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Muri di Silenzio
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Muri di Silenzio

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About this ebook

La vita è crudele a volte. Anche se sembra una fiaba.

Maria sa che il lupo cattivo è solo una finzione per spaventare i bambini. Poi un giorno scopre che il male esiste davvero, con tutte le sue ombre oscure.

Sulle montagne della Sicilia, Maria vive un'infanzia felice, fino al fatidico giorno della sua prima comunione, quando la sua vita cambia per sempre.

Gli eventi che seguono la porteranno lontana dalla sua terra fino alle strade di Milano. Riuscirà mai più a fidarsi di qualcuno?

Ambientato nell'Italia movimentata degli anni sessanta, Muri di silenzio è la storia di una ragazza che deve trovare il coraggio e la forza per sopravvivere al tradimento della famiglia e ai pregiudizi del suo paese.

LanguageItaliano
Release dateJan 11, 2019
ISBN9781386675143
Muri di Silenzio

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    Muri di Silenzio - Helen Pryke

    Altri libri di Helen Pryke

    Cielo d’Autunno

    Non tutto l’abuso è fisico. Non tutto l’abuso lascia dei lividi. Ma per tutte le vittime di abuso, non è mai facile liberarsi.

    Dopo anni di abuso psicologico ed emotivo, Julia deve trovare il coraggio di affrontare la verità sul suo matrimonio con Simon. Riuscirà a uscire da questo incubo con l’aiuto della sua amica migliore, Becky, o continuerà a nascondere la testa sotto la sabbia? 

    Il Segreto della Guaritrice (Gli Innocenti #1)

    La vita di Jennifer non sta andando molto bene. Licenziata dal suo lavoro e sull’orlo del divorzio a trentun anni, ripone la sua speranza di sopravvivenza in una bottiglia di vino. Decide di ascoltare il consiglio della madre di lasciarsi alle spalle tutto ciò che la lega all’Inghilterra, accettando con malavoglia di scoprire le sue radici italiane in Toscana.

    Una volta in Italia, nell’antico casolare di famiglia, si trova invischiata in una misteriosa tragedia di cui nessuno è a conoscenza, o forse non vogliono parlarne. Scavando sempre di più nella storia dei suoi antenati, scoprirà di essere legata a quel luogo e alle sue origini in una maniera che non credeva possibile.

    I fantasmi del passato potrebbero aiutarla a riscoprire qualcosa che pensava di aver perduto: la speranza nel futuro. Ma tutto dipenderà se avrà la forza di non farsi trascinare di nuovo dalle cattive tentazioni, una forza che potrà trovare solo in se stessa.

    Riuscirà mai a sconfiggere i suoi demoni interiori e scoprire il segreto della guaritrice?

    Helen Pryke scrive anche libri per ragazzi come Julia E. Clements

    Il Castello dei Malasorte

    Dreamland – Il Paese dei Sogni

    Per Ivan, la mia luce nel buio

    PROLOGO

    I CARABINIERI MI TROVARONO mentre camminavo lungo le strade di Roma alle due di un venerdì notte, con il mio pigiama fradicio di nevischio gelido. Rischiavo di morire di ipotermia. All’improvviso i lampeggianti della loro macchina mi colpirono e una voce gentile mi chiese se stavo bene. Incapace di rispondere, gli lasciai mettere una coperta sulle mie spalle e salii in auto.

    Guardavo il movimento dei tergicristalli mentre attraversavamo la città e mi addormentai seguendo quel sibilo ipnotico. Non mi accorsi più di niente fino al giorno dopo, quando mi svegliai in ospedale. Il crollo fu attribuito alla morte di mia moglie, per un cancro, solo poche settimane prima. Non sono uno psicologo, ma non ci voleva molto a capirlo. Dopo una lunga chiacchierata con un dottore mi mandarono a casa con una ricetta per gli antidepressivi e altri appuntamenti all’ospedale. Appena entrai in casa, buttai la ricetta, staccai il telefono e mi chiusi dentro, lontano dal mondo cattivo là fuori.

    Mi hanno detto che è stato un esaurimento spettacolare, ma non ricordo molto. Ho soltanto vaghe memorie di una faccia emaciata e spettrale che mi guardava dallo specchio, di aver strascicato senza sosta i piedi nell’appartamento, come se stessi cercando qualcosa che non avrei mai più trovato, di aver preparato piatti di cibo che toccavo appena, e poi li appoggiavo ovunque, su tutti gli spazi utili della cucina, finché non debordavano nel lavandino.

    Sì, erano brutti tempi e sono contento di non ricordarli. Se non fosse stato per Antonella, penso che sarei andato a letto e non mi sarei più alzato. Volevo soltanto raggiungere mia moglie. Antonella, con i capelli lunghi e scuri, la pelle olivastra e liscia, e il sorriso onesto e aperto che le illuminava il volto. Assomigliava così tanto alla mamma che mi faceva male guardarla. Mi ha concesso due settimane per sguazzare nel dolore, poi un giorno è entrata in casa e ha cominciato a riordinare l’appartamento.

    La sentivo raschiare via il cibo coagulato nei piatti abbandonati, poi il rumore della porcellana mentre caricava la lavastoviglie. Si muoveva con calma nell’appartamento, pulendo, riordinando, rimettendo ordine nella mia vita mentre restavo sdraiato sul divano, facendo finta di dormire. Con i miei occhi socchiusi, sentivo la sua presenza vicino a me e sapevo che, nonostante le sue braccia conserte e la posizione aggressiva, stava sorridendo.

    «Tocca a te, papà» disse, non ingannata dal mio aspetto comatoso. Protestando a gran voce, lasciai che mi guidasse fino al bagno dove mi passava sapone, shampoo e rasoio elettrico.

    «Ti aspetto fuori» disse, con le mani sui fianchi.

    Chiusi la porta e mi chinai sopra il lavandino, già esausto. Alzai lo sguardo allo specchio ed esaminai lo sconosciuto davanti a me. Una folta barba ispida colorata di grigio gli copriva il mento, c’erano macchie scure sotto i suoi occhi privi di emozioni e la sua faccia aveva il colore e la consistenza della pasta della pizza.

    «Non sei un bello spettacolo» mormorai, e mi misi al lavoro.

    Mezz’ora dopo uscii dal bagno, con un aspetto e un odore migliori. Antonella non c’era, ma sentivo un buonissimo profumo provenire dalla cucina. Per la prima volta da tanto tempo avevo appetito e il mio stomaco mi avvisava brontolando.

    «Eccoti, papà, mi stavo preoccupando» disse Antonella mentre entravo in cucina. Era girata di schiena e stava mischiando qualcosa nella pentola sui fornelli che mi faceva venire l’acquolina in bocca.

    «È stata un’impresa dura» scherzai, sedendomi a tavola. Notai che aveva usato la porcellana migliore di sua madre e sentii un dolore improvviso nel petto.

    «Sembri più umano adesso» commentò, guardandomi con occhio critico, portando la pentola a tavola. Doveva aver visto la mia espressione addolorata mentre fissavo il piatto davanti a me.

    «Mi dispiace papà, non c’erano altri piatti, erano tutti sporchi» si scusò.

    «Va bene» riuscii a dire, e poi mi accorsi cosa stava succedendo. Sorrisi. «Veramente, è okay. Tua mamma diceva sempre che dovevamo usarli per festeggiare... beh, oggi è quello che facciamo, festeggiamo.»

    «Un brindisi al futuro» disse Antonella. Sollevò il suo bicchiere di acqua e sorrise, poi allungò la mano e prese la mia, schiacciandola in modo rassicurante. La sua espressione tenera assomigliava così tanto a quella di sua madre che mi vennero le lacrime agli occhi e all’improvviso mi mancò il fiato. Scacciai via le lacrime e le sfiorai la guancia, pensando che ero fortunato ad averla.

    «Mangiamo, ho una fame da lupo!» esclamai, e ridemmo insieme, tutti e due.

    Pian piano diventò più facile. Ogni giorno mi sentivo più forte, ogni cosa che riuscivo a fare mi portava un passo più vicino alla normalità. Antonella veniva a trovarmi quattro o cinque volte alla settimana e mi telefonava tutti i giorni, parlando di tutto e di niente ma sapevo che lo faceva per controllare che mi fossi alzato. A me non dispiaceva, sarebbe stato molto facile sprofondare di nuovo nell’oblio.

    Alla fine mi sentivo abbastanza forte per affrontare l’ultimo ostacolo nel mio percorso di guarigione. Telefonai ad Antonella.

    «Potresti venire qui questo week-end?» chiesi. «Voglio mettere via le cose di tua madre.»

    C’era silenzio, poi la voce preoccupata di Antonella. «Sei sicuro di sentirti pronto?»

    «No» risposi. «Ma se non lo faccio adesso, non lo farò mai.»

    «Okay, papà, arriverò sabato pomeriggio» promise.

    Fedele alla sua parola, il citofono suonò alle tre e mezza di sabato pomeriggio. Mi abbracciò e restammo lì come due idioti, sentendoci stranamente imbarazzati per un attimo.

    «Ho una bottiglia di Pinot in frigo» dissi. «Mi sa che ne avremo bisogno.»

    Tirare fuori dall’armadio i suoi vestiti fu la parte più difficile. Avevano ancora addosso il suo profumo e se chiudevo gli occhi potevo rivederla. Mi nascosi la faccia nel suo maglione preferito e inalai l’odore, ignorando le lacrime che mi rigavano le guance.

    «Papà?»

    Scossi la testa. «Va tutto bene» dissi, la voce smorzata dal maglione. «Soltanto ricordi di tempi più belli, Anton.» Era vero: mi ricordavo mia moglie in piedi, voltata verso di me, i suoi capelli neri che svolazzavano nel vento. Rideva per qualcosa che avevo detto, un commento stupido che doveva aver trovato divertente. Mi accorsi di sorridere mentre ci pensavo, il ricordo cristallino nella mia mente.

    Avevamo infilato quasi tutto in scatole di cartone, che Antonella avrebbe portato a casa sua. Nessuno di noi voleva dare i vestiti in beneficenza. Solo il pensiero di vedere qualcuno camminare per strada nei suoi abiti mi faceva sentire un brivido freddo lungo la schiena. Antonella stava tirando fuori scatole di scarpe e sacchetti di plastica dall’armadio, le ultime cose che dovevamo controllare prima di caricare tutto nella sua macchina. Aprì ogni scatola con cura, controllando il contenuto e sospirando di tanto in tanto.

    «Cos’è questo?» chiese all’improvviso.

    «Un paio di scarpe?» suggerii. «Quella è una scatola di scarpe, Anton.»

    Mi fissò. «So cos’è. No, questo.» Tirò fuori un quaderno formato A4 dalla scatola, i bordi usurati e strappati come se fosse stato maneggiato tante volte. Lo aprì: le pagine erano piene della distinta calligrafia di sua madre, pagina dopo pagina, ognuna riempita dalla cima al fondo.

    «La mia storia, che non ho mai raccontato» lesse Antonella. La sua voce vacillò. «Gli eventi, belli e brutti, che mi hanno portato fino a te.» Chiuse il quaderno e me lo passò. «Secondo me, dovresti leggerlo tu» mormorò.

    Presi il quaderno e lo tenni a distanza, con il cuore che batteva forte. Sentii il sangue scorrere nella mia testa mentre intuivo l’enormità del regalo che mi aveva lasciato. Non avevo più detto il nome di mia moglie dal giorno che era morta. Era l’unico modo che avevo per non impazzire. Sapevo che, se aprivo quel quaderno, avrei sentito la sua voce un’ultima volta mentre mi raccontava la sua storia. E sapevo che avrei potuto impazzire se lo avessi letto. E sapevo anche che avrei rischiato perfino quello per avere l’opportunità, finalmente, di sapere tutto, fin dall’inizio.

    «Maria» sussurrai. Aprii il quaderno e cominciai a leggere insieme a mia figlia.

    PRIMA PARTE: LA STORIA DI MARIA, SICILIA

    CAPITOLO UNO

    I RICORDI D’INFANZIA sono una farfalla che si posa su un fiore. Proprio quando pensiamo di essere abbastanza vicini da poterla toccare, vola via su ali tremolanti, lasciandoci con una sensazione di frustrazione.

    È strano come alcuni ricordi siano ancora chiari nella nostra mente, mentre altri svaniscano, dimenticati. Quando siamo giovani, le vacanze estive appaiono sempre magiche, soprattutto quando abbiamo otto anni: lunghe giornate calde nelle quali possiamo dimenticare tutto quello che abbiamo imparato a scuola durante l’anno, dove ci sono miriadi di opportunità per finire nei guai e i nostri genitori non lo sapranno mai.

    Nitida come l’immagine di una farfalla dai colori esotici vista alla televisione, mi ricordo ancora l’avventura di quell’estate del ’58, l’ultima volta che mi sono sentita veramente libera prima dell’evento che ha capovolto il mio mondo e cambiato tutto per sempre. Abitavo a Ferla, e avevamo più libertà del solito. Quando uscivamo di casa alla mattina, le nostre mamme mentre sbrigavano le loro faccende potevano stare tranquille che non ci sarebbe successo niente mentre giocavamo insieme, proprio come avevano fatto loro da bambine. Mai avrebbero immaginato che saremmo diventati piccoli selvaggi che correvano come pazzi nei campi, non appena eravamo lontani dalla loro vista.

    ERA UNA GIORNATA CALDA e afosa di agosto, faceva caldo persino per Ferla. Corsi lungo il sentiero, sollevando nuvole di polvere mentre mi precipitavo verso il nostro luogo d’incontro segreto appena dopo il campo di grano. Andai verso una macchia di cespugli di ginepro dove i miei amici mi stavano aspettando da molto tempo. Mi spinsi attraverso i rami spessi, incurante dei graffi, finché con un’ultima spinta caddi nell’area sgombra nel mezzo dei cespugli.

    Sorrisi alle facce sorprese dei miei amici e mi buttai a terra accanto a loro. «Mi dispiace per il ritardo» dissi, senza fiato per la mia corsa. «Papi mi ha preso proprio quando stavo per uscire e continuava dirmi di non fare tardi stasera.» Sogghignai e mossi la mano come se fosse una bocca che parlava. «Ci saranno degli ospiti, quanto pare.»

    «Va beh, sei qui adesso» disse Beppe. «Ti aspettiamo soltanto da mezz’ora.»

    «Ah, lasciala stare, Beppe» ribatté Sara. «Non è che arrivi sempre in ritardo.»

    Beppe mi fissò, la sua faccia severa lo faceva sembrare molto più vecchio dei suoi otto anni, e poi all’improvviso sorrise. «Sì, hai ragione» ammise. «Noi ragazzi dobbiamo restare uniti contro gli adulti, eh?» Tutti annuirono, leali nella ribellione.

    «Allora, che programmi abbiamo?» chiesi, guardando i miei amici. Ci conoscevamo dal primo giorno di scuola ed eravamo inseparabili, tutti e cinque. C’era Giuseppe, soprannominato Beppe, un ragazzo alto e robusto con la pelle olivastra e occhi castano scuri scuri con le ciglia lunghe e nere che erano l’invidia di tutte le ragazze. I suoi capelli erano così corti che stavano su diritti, come le spine di un riccio.

    Sara era completamente diversa: era così piccola che tutti pensavano avesse cinque o sei anni. La pelle chiara e capelli lunghi e biondi la facevano sembrare una bambola di porcellana. Era così delicata che quasi avevi paura di toccarla per non farle male. La maggior parte delle persone non capivano che sotto il suo aspetto angelico c’era una vena birichina che l’avrebbe fatta finire nei guai seri, se non fosse stata difesa dal suo volto innocente. La cosa che ti colpiva di più era il colore degli occhi, un blu brillante che rispecchiava proprio la tonalità del mare vicino alla città dov’era nata, e che facevano sospirare sua madre con nostalgia ogni volta che li guardava. Ferla si trova su in montagna, lontano dalla costa, lontano dal villaggio di pescatori dove sua madre era cresciuta.

    Luca e Beniamino erano gemelli e siciliani in tutto e per tutto. Non tolleravano sciocchezze da nessuno e spesso litigavano con ragazzi molto più grandi. Ma erano fedeli e se eri un loro amico, eri amico per sempre, e ti avrebbero difeso fino alla fine. Ho avuto prova di questa fedeltà una volta, quando una ragazza di terza aveva deciso di inseguirmi. Luca e Ben mi trovarono nel cortile, un giorno, in mezzo ai miei libri sparsi per terra, caduti dallo zaino rotto, insieme ai bottoni

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