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Il fumo sull'acqua
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Il fumo sull'acqua

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Nella notte del 2 agosto 1916, nella rada di Taranto, salta in aria, vittima di un sabotaggio, la corazzata della Marina italiana "Leonardo da Vinci" che affonda trascinando con sé 249 uomini dell'equipaggio. Il capitano dei Carabinieri Reali Vincenzo Martini, in convalescenza nella sua Livorno, indaga su alcuni omicidi che sembrano collegati al sabotaggio. Trame occulte del Vaticano, spie austriache, anarchici bombaroli, politici corrotti, donne affascinanti quanto misteriose trasformeranno questa indagine in un vero campo minato. Un Martini più maturo e ancora più disilluso continuerà a cercare, insieme alla verità, anche la propria identità. La Storia, che sembra fare solo da sfondo al racconto, ne diventa parte integrante, legando indissolubilmente i personaggi, che saranno inevitabilmente segnati dalla guerra.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJan 10, 2019
ISBN9788827864869
Il fumo sull'acqua

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    Il fumo sull'acqua - Andrea Ceradini

    Francesca

    I

    «Non si volta chi a stella è fiso»

    Motto della Regia Nave da Battaglia Leonardo da Vinci.

    Carmelina sedeva su una panchina nei Giardini di Villa Peripato e guardava il Mar Piccolo. Erano quasi le undici, piuttosto tardi per una ragazza sola, ma era una calda serata d'agosto, con tanta gente ancora per le strade e nonostante i lampioni fossero spenti per via dell'oscuramento, il cielo era chiaro anche se velato di nuvole. Non c'era vento e la rada di Taranto era nera come l'inchiostro, come scura era la sagoma dell'incrociatore ormeggiato alla banchina.

    Carmelina lasciò spaziare lo sguardo verso le grandi navi ancorate più al largo. Sei sagome grigie che si intravedevano appena. Erano le immense navi da battaglia, nerbo della flotta italiana. Riconobbe la prima, la Conte di Cavour, dove a riva pendeva, floscia in quella notte senza vento, l'insegna di Sua Altezza il Duca degli Abruzzi, Ammiraglio Comandante della Flotta: quante volte gliela aveva mostrata Amedeo? La seconda era la nave di Amedeo: la Leonardo da Vinci. Com'era orgoglioso di essere imbarcato su quella grande corazzata: quando ne parlava i suoi occhi si illuminavano come quelli di un bambino. Sì, a volte sembrava proprio un bambino.

    Alle dieci l'aveva accompagnato alla banchina dove le lance raccoglievano i marinai in libera uscita e li riportavano alle loro navi, poi s'era fermata a passeggiare nel parco, pensando e ripensando a lui. Non era fuggita dalla miseria della campagna salentina per innamorarsi di un marinaio. Adesso finalmente lavorava in una fabbrica di munizioni per la Marina. La guerra per lei era stata una vera manna: aveva un lavoro e guadagnava quanto un uomo, inoltre divideva con due ragazze come lei una stanza con cucina in città, cose che solo qualche anno prima sarebbero state solo dei bei sogni. Non aveva bisogno di perdere la testa per un marinaio, del nord poi. Ora che per la prima volta che nel suo cielo oscuro si apriva uno spiraglio di luce o poteva mandare tutto alla malora per amore? Non seppe cosa rispondere ma sentì struggersi il suo cuore. Maledetti quegli occhi da bambino.

    Il marinaio scelto Toletti Amedeo, da Chioggia, era da poco salito sul barcarizzo di dritta che lo aveva portato sulla coperta della Leonardo da Vinci. Da lì era sceso a poppa, nell'alloggio che condivideva con Lecciano, un tipo strano, taciturno, ma pulito e gentile, che veniva dall'Elba.

    Amedeo fungeva da attendente a quella gran brava persona che era il tenente di San Giuliano, per questo aveva un buco in fondo agli alloggi ufficiali di poppa e lavorava a mezza comandata nella lavanderia. Se a questo si aggiungeva che poteva scendere a terra tre volte a settimana e che in un anno di guerra la nave non era mai uscita dal porto, si sentiva davvero fortunato. Stare ore e ore con i piedi immersi nell'acqua gelida della laguna a pescare caparossoli non era una gran vita, e vie d'uscita da quella situazione miserabile ce n'erano gran poche. Quando quel sergente mezzo addormentato alla visita militare gli aveva chiesto che lavoro fai? aveva risposto subito pescatore e quello s'era creduto che fosse un vero marinaio imbarcato su qualche peschereccio e l'aveva fatto abile alla leva di mare. Era stata una gran fortuna. E adesso c'era questa ragazza: Carmelina. Sì, proprio fortunato.

    Mentre la tromba suonava il brand'abbasso, prese un pacchetto di sigarette, uscì dal suo alloggio, salì al ponte di batteria e da un portello posto dietro la torre da 305 di poppa uscì sulla coperta. A bordo non era permesso fumare, ma la disciplina era tutt'altro che stretta: tutti, ufficiali compresi, lo facevano.

    L'aria aveva un forte odore di vegetazione che proveniva da terra. La grande nave era immersa in un'aureola di densa oscurità. Tenne il mozzicone della sigaretta all'interno del cavo della mano perché non si vedesse la brace: un'abitudine presa da milioni di soldati. Si appoggiò alla paratia di acciaio che puzzava di vernice fresca e di carbone e guardò in su, verso la torre sopraelevata di poppa. Vide i cannoni lunghi quindici metri e pesanti sessanta tonnellate puntati silenziosamente nel buio. I pezzi principali della nave gli incutevano sempre un certo timore. Conosceva il boato tremendo di una salva completa che partiva e quella concussione che faceva tremare tutta la nave: 25.000 tonnellate d'acciaio che vibravano come una pentola che bolle.

    Domani li avrebbe sentiti quei cannoni: era prevista un'esercitazione di tiro in mare. Per questo avevano caricato i proietti nella santabarbara di poppa e annullato tutte le franchigie. Pazienza, avrebbe rivisto Carmelina il giorno dopo.

    Sta tento ai teroni lo avevano ammonito al suo paese, ma quella ragazza era diversa, sembrava davvero in gamba: faceva l'operaia come un uomo, viveva da sola, rideva e sembrava sempre felice. Certo faceva molta fatica a intendere quando lei gli parlava in quel dialetto impossibile, ma si capiva che era una ragazza intelligente. Un po' piccola forse, ma tutto sommato carina, sì, carina, e fresca e gaia come acqua di montagna. E poi cosa poteva pretendere un marinaio ignorante come lui. Sì: si sentiva fortunato. Era un po' presto per fare dei progetti e poi c'era la guerra. Si vedrà, pensava, sabato l'avrebbe portata a bere una cioccolata calda, magari con le paste.

    Il boato sordo troncò i suoi pensieri, sollevò il pavimento della coperta fino al trincarino e lo spinse contro la paratia alle sue spalle. Istintivamente guardò su, verso i cannoni. Erano immobili, i tappi di volata ai loro posti sulle bocche. Ci fu un lungo minuto di silenzio irreale. Amedeo corse alla battagliola e guardò giù, verso l'oscuro e vitreo scintillio dell'acqua e lo scafo incrostato di salsedine e di alghe.

    Sull'aletta di plancia si accese un proiettore che cominciò a sciabolare l'acqua intorno alla nave. Una sirena cominciò a gracchiare dal ventre della corazzata.

    Una mina? pensò Amedeo. Possibile? In porto? In quel momento ci fu un secondo boato, più forte, e vide le assi della coperta verso poppa inarcarsi e schiantarsi. Un siluro? La nave non aveva le reti parasiluri posizionate in quel momento e i buttafuori erano addossati alle murate.

    Istintivamente tornò a guardare il mare ma, a parte gli alberi possenti delle altre corazzate ormeggiate accanto, non riuscì a vedere nulla. Adesso i riflettori erano molti e illuminavano tutta la nave, da prua a poppa, e decine di metri di mare intorno. Una sirena dalle parti della stazione di tiro prodiera suonava ininterrottamente, si sentiva anche una campana.

    Amedeo restò un momento indeciso poi, cautamente scese nel ponte di batteria. Vi regnava un silenzio irreale e vi aleggiava un fumo rossastro che bruciava la gola. Riluttante e cauto scese nel ponte corazzato. Qui il fumo era nero e acre. Fu colto dalla paura e, per la prima volta da quando era imbarcato, pensò che la nave potesse affondare, trascinandolo con sé. Improvvisamente intravide delle figure nel fumo che venivano avanti. Riconobbe il tenente di San Giuliano:

    «Signor tenente, state bene?»

    «Amedeo? Sei tu? Sì, credo di sì.»

    Aveva le mani e il volto anneriti dal fumo, lo sguardo alluci- nato.

    «Dicono che c'è il fuoco nella barbetta e negli elevatori della torre di poppa numero cinque, ma con tutto questo fumo non si vede niente. Mi hanno detto che ci sono degli uomini intossicati laggiù. Bisognerebbe raggiungere le valvole per allagare i depositi, ci sono decine e decine di cariche ammucchiate là sotto. Non ho ancora visto le squadre di sicurezza.»

    Ci fu un boato sordo e il pavimento si sollevò di mezzo metro. Due marinai li superarono e corsero via, verso le scale e i ponti superiori. Amedeo li guardò preoccupato.

    «Non c'è tempo signore, è pericoloso. Dobbiamo andar via anche noi.»

    Il tenente si guardava intorno, confuso: «Ma se nessuno apre quelle valvole rischiamo di perdere la nave. Cerchiamo il tenente Barzini del Controllo Danni.»

    Un sibilo acutissimo percorse il corridoio seguito da una raffica di boati. Amedeo prese per il braccio il suo superiore e lo trascinò verso la scala.

    «Ma se il fuoco raggiunge la santabarbara?» protestò l'ufficiale, ormai in una sorta di trance.

    «Appunto, dobbiamo uscire subito!» e lo tirò decisamente per la manica.

    In quel momento, come un immagine al rallentatore, Amedeo vide la paratia di fondo aprirsi come una scatola di sardine, le lamiere di ghisa fucinata sciogliersi come neve al sole e un pozzo di fuoco rosso lo inghiottì.

    Carmelina sentì come un tuono e salì in piedi sulla panchina per vedere meglio. Dal fumaiolo di una delle navi saliva una colonna di fuoco e scintille alta trenta metri. Come fuochi artificiali le vampe si specchiavano sull'acqua immobile della rada. I raggi dei riflettori fendevano la notte come ciechi cavalli imbizzarriti. Alla loro luce Carmelina vide la grande nave inclinarsi lentamente e capovolgersi. Un sipario di fumo si stese sull'acqua.

    II

    Il capitano Vincenzo Martini, dei Reali Carabinieri, dopo aver avuto la febbre anche quella notte, decise di fare una visita all'ospedale da campo 335 per farsi dare un'occhiata alla mano.

    Era stato ferito il 20 di maggio, giornata infausta per le armi italiane, nel pieno dell'offensiva che gli austriaci avevano scatenato sull'Altopiano di Asiago quella primavera. Dopo quasi due mesi la cicatrice era ancora arrossata, la mano gli doleva e una febbre subdola lo spossava.

    L'ospedale era stato trasferito da Canove a Lusiana a seguito della ritirata italiana. Lo comandava il capitano medico Ferdinando Savinio, grande amico di Martini, che in quel momento fumava un toscano all'ombra della tenda che fungeva da ufficio.

    I folti capelli neri ben pettinati e i baffi curati nascondevano un poco il volto pallido e tirato:

    «Vincenzo! Qual buon vento! Sono quindici giorni che non ti fai vedere» disse, con il buonumore che lo sorreggeva anche nei momenti più difficili, «sei fortunato: il tritacarne sembra aver fatto una pausa e abbiamo il tempo di scolarci un prosecchino che attende in ghiacciaia.»

    Le sconsolanti e monotone controffensive di luglio sui monti Interrotto, Mosciagh e Zebio, che erano costate 3.800 uomini tra morti e feriti, si erano arenate. Nei boschi dell'Altopiano si dissanguavano ancora inutilmente le brigate Sassari, Piacenza, Perugia, Spezia e Friuli. Gli alpini, dopo tredici ore di bombardamento ininterrotto erano riusciti a riprendere il Monte Cimone, ma lì erano rimasti, aggrappati con le unghie, così l'intero fronte si era stabilizzato.

    Presero due sedie da campo e si sedettero all'ombra.

    «Ho bisogno di un parere professionale, Ferdinando» esordì Martini dopo che ebbe tagliato lo spago e stappato la bottiglia di prosecco, «ho sempre qualche linea di febbre e questa mano mi fa male.»

    Savinio controllò la mano e palpò con cura i linfonodi ascellari e del collo dell'amico, poi disse:

    «Vincenzo, se non ti curi sul serio rischi la mano. Mi spiace, io non posso fare di più, stavolta devi andare in un ospedale vero. Francamente, e te lo dico come medico oltre che come amico, hai bisogno di un po' di riposo. Credo che anche tu lo sappia. Sei stato ferito durante l'offensiva, hanno tentato di ammazzarti più volte gli austriaci e anche i nostri. Anche tu hai raggiunto il tuo limite. I cattivi sono morti, gli austriaci sono stati fermati, ora puoi riposare un po' anche tu, non credi?»

    «Hai ragione. Oltretutto qui, dopo che anche gli alpini si sono scornati sul Monte Zebio, credo non succederà più niente per un bel pezzo. Per quest'anno gli Austriaci non li ricaccia più nessuno: Cadorna ormai ha la testa sull'Isonzo, noi quassù non gli interessiamo più.»

    «Se ti fa piacere anch'io me ne vado a casa per un po'» concluse Savinio sollevando il suo bicchiere, «sono stati tre mesi difficili, possiamo dirlo. Ne abbiamo viste e passate di cotte e di crude anche se siamo stati più fortunati di tanti amici. Ti faccio un certificato medico, penso che non dovresti avere difficoltà ad andare a curarti a Livorno, a casa tua.»

    «Sarebbe bello: manco da casa dall'inizio della guerra.»

    «Parti alla svelta allora, e spassatela più che puoi: il tritacarne comincerà a girare di nuovo molto presto, credi a me.»

    Il giorno dopo Martini aveva sbrigato tutte le formalità presso il Comando Truppe Altopiano e con il suo certificato medico in tasca stava ficcando gli effetti personali nella cassetta militare, mentre felice e leggero stava pensando a un insperato ritorno a casa, quando l'appuntato Pelagalli lo avvisò che il maggiore Marchetti, responsabile dell'Ufficio I della I Armata, lo cercava al telefono.

    Marchetti era un alpino trentino, che aveva passato quindici anni a esplorare clandestinamente tutte le vallate della sua regione, a infiltrarvi informatori, a scoprire quelli del nemico e a costruire, pezzo su pezzo, l'intelligence militare. Era un alpinista appassionato della montagna e grande amico di Martini, con cui aveva condiviso numerose imprese.

    Una spiacevole sensazione colse Martini mentre rispondeva.

    «Ciao Vincenzo. Ho saputo che te ne vai a curarti a Livorno. Avrei un lavoretto per conto della Marina proprio lì. Potresti unire l'utile al dilettevole: una convalescenza aperta. Tutto il tempo che ti serve. Un indagine facile facile, proprio nel cortile di casa.» La voce simpatica, dallo spiccato accento trentino, era cordiale anche se stanca e strascicata.

    «Per la Marina?» Martini era sulla difensiva.

    «Sì, è una situazione che necessita di una certa diplomazia: sai i servizi della Marina sono molto suscettibili, per questo ho pensato a te. Poi sei già sul posto.»

    «Posso davvero prendermi tutto il tempo che voglio?»

    «Certo. Ti aspetto domani a Verona, al comando d' Armata, e ti do i dettagli.»

    «Tullio, non mi stai dando una fregatura vero?»

    «Ma come! Io ti offro una vacanza al mare e tu sei così sospettoso?»

    «Sta bene, ci vediamo domani. Ti saluto.»

    Verona luccicava sotto il sole d'agosto. La gente era tornata per strada e a sorridere dopo la grande paura di giugno, quando aveva creduto che orde di tedeschi tornassero in riva all'Adige, dopo appena cinquant'anni di assenza. Martini si concesse un bicchiere di soave in un caffè della Bra prima di recarsi al suo appuntamento. Soldati montavano la guardia davanti al Municipio e alla Granguardia e camion militari passavano sferragliando sotto l'Arco dell'Orologio, diretti verso la stazione, tuttavia la piazza era gremita, quasi come al solito, di una folla variopinta. Le servette si affrettavano con le rigonfie borse della spesa e distinti signori e funzionari statali, con cappello o paglietta, dalle luccicanti catene d'orologio sul panciotto, leggevano i quotidiani ai tavolini, sorseggiando vino rosso. Eleganti signore dagli occhi brillanti dietro le velette si gustavano il caffè con la panna.

    Martini osservava con curiosità ma con un certo distacco le coppie che andavano e venivano stringendosi la mano e scambiandosi teneri sguardi, lasciando allentare con indulgenza la tensione accumulata in oltre un anno in prima linea. Sarebbe troppo bello se la felicità costasse così poco, pensava. La felicità non è una cosa di cui un giorno si entra in possesso quasi si trattasse di un'eredità e poi averne cura e custodirla per evitare che qualcuno ce la rubi. La felicità va inventata di volta in volta, è imprevedibile, va tenuta accesa come un cero votivo. Pensava ai camerati pidocchiosi, pigiati nelle trincee muffose a consumare miseri ranci, a passare notti insonni nel terrore. Si sentiva un poco in colpa ma non poteva fare a meno di gustare quel sole e quel vino. Era vivo ed era lontano dal fronte, questo solo contava, anche se in guerra non sai mai cosa ti porterà il domani.

    Il maggiore Tullio Marchetti lo aspettava nel suo ufficio, il solito virginia masticato in bocca e nuove borse sotto gli occhietti penetranti.

    Martini spostò una pila di carte da una sedia e sedette di fronte al responsabile del Ufficio Informazioni Militare della Iª Armata.

    «Ciao Vincenzo. Non ci siamo più sentiti dopo il tuo ultimo caso. Mi dispiace per come è finita: tu avresti dovuto avere una medaglia per aver trovato quel serpente. Ma lo sai come funzionano le cose in Italia: da una parte un ufficiale superiore pluridecorato, un esponente di spicco dell'aristocrazia, dall'altra tre bambine, pezzenti e analfabete. Un suicidio inspiegabile: oplà, tutto insabbiato. Come va la tua ferita.»

    «Così, così. Ma non mi lamento.»

    «Ti premetto che questa cosa

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