazie alle lezioni di Massimo, di riuscire a conquistare.
Cosa accadrebbe se invece, lezione dopo lezione, Massimo si accorgesse che non sta soltanto trasmettendo delle semplici nozioni di anatomia e dintorni, ma è subentrato ben altro? Qualcosa che l’orgoglio gli impone di non svelare?
L’ambientazione torinese da Libro Cuore, le poesie di Guido Gozzano, le citazioni di Cesare Pavese e dei Subosnica fanno da sfondo a un romanzo ironico e romantico, sensuale ed erotico che rispecchia perfettamente lo stile dell’autrice.

Della stessa autrice:
Una casa per due
Sposa per vendetta
Maledetta gelosia
Tutto quel che accade ha un senso
Come i baci e le ciliegie
Baci, sabbia e stelle – HarperCollin Italia
Nella rete di Shakespeare – HarperCollin Italia
Un caffè con Raffaello – HarperCollin Italia
Non credo al lieto fine – Dri Editore
Ricordo di un’estate – Oligo editore (solo cartaceo, in digitale da giugno 2023)
Matrimonio d'onore
Marimonio d'interesse
LanguageItaliano
Release dateJan 15, 2019
ISBN9788829592616
Lezioni d'amore per principianti

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    Lezioni d'amore per principianti - Marilena Boccola

    PROLOGO

    Inizi di marzo 2007

    Lei

    «Prego, signora, si accomodi. Il dottor Ferrero la riceverà a breve.»

    Amalia si sedette su una delle poltroncine blu addossate alla parete della sala d’aspetto, attirando la figlia tra le proprie braccia. Anche se aveva ormai dieci anni, la bambina le si accoccolò sulle ginocchia lasciandosi accarezzare docilmente i capelli ricci e folti.

    «Tesoro, come scotti!» osservò, sfiorandole la fronte con le labbra. Aveva telefonato allo studio pediatrico per fissare una visita urgente appena si era accorta che la piccola aveva la febbre, senza che si fossero manifestati altri sintomi evidenti.

    «Non posso far altro che aggiungerla in coda alle 19.00 - oggi è tutto pieno - ma l’avverto che la dottoressa Di Camillo questa settimana viene sostituita dal dottor Ferrero.»

    «Non importa, d’accordo. Veniamo per le sette, grazie» aveva concluso la breve telefonata.

    Se fosse stata in forma, sicuramente Carlotta si sarebbe accucciata nell’angolo appositamente allestito per i bambini, che in quel momento appariva solitario e abbandonato e avrebbe senz’altro sfogliato i libretti dalle copertine accattivanti messi a disposizione dei piccoli pazienti, magari perdendosi nella lettura di qualche racconto adatto alla sua età, fino al momento di entrare dal pediatra.

    Quella sera, invece, si era abbandonata inerme all’abbraccio della mamma, ignara del fatto che lei la stesse osservando preoccupata, soffermandosi sulle palpebre socchiuse della sua creatura venate d’azzurro e sul lieve rossore che le imporporava le guance, intenzionata a decifrare ogni strano segnale che potesse rivelarle il motivo di quella febbre improvvisa.

    È proprio vero che i figli sono viscere delle nostre viscere, stava pensando la giovane donna. Li abbiamo nutriti con la nostra carne e il nostro sangue; per una madre nessuno al mondo può essere più importante di un figlio, aggiunse tra sé, cercando di tenere a bada l’apprensione che le afferrava le budella ogni volta che accadeva a Carlotta qualcosa che non si sapeva spiegare razionalmente. Forse, se avesse avuto un uomo accanto sarebbe stato diverso? Non avrebbe saputo dirlo.

    L’orologio appeso alla parete indicava senza ombra di dubbio un ritardo di quasi venti minuti sull’orario fissato, ma poiché era stata aggiunta all’ultimo momento, non poteva nemmeno lamentarsi con la segretaria. Tra l’altro, la signora, che dall’aspetto doveva essere pressappoco sulla soglia della pensione, stava già spegnendo il computer riponendo ordinatamente le proprie cose nel cassetto della scrivania, chiaramente intenzionata ad andarsene a breve.

    «Il dottore è molto accurato, per questo impiega un po’ più tempo…» la rassicurò, indossando il soprabito appeso all’ingresso e apprestandosi a uscire. «Vedrà che fra poco toccherà a voi.»

    «Mia figlia ha la febbre alta, non potrebbe sollecitarlo, per favore?» chiese, angosciata. Aveva cresciuto Carlotta da sola facendo sia la parte della madre che quella del padre talvolta, ma da quando in tenera età la piccola aveva avuto le convulsioni, il timore che quell’episodio si potesse ripetere ancora le paralizzava le gambe, amplificando la sua ansia tipicamente femminile.

    «Non si preoccupi, vedrà che non manca molto.» L’impiegata, doveva essere abituata a quel tipo di situazioni, perché non si lasciò intenerire dalla supplica accorata di Amalia e, dopo averle rivolto un sorriso di circostanza, si chiuse la porta alle spalle senza alcuna esitazione, lasciando che una folata d’aria fresca, già odorosa di primavera, invadesse la stanza.

    Passarono solo pochi istanti e dall’ambulatorio uscì una coppia di genitori di colore, ciascuno con un neonato in braccio.

    Ecco perché ci ha impiegato tanto, constatò. Sono due gemelli…

    «Adesso tocca a noi, mamma?»

    «Sì, tesoro. Come vedi, non c’è nessun altro» le sorrise, sforzandosi di apparire rassicurante mentre si apprestava ad alzarsi in piedi, non prima di essersi soffermata ad ammirare, compiaciuta, gli occhi di sua figlia. Erano così belli, il verde delle iridi reso più intenso dalla febbre: le sembrarono dipinti ad acquarello.

    Il dottore era di schiena rispetto a loro; stava finendo di dare gli ultimi consigli ai due giovani genitori con i minuscoli bambini in braccio, ormai placidamente addormentati. Amalia fremeva, impaziente di accedere al proprio turno, Carlotta abbandonata addosso a lei, sempre più debole.

    Nell’ulteriore attesa, le fu inevitabile indugiare con lo sguardo, forse per un momento più del dovuto, sulle spalle larghe dell’uomo alto in piedi davanti a lei. Quando poi i suoi occhi si posarono sulla massa di capelli castani e ricciuti che gli sfioravano il colletto del camice, una sensazione indecifrabile la invase, come se quella schiena le richiamasse alla memoria qualcosa di vagamente famigliare; lontani ricordi seppelliti sotto a strati e strati di polvere del tempo d’un tratto riemergevano fatalmente dal passato.

    Infine quando, dopo aver congedato la coppia, il dottore si voltò verso di loro, inquadrandole con due notevoli occhi smeraldo dietro alle lenti degli occhiali, Amalia sentì distintamente franare qualcosa dentro di sé. Come se la fortezza in cui si era rifugiata negli ultimi dieci anni si stesse di colpo sgretolando.

    LEZIONE N. 1

    Anno Accademico 1996/97

    Lui

    «Davvero, ti fidi di me fino a questo punto?»

    Amalia annuisce con decisione. Il suo sguardo è così fiducioso; sembra fatto apposta per farmi sentire ancor più in colpa, come se non bastasse già la voce insistente della mia coscienza sporca. Eppure, sono qui, indeciso sul da farsi.

    Mi soffermo per un momento a osservare la ragazza che mi sta di fronte: i suoi fitti capelli neri sono raccolti in una mezza coda che ne trattiene le morbide onde, non vi è cenno di trucco sul suo viso, le arcate sopraccigliari ben delineate conferiscono profondità ai suoi occhi limpidi. È proprio lì che si incagliano i miei, ora fissi nei suoi ostinatamente imploranti.

    Per un momento, la determinazione che credevo di avere vacilla. Sospiro, portandomi indietro i capelli in un gesto che di sicuro tradisce il mio nervosismo, ma di cui lei non pare accorgersi; solo la sua bella bocca carnosa ha un fremito nell’attesa.

    Come ho fatto a credere di poter acconsentire con tanta leggerezza a una tale insensata richiesta? Io e Amalia siamo stati amici fin dall’infanzia: l’ho vista crescere, ho provato nei suoi confronti un innato senso di protezione, l’ho consolata per le ginocchia sbucciate dopo le cadute in bicicletta, l’ho difesa dalle cattiverie dei bambini più grandi, ho asciugato le sue lacrime quando il suo gattino è finito sotto a una macchina e in mille altre situazioni...

    Quante volte ci siamo arrampicati sulla pianta di ciliegie in fondo all’orto dei nonni? Credo di averne perso il conto. Per mano siamo andati a scuola assieme, anno dopo anno, e abbiamo giocato per interi pomeriggi all’ombra, davanti al garage, indistintamente con bambole e macchinine. Eppure, non so nemmeno io come sia potuto accadere, ma ho accettato di impartirle le assurde lezioni che mi ha chiesto di darle.

    È evidente che Amalia si fida ciecamente di me, mi era chiaro anche prima di vederla muovere la testa su e giù con decisione. Glielo leggo negli occhi, mentre se ne sta ritta al mio cospetto nella fin troppo ingenua attesa di quello che dovrebbe venire dopo.

    Lei si fida e io ne approfitto. Bell’amico!

    Sento lo stomaco annodarsi su sé stesso e i palmi sudare; dovrei ascoltare i segnali che il mio corpo mi sta mandando, invece di temporeggiare in questo modo. Scuoto la testa, credendo di poter scacciare come mosche i pensieri molesti che mi stanno assalendo, i ricci mi scivolarono di nuovo davanti agli occhi e io li soffio subito via, infastidito.

    Perché Amalia continua a guardarmi con quell’espressione implorante, come se riponesse in me chissà quale assurda speranza?

    Sono solo un ragazzo imbottito di ormoni e istinti repressi nei lunghi anni passati chino sui libri, guidato dall’unico obiettivo di laurearmi in corso, come i miei genitori si aspettano che faccia.

    See, Leopardi!

    Chi è?, mi chiedo confuso, ma la voce di Amalia mi riporta a lei.

    «Massimo, lo sai che mi fido di te, sei stato il mio migliore amico, solo tu puoi aiutarmi…»

    Sospiro rumorosamente mentre le afferro una mano per farla sedere accanto a me, sul letto della stanzetta in cui abito già da cinque anni. Il materasso cede lievemente sotto al nostro peso, sollevando nell’aria un buon profumo di bucato, che si mischia all’odore invitante di gianduia che entra a ondate dalla finestra aperta sulla piazzetta qua sotto, in cui si affaccia un bar.

    Quasi non ho il coraggio di guardarla negli occhi, ma lei è qui, troppo vicina per far finta di niente. «Va bene, allora incominciamo» mi decido, infine. «Davvero non ti ha mai baciata nessuno? Hai vent’anni…»

    La vedo fare una smorfia che le arriccia le polpose labbra rosate e mi risulta ancora più difficile credere che nessuno le abbia mai sfiorate con le proprie.

    «Lo sai com’è fatto mio padre… dopo la morte della mamma mi ha tenuta prigioniera in una gabbia dorata e al momento di iscrivermi all’università mi ha mandata in un collegio di suore. Sono riuscita a venire da te solo perché oggi pomeriggio ho saltato le lezioni. Ho chiesto a un’amica di firmare la presenza al mio posto; spero che il docente non se ne accorga…»

    Inspiro profondamente, conscio del tremore alle mani e le stringo l’una nell’altra per bloccarle.

    «Direi che a questo punto dovremo partire proprio dall’ABC». Cerco di sorridere per nascondere l’imbarazzo e alzo di nuovo lo sguardo su di lei, scoprendo che non ha mai smesso di guardarmi, apparentemente tranquilla, come se si aspettasse la spiegazione di una formula matematica, anziché quella dell’alchimia dei baci.

    E non si tratta solo di teoria!

    Mi avvicino un po’ di più a lei, incerto. Di ragazze ne ho baciate in vita mia, considero, e non mi sono certo fermato lì, per quanto si sia trattato solo di esperienze fugaci alle quali ho sempre anteposto lo studio, ma ora l’odore di talco della sua pelle mi sale alle narici annullando ogni altro pensiero, se non quello dei ricordi che d’un tratto mi assalgono.

    Le innumerevoli immagini di me e Amalia che ridiamo a crepapelle facendoci il solletico si materializzano nella mia mente. Come spesso accade, gli odori sono scrigni di memoria. Sono passati più di dieci anni da allora, ma in questo momento Amalia è tornata a essere la tenera vicina di casa con cui ho condiviso le interminabili estati avventurose e i lunghi inverni della mia infanzia.

    «Come mi devo mettere?» La sua domanda mi riporta di nuovo al presente.

    «Eh?» La studio confuso.

    «Come mi devo mettere?» ripete. Non c’è nessuna malizia nel suo sguardo, come se davvero si trattasse di una qualunque lezione.

    «Stai sciolta, ci penso io» mi decido infine a risponderle, dopo un ultimo istante di esitazione. Così dicendo, faccio scorrere con lentezza le dita sotto ai suoi capelli, arrivando fin quasi a sfiorarle le orecchie.

    Mi sforzo di mostrarmi asettico; come un chirurgo in sala operatoria, soppeso ogni gesto, tentando di svuotarlo del significato che normalmente assume quando un uomo e una donna si sfiorano. Senza staccare gli occhi da quelli di Amalia, le stringo delicatamente le guance tenendo le mani a coppa attorno al suo viso.

    Mi avvicino e finalmente poso la bocca sulle sue labbra, scoprendone l’incredibile morbidezza; indugio per un momento, incerto se sia il caso di continuare, ma il suo respiro caldo e tranquillo mi rassicura.

    Lei si fida di me, mi dico per farmi coraggio, mentre faccio susseguire brevi baci a stampo che dovrebbero indurla ad aprire la bocca.

    Provo a forzarla dolcemente ma, quanto più cerco di penetrarla, tanto più le labbra di Amalia sembrano farsi sempre più dure e tese. Mi vedo costretto a riaprire gli occhi, che avevo istintivamente chiuso, e la colgo intenta a fissarmi.

    Ma che diavolo!, mi sfugge persino un’imprecazione soffocata. Che idiota sono stato! Lei non ne sa assolutamente nulla di baci alla francese, prima di iniziare avrei dovuto spiegarle come funzionano.

    «Devi chiudere gli occhi e aprire la bocca» le dico pazientemente, staccandomi da lei. Mi sforzo persino di mantenermi serio quando la vedo fissarmi stupita, ma probabilmente ha già notato il guizzo divertito che mi ha attraversato il volto, perché assume una sorta di broncio.

    «Non me l’hai detto!» mi accusa.

    «Scusami, hai ragione. Solitamente, quando due si baciano, prima avvicinano le bocche, dandosi dei piccoli baci che emettono lievi schiocchi, tipo i baci innocenti che ci si dà sulle guance, ma in un secondo momento si aprono le labbra e le rispettive lingue iniziano ad accarezzarsi». Amalia mi sta guardando inorridita. «Non dirmi che non lo sapevi» aggiungo.

    «Ma sì! Cioè… non proprio… Ho visto in qualche film gli attori baciarsi con le bocche incollate, ma pensavo finisse lì e infatti mi chiedevo cosa ci trovassero di tanto piacevole. In pratica, vuoi dire che ci si scambia la saliva?»

    «Certo che, detto così, fa perdere tutta la poesia…» protesto. Ormai ho abbassato le mani dal suo viso e ora la sto tenendo per gli avambracci. È strano parlare di queste cose in un modo tanto esplicito e stando così vicini, pronti a mettere nuovamente in pratica le istruzioni.

    «Meglio lavarsi per bene i denti ed evitare di mangiare aglio e cipolla…» sembra riflettere ad alta voce.

    «Decisamente! Comunque, non mi sembra il tuo problema» cerco di rincuorarla. «Sai di fragola…» mi sfugge.

    «Oh, grazie! Ho davvero bisogno di essere incoraggiata… Nemmeno il tuo, comunque» aggiunge.

    «Nemmeno il mio?»

    «Nemmeno il tuo problema» specifica, semplicemente. «Tu sai di menta.»

    È inevitabile che la sua osservazione mi faccia sentire intimamente compiaciuto. Ringalluzzito, le sorrido di nuovo. «Allora, possiamo continuare. Stavolta dovrai aprire la bocca e chiudere gli occhi».

    «Perché?»

    «Come, perché?» le chiedo, esasperato. «Vuoi o non vuoi imparare a baciare?»

    «Sì, ma perché bisogna chiudere gli occhi?»

    «Dovrebbe venirti istintivo. Così riesci a percepire meglio le sensazioni… »

    Evidentemente, le motivazioni che le fornisco non la convincono, perché Amalia continua a guardarmi perplessa.

    «Oh be’, senti… fai come ti pare!»

    «Va bene, va bene… non ti arrabbiare!»

    «Non mi sto arrabbiando però, se vuoi che ti insegni, devi attenerti alle mie indicazioni. Almeno fino a quando non diventerai abbastanza esperta e scoprirai un metodo tutto tuo».

    «D’accordo, maestro!» scherza.

    «Ricominciamo».

    Invece di essere io ad avvicinarmi, stavolta attiro lei verso di me. Le mani afferrate alle sue braccia,

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